Ci sono dischi che passano e altri che restano, quelli che sembrano scritti su misura per noi e quelli che hanno la capacità di raggiungere un pubblico vasto. Poi ci sono i dischi che dicono molto più di quanto appare in un primo momento e perciò non riusciamo a tenere il passo. Infine quelli che d’un tratto spariscono dalle piattaforme di streaming, e sì che è una tragedia.
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Nel novembre del 1976, il democratico Jimmy Carter venne eletto alla Casa Bianca sulla scia dello scandalo Watergate di alcuni anni prima, che nel 1974 costrinse alle dimissioni l’allora presidente Richard Nixon. Qualche mese addietro, per la precisione a marzo, era uscito il 14esimo album in studio di Marvin Gaye: I Want You. Non c’è un nesso evidente, ma entrambe le circostanze hanno rappresentato un’istantanea significativa degli Stati Uniti all’epoca, con un timido riflesso nella convulsa attualità.
I Want You è stato per Marvin Gaye un disco piuttosto intimo e il seguito ideale dell’acclamato Let’s Get It On. Gaye stava attraversando una fase instabile – eufemismo – del suo matrimonio con Anna Gordy, mentre intratteneva una relazione con una donna tanto più giovane, Janis Hunter, che sposerà dopo il divorzio dalla prima. Subito I Want You risultò essere, quindi, almeno in superficie, un album dedicato al nuovo amore – inutile sottolineare che finì male pure questo –, un’ode al desiderio fisico e alla sensualità di cui, già in Let’s Get It On appunto, si era fatto carico. Non per forza va considerato uno strappo rispetto al suo lavoro più impegnato, What’s Going On del 1971. Semplicemente, Marvin Gaye alludeva al sesso (anche) come strumento di ribellione e di maggiore consapevolezza dell’estetica nera in un periodo in cui la ribellione e la maggiore consapevolezza dell’estetica nera, residui del ‘68 e delle proteste contro la guerra in Vietnam, erano ormai consuetudine. Ma in definitiva i richiami espliciti di Gaye, specie in Soon I’ll Be Loving You Again, erano una formula espressiva più complessa, alla stessa maniera di brani (seppur diversissimi) pubblicati all’inizio del decennio: Mercy Mercy Me (The Ecology) – esempio di istanze ecologiste tradotte in musica – o Inner City Blues (Make Me Wanna Holler) – che metteva in luce, persino agli occhi della società bianca, le vite ai margini nei “ghetti” delle metropoli statunitensi.
Dal punto di vista economico i ‘70 furono anni tumultuosi, caratterizzati da un paio di crisi energetiche (1973 e 1979), che ebbero ripercussioni pesanti su inflazione e mercato del lavoro. Nel 1971 l’amministrazione Nixon decise di adottare, alla vigilia delle presidenziali e con lo scopo di rilanciare l’economia in parte condizionata dalla guerra nel sud-est asiatico, nuove politiche monetarie, preambolo ad un periodo di “montagne russe”: il 15 agosto il presidente annunciò l’inconvertibilità del dollaro in oro, stravolgendo gli accordi di Bretton Woods. Tutto ebbe inizio con un discorso e culminò, nel 1979, ancora con un discorso: stavolta quello sul malessere di Jimmy Carter.
Altri tempi e altri contesti, ma le analogie con quanto stiamo osservando da mesi non mancano. La pandemia e le misure di stimolo all’economia – in particolare, a detta di molti osservatori, il programma da 1.900 miliardi di dollari voluto dal presidente Biden – hanno innescato negli Stati Uniti un’impennata dell’inflazione, riducendo il potere d’acquisto delle famiglie. Nel frattempo la guerra in Ucraina e l’attuale crisi energetica non danno una mano. Sette cittadini statunitensi su dieci, afferma il Pew Research Center, definiscono l’inflazione il problema più grosso da affrontare nel paese, seguono l’accesso all’assistenza sanitaria (55%) e la criminalità violenta (54%). Secondo il Bureau of Labor Statistics, a maggio l’inflazione è cresciuta dell’8,6% su base annua, l’aumento più ampio da dicembre 1981, mettendo fuori dalla portata di molti la spesa per il cibo o il carburante e l’affitto per la casa. Neanche a dirlo, tanto negli anni ‘70 quanto oggi, le comunità nere sono le più colpite dalle difficoltà economiche.
Ora, intendiamoci, immaginare Marvin Gaye che pensa maniacalmente all’inflazione e ai problemi di chi fatica ad arrivare alla fine del mese, mentre scrive e compone con Leon Ware I Want You, sarebbe un azzardo per chiunque, ma la musica nera americana ha dalla sua una straordinaria tradizione di testimonianza che attraversa i generi, un mix di protesta e feste, memoria storica e balli scalmanati, corpi straziati e pose plastiche, un antidoto, cioè, alla paura e alla sofferenza. Sono oltretutto gli elementi alla base della nascita dell’hip hop – quando non si chiamava Hip Hop e ancora non era un vero e proprio movimento – in una New York decadente e sull’orlo della bancarotta, con i roghi, le macerie, i palazzi distrutti del South Bronx, i blackout e tutto il resto. Questo sentimento, a tratti contraddittorio, viene restituito dalla cover di I Want You, che in principio era un’opera dell’artista Ernie Barnes, The Sugar Shack.
Barnes era ed è a tutt’oggi considerato uno dei più importanti, nonché talentuosi artisti neri, con una storia singolare: prima di cominciare sul serio a dipingere aveva giocato a football a livello professionistico. A partire dai primi anni ‘70 la sua mostra itinerante, The Beauty Of The Ghetto, che includeva The Sugar Shack, fu una lodata riproduzione della vita dei neri in America e dal 1976 l’opera venne inserita nella sigla della sitcom Good Times, che nelle ultime due stagioni ha avuto nel cast anche una giovanissima Janet Jackson. Leggenda vuole che nello stesso periodo Marvin Gaye ed Ernie Barnes facessero conoscenza. Dopo avergli chiesto il permesso di usare The Sugar Shack per la copertina di I Want You, Barnes “aggiornò” la versione del dipinto destinata all’artwork, inserendo i riferimenti al disco di Gaye. L’opera raffigura un’improvvisata e gremita sala da ballo, una sorta di Soul Train ante litteram e in clandestinità, con i corpi allungati e attorcigliati, a esasperare le movenze e il rituale del divertimento: reminiscenze giovanili a Durham – racconterà in seguito l’artista –, nella segregata North Carolina del 1952.
Nel 1997 le cose negli Stati Uniti sembravano andare decisamente meglio. L’economia cresceva, il tasso di disoccupazione si attestava ai minimi storici, l’inflazione era sotto controllo. Per Bill Clinton, galvanizzato dalla rielezione, ogni occasione pubblica era utile a rimarcare quanto il paese godesse di buona salute. Anche i dati sul crimine segnavano un miglioramento, di sicuro erano in miglioramento rispetto ai primi ‘90 quando New York arrivò a contare più di duemila omicidi l’anno, Los Angeles e Chicago quasi mille, Philadelphia e Boston raggiungevano a loro volta valori record. In materia di sicurezza tutti erano pronti a scommettere sulla bontà delle proprie ricette: Clinton con il Violent Crime Control and Law Enforcement Act del 1994; Rudy Giuliani, a New York, con la sua “tolleranza zero” e così via. Nel frattempo avanzavano le nuove tecnologie, internet e le telecomunicazioni. Giunto alla presidenza l’indomani delle rivolte di Los Angeles, Clinton ambiva alla realizzazione della prima, vera democrazia post-razziale, un obiettivo che il secondo mandato lo costringeva a premere sull’acceleratore. A giugno 1997 intervenne all’università di San Diego, anticipando molti dei temi che oggi ricorrono sulla composizione demografica del paese, ma già a maggio, alla Casa Bianca, aveva preso un’iniziativa tutt’altro che scontata: chiese scusa ad alcuni sopravvissuti, in rappresentanza della comunità nera, per gli orribili esperimenti di Tuskegee.
Insomma, l’America di Clinton si riappropriava del sogno e si auto-proiettava nell’età dell’oro: più posti di lavoro, benessere diffuso, stop alle barriere razziali, i peccati del passato espiati. Quello che gli Stati Uniti non potevano sapere è che poco più tardi il presidente in carica sarebbe stato travolto dagli scandali sessuali, e questo era il meno: nell’arco di una decina di anni l’11 settembre 2001, la guerra al terrorismo e la crisi dei mutui subprime avrebbero oscurato quella visione ottimistica e di prosperità.
