Ebbene sì, non ho potuto evitarlo, parliamo di Mr. Morale & The Big Steppers. Ma non è una recensione – questo è un lavoro che altri sanno fare decisamente meglio –, più un tentativo di unire i puntini, sempre che se ne avverta davvero il bisogno. Immagino Kendrick Lamar che si sganascia dalle risate mentre legge le decine di interpretazioni del suo ultimo disco, puntualmente sbagliate. E questa potrebbe essere una delle tante.
Bentrovati su Mookie, la newsletter che «be humble, sit down».
As I get a little older, I realize life is perspective
And my perspective may differ from yours– Kendrick Lamar, The Heart Part 5, 2022
Iniziamo con una confessione.
Di Kendrick Lamar non sono un fan della prima ora. Appartengo a quella schiera di ex giovani, cresciuti a pane e Tupac, convinti che dopo la golden age – beninteso: la propria golden age – niente sarebbe stato abbastanza, almeno non allo stesso modo, come se Kanye West, per dire, non fosse mai passato per le nostre vite. Kendrick Lamar, invece, è la risposta alle tassative obiezioni generazionali – un castello di carte perlopiù – che non ti fanno riconoscere il talento, la maturità e l’arte anche se il talento, la maturità e l’arte sono enormi. Ci si arrocca su determinate posizioni, si scorgono i primi capelli bianchi e poi, finalmente, ecco l’illuminazione, arrivata una volta per tutte con To Pimp a Butterfly, album pubblicato in un periodo molto importante per me, segnandolo, se possibile, in qualche misura.
Neppure good kid, m.A.A.d city era stato “abbastanza” nel mio irremovibile fanatismo anni ‘90 (ma nel frattempