Washington, 6 gennaio 2021. Il luogo e la data resteranno impressi nella memoria. L’irruzione al Congresso della bandiera confederata, una polizia più disattenta che in altre occasioni, una sommossa a tratti comica condotta da persone la cui ideologia era fin troppo evidente.
Ma sono successe anche altre cose. In Georgia, per dirne una, il 5 gennaio è stato eletto Raphael Warnock, il primo senatore afroamericano dello Stato, già pastore battista della Ebenezer Church di Martin Luther King. Pensiamo, allora, a quello che dovrà fare Biden nei prossimi quattro anni.
Bentrovati su Mookie!
Solo qualche giorno fa – perché l’America è anche questo – le mani di una ottantaduenne che raccoglievano il cotone di qualcun altro hanno potuto votare per il figlio più giovane in corsa per diventare senatore degli Stati Uniti.
Decoded di JAY-Z è il miglior libro sull’hip hop scritto da un insider. Secondo il vostro fedelissimo, almeno. È un testo a metà tra memoir e guida, scandaglia ogni aspetto culturale e lo relaziona alla propria esperienza. A un certo punto, tra quelle pagine, JAY-Z non fa mistero di ritenere un tocco di genio l’intro di Juicy, dove Biggie Smalls rivolge delle “dediche speciali” per il suo album di esordio, Ready To Die.
("Fuck all you hoes!" Get a grip, motherfucker!)
Yeah, this album is dedicated
To all the teachers that told me I'd never amount to nothin'
To all the people that lived above the buildings that I was hustlin' in front of
Called the police on me when I was just tryin' to make some money to feed my daughter (it's all good)
And all the niggas in the struggle
You know what I'm sayin'? It's all good, baby baby
Tra le persone tirate in ballo anche quelle che dai palazzi chiamarono la polizia mentre lui si stava dando da fare in strada – cioè: vendeva droga – per sfamare sua figlia. Ma il passaggio da sottolineare è questo: And all the niggas in the struggle.
«Struggle», «lotta», spiega JAY-Z, è un termine di solito usato per parlare dei diritti civili, ma qui Notorious B.I.G. lo eleva ad un livello concettuale diverso: si riferisce ai ragazzi che ogni giorno si sbattono per ottenere qualcosa, un tema che verrà approfondito nella traccia subito successiva, Everyday Struggle. Ricorda ancora JAY-Z che «la nostra “lotta” non era organizzata e nemmeno coerente, non c’erano leader di questo “movimento”». Dunque la lotta di Biggie e JAY-Z prima che diventasse JAY-Z – e di tutti gli altri meno fortunati – era una questione di «fai» o «muori». Un destino talvolta inevitabile e descritto, per restare su Ready To Die, in Things Done Changed che, come osserva Ta-Nehisi Coates in un articolo del 2003 per The Village Voice, aveva definito «lo scisma» tra gli afroamericani del movimento per i diritti civili e le generazioni successive lacerate dall’epidemia di crack. Biggie conobbe la prigione, JAY-Z la evitò per un pelo.
Il fatto è noto: gli Stati Uniti hanno la più vasta popolazione carceraria al mondo, anche se il Pew Research Center conferma che ora il tasso di reclusione si attesta al livello più basso degli ultimi due decenni. Ma il problema di fondo resta e riguarda gli afroamericani più di qualsiasi altro gruppo sociale. Alla situazione concorrono diversi fattori, che comprendono il sistema giudiziario, quello penale e carcerario e le pratiche concesse in dote alla polizia, sebbene sia più corretto parlarne al plurale: polizie. Altri fattori determinanti sono le condizioni economiche, la segregazione, il pregiudizio nei confronti delle minoranze, tutti quegli elementi, insomma, che è molto facile presupporre quando si parla di America. Dalla metà degli anni ‘70 si è registrato, soprattutto nelle prigioni statali, un incremento esponenziale delle incarcerazioni, il che spiega perché potrebbe essere riduttivo addossare ogni responsabilità per il fenomeno dell’incarcerazione di massa al Violent Crime Control and Law Enforcement Act del 1994. La sua “colpa”, semmai, è di avere contribuito ad una crescita aggiuntiva del tasso di incarcerazione – oggetto di indagine di alcune recenti opere di successo quali il libro The New Jim Crow di Michelle Alexander e il documentario Netflix, XIII emendamento –, pur al cospetto di una diminuzione della criminalità che si è cominciata ad osservare gradualmente dalla seconda metà dei ‘90.
Ci sono ulteriori aspetti che rendono oggi il dibattito molto interessante: il Violent Crime Control and Law Enforcement Act firmato dal presidente Clinton fu redatto, in buona parte, dal prossimo inquilino della Casa Bianca, Joe Biden, che all’epoca era presidente della Commissione Giustizia del Senato e tra gli esponenti liberal più inclini ad un duro approccio contro il crimine. Il provvedimento introdusse tutta una serie di reati anche minori per cui si poteva finire dentro, inasprì le pene in alcune fattispecie a livello federale e incoraggiò i singoli Stati a fare altrettanto, teorizzò la misura dei “tre colpi” che – dove applicata – prevede l’ergastolo per chi abbia già ricevuto tre condanne (incluse quelle per reati di piccola entità), allargò la lista delle pene di morte, stanziò fondi per la costruzione di nuove carceri e adottò una legge contro la violenza sulle donne, circostanza, quest’ultima, che nel 1994 spinse addirittura Bernie Sanders a votare a favore dell’intero impianto dopo aver rifiutato una precedente versione. Sia chiaro: Biden non sostenne ogni singola misura, ma in generale poco è cambiato da allora.
C’erano delle ragioni (anche) politiche perché avvenne tutto questo. I democratici miravano a fare propria una questione – sicurezza e ordine pubblico, molto sentita in quegli anni – che era appannaggio dei repubblicani dai tempi di Nixon. Le conseguenze, dalla war on drugs in poi, furono un crescente e giustificato ricorso a metodi violenti da parte della polizia e leggi che, nel loro insieme, penalizzarono oltremodo i neri. Ad esempio l’Anti-Drug Abuse Act del 1986 – sponsorizzato, tra gli altri, proprio da Biden – istituì una disparità di condanna tra crack e cocaina a “favore” della seconda e, poiché il consumo di crack interessava maggiormente gli afroamericani, quest’ultimi continuarono ad affollare le carceri. Una svolta, in questo senso, arrivò soltanto nel 2010 con il Fair Sentencing Act, ma nel frattempo “l’epidemia” era passata, mentre rimanevano danni incalcolabili. Come ricorda Ta-Nehisi Coates in un saggio di qualche anno fa sul tema, spesso si è trattato (si tratta) di giovani padri senza lavoro – ecco che torna Biggie, ma con diverse fortune (escluso quanto gli è capitato nel 1997) – che difficilmente, una volta di nuovo fuori, riusciranno a trovare un impiego o ad evitare la strada. Oppure mettiamola in quest’altro modo: per un nero con la fedina penale sporca ottenere presto un’occupazione è praticamente impossibile rispetto ad un bianco nella medesima situazione. Spesso non sono storie solo individuali, ma si riflettono a cascata sulle famiglie, senza via di scampo.
Se vogliamo, unendo i puntini, è la cornice entro cui si sviluppa il gangsta rap. Ed è anche il motivo, per riprendere il discorso che fa JAY-Z in Decoded, per cui la vita dell’hustler è riuscita sempre a catturare un’audience globale. JAY reputa questo insieme di cose la «definitiva storia umana, la storia della lotta, che è ciò che ci definisce tutti». Per quanto il gangsta rap sia ormai in declino – nonostante l’exploit di 50 Cent potesse suggerire altri scenari, Ta-Nehisi Coates la pensava così già nel 2003 per ragioni pratiche e contestuali, non ultima la diminuzione dei crimini violenti e il lento tramonto dell’epidemia di crack che accennavamo sopra (sia messo agli atti che, stilisticamente, il colpo di grazia è stato assestato nel 2004 con il debutto di Kanye West) –, c’è un mondo di “rapine e pistole” che ancora ci affascina in quanto pubblico. Il guaio è che fuori dalla fiction quasi mai queste vicende finiscono bene per davvero.
Mettere fine all'epoca dell'incarcerazione di massa era uno degli obiettivi dichiarati di Hillary Clinton nel 2016 (l’ex presidente Bill, nel 2015, quando la moglie aveva già annunciato la sua candidatura alla Casa Bianca, ammise in un intervento all’assemblea annuale della NAACP di aver firmato nel 1994 una legge che aggravò il problema anziché risolverlo), adesso la stessa ambizione coinvolge il presidente eletto Biden e la sua vice Kamala Harris, visti i non pochi tentativi a vuoto e, ancor di più, i troppi casini di questi anni. Perché il “sistema” ha creato da dentro una serie di storture reiterate nel tempo, come la profilazione razziale, che sono il risultato, consapevole o no, di 400 anni vissuti “sull’orlo del pregiudizio”, al netto di qualsiasi progresso che ovviamente c’è stato. Quando a gennaio 2020 Michael Bloomberg, da poco in corsa per le presidenziali, ha chiesto scusa per la rigida applicazione da sindaco di New York dello stop and frisk – diretta emanazione della «tolleranza zero» voluta da Rudy Giuliani prima di lui – non ha fatto altro che stendere l’ennesimo velo di ipocrisia.
Biden non ha negato gli errori del passato, ma spesso si è anche difeso dalle critiche per il suo contributo alla stesura del Violent Crime Control and Law Enforcement Act, sostenendo che la legge (in quanto federale) non ha generato un aumento delle incarcerazioni, poiché la stragrande maggioranza dei detenuti si trova dietro le sbarre di una prigione statale. Fatto sta che il suo piano di riforma illustrato in campagna elettorale include la depenalizzazione di reati legati alla marijuana, la cancellazione delle pene minime obbligatorie per crimini non violenti, l’abolizione della pena di morte e la chiusura delle carceri private. Più complesso il discorso relativo alle polizie locali, che non dipendono direttamente da Washington (se ne parlò a lungo dopo l’uccisione di George Floyd a Minneapolis). La stessa Harris potrà rivelarsi un’alleata indispensabile per la riforma. Contraria alla pena di morte, da procuratrice distrettuale di San Francisco promosse nel 2005 un’iniziativa chiamata Back on Track il cui scopo era il rapido reinserimento sociale per gli autori di reati di droga di basso profilo, attraverso l’ottenimento di un diploma di scuola superiore o di un impiego. Più avanti, da procuratrice generale della California, estese tale iniziativa in altre parti dello Stato. Ma anche lei, come Biden, ha dovuto fare i conti con le critiche da sinistra a seguito di disposizioni ritenute in contrasto con le idee più progressiste in materia.
Ora, stando alle informazioni del Pew Research Center, il tasso di reclusione tra i neri è diminuito negli Stati Uniti del 34% in poco più di dieci anni. Alla fine del 2018 si contavano 1.501 detenuti ogni 100.000 adulti dello stesso segmento demografico, in calo dal 2006 quando erano 2.261 ogni 100.000. Una diminuzione ha interessato anche gli ispanici e i bianchi, ma a ritmi inferiori. Il dato sconcertante è che i neri rappresentano il 12% della popolazione adulta e il 33% di quella carceraria, mentre i bianchi sono il 63% degli adulti americani e il 30% dei detenuti. Non un granché per chiamarlo “miglioramento”.
Le testimonianze dirette di rapper sulla vita in carcere di certo non mancano, né i prodotti che riflettono sulle conseguenze di una detenzione o di una vicenda giudiziaria estenuante (molte docuserie, alcune come Free Meek o Time: The Kalief Browder Story, entrambe grazie a JAY-Z). Un documento formidabile e incredibilmente autentico è però il disco di Drakeo the Ruler, Thank You For Using GTL, pubblicato a giugno 2020. Il rapper di Los Angeles ha passato parecchio tempo in galera ultimamente, in un percorso giudiziario a tappe durato circa quattro anni. È uscito infine a novembre, tutto si è risolto con un patteggiamento (non che sia uno stinco di santo, intendiamoci), ma il suo è uno strano caso che mette in mezzo un omicidio (da cui è stato assolto), la musica giudicata “violenta” e l’appartenenza ad un gruppo rap che in realtà – questa in sostanza l’accusa – è una gang (decisione a quanto pare stabilita anche sulla base dei testi delle canzoni). In California essere membro di una gang può essere condizione sufficiente, in specifiche situazioni, per finire in cella. Thank You For Using GTL è stato registrato interamente dalla prigione – perciò un esperimento più estremo dell’intro di The Burrrprint (2) di Gucci Mane dieci anni fa – e si presenta come un mix di denuncia e speranza, il classico album che per realizzazione e contenuti manda ai pazzi i tipi di Pitchfork. Ma c’è di più: alla fine di ogni pezzo “telefonico” si sente la voce pre-registrata che dice, appunto, «thank you for using GTL». Il GTL è uno dei principali servizi per la gestione delle chiamate dalle prigioni statunitensi, non è eccezionale e costa pure tanto. Un salasso per i familiari dei detenuti, che non sempre possono recarsi in visita nei penitenziari e affrontare chilometri e chilometri di distanza. Da un po’ si parla di fissare i costi per le chiamate, se non renderle gratuite.
La pacificazione dell’America passa anche per queste cose qui.
Ci siamo detti abbastanza. Quello affrontato oggi è un tema molto complesso, che non si può esaurire in un’unica puntata della newsletter. Magari ci torneremo, se sarà il caso. Intanto, però, auguriamo una pronta guarigione a Dr. Dre. Se Mookie vi piace – lo so che vi piace – ditelo agli amichetti del cuore e fateli iscrivere! Potete rispondere a questa mail per sapere cosa farò nel weekend o per parlare di qualsiasi cosa abbiate bisogno.
Alla prossima settimana, ok? A presto!