Comunque, nel 1997, ancora non c’era ragione di temere il peggio. Ma era un pezzo di narrazione. Nei quartieri neri tante persone erano reduci dall’epidemia di crack, la disoccupazione era molto più alta della media, così i reati e la legge sul crimine del ‘94 stava contribuendo ad incrementare il fenomeno dell’incarcerazione di massa, coinvolgendo in modo sproporzionato le minoranze. Brooklyn celebrò The Notorious B.I.G., poi toccò ad Harlem fare altrettanto con Betty Shabazz, la vedova di Malcolm X, mentre per le radio e per le strade da qualche mese risuonava Uptown Saturday Night dei Camp Lo, che fu il tentativo (riuscito) di riportare tutti con i piedi per terra in un balzo temporale all’indietro, senza soluzione di continuità.
I Camp Lo – Sonny Cheeba e Geechi Suede – esordirono con un disco che stava parecchio in fissa con gli anni ‘70 (Uptown Saturday Night è anche il titolo di un film del 1974 con Sidney Poitier e Bill Cosby), orientato all’eccentricità dei testi e all’esaltazione dell’opulenza, in linea con l’era blaxploitation. La cover di Dr. Revolt era invece una reinterpretazione di The Sugar Shack di Ernie Barnes e compare nel video del singolo Black Nostaljack AKA Come On, in perfetto stile Good Times.
Il 28 gennaio 2022 Uptown Saturday Night ha compiuto 25 anni.
L’8 maggio Kendrick Lamar ha pubblicato The Heart Part 5, che campiona I Want You, la title track del disco del 1976 di Marvin Gaye.
Il 12 maggio The Sugar Shack di Ernie Barnes è stato venduto all’asta da Christie’s per 15,2 milioni di dollari, 76 volte la stima più alta.
Altre cose interessanti
La scorsa settimana è infine arrivata la sentenza della Corte Suprema che ribalta la Roe v. Wade del 1973, annullando di fatto il diritto all’aborto negli Stati Uniti. La decisione era attesa, nessuna sorpresa, ma pone lo stesso una lunga serie di interrogativi. In materia, per il momento, la palla passa in mano ai singoli Stati, ma la questione politica cela non poche insidie, soprattutto in vista del voto di novembre per il rinnovo del Congresso. Affrontarle tutte, le insidie, sarebbe ora impossibile e in piena onestà non ritengo questa la sede più appropriata. Tuttavia l’argomento l’avevamo trattato qualche settimana fa a modo nostro, ricordando un vecchio pezzo dei Digable Planets, La Femme Fetal. Allego il link alle volte qualcuno avesse necessità o voglia di recuperare la puntata per intero.
A proposito di arte, è morto all’età di 88 anni Sam Gilliam, tra i più influenti artisti neri della sua generazione.
Ketanji Brown Jackson ha giurato come giudice della Corte Suprema, prima donna nera della storia.
R. Kelly è stato condannato a 30 anni di carcere per abusi sessuali commessi ai danni di giovani donne e ragazze minorenni.
Diddy ha ottenuto un riconoscimento alla carriera agli ultimi BET Awards e durante l’esibizione, che ha ripercorso alcuni dei suoi più grandi successi dai tempi trascorsi alla Uptown Records fino alla Bad Boy, ha dedicato I’ll Be Missing You (uscita nel 1997 per ricordare Biggie) all’ex compagna Kim Porter, morta nel 2018. In occasione dello show è tornato sul palco anche Shyne, che oggi fa il politico ed è leader di opposizione alla Camera dei rappresentanti in Belize (la sua è una storia incredibile che un giorno varrà la pena raccontare).
Il sogno americano, spiegato nel 2022
(grazie a Fabio Negri per la segnalazione)
Ci stiamo avviando verso la chiusura della stagione con i consueti consigli per l’estate, ma intanto grazie per aver letto fino in fondo. Nel frattempo, manteniamo vive le buone abitudini: domande? Suggerimenti? Potete rispondere alla mail, oppure scrivermi su Instagram o su Twitter. Se Mookie vi piace, mandate il link alle amiche e agli amici!
Appuntamento alla prossima puntata, allora. Ciao e a presto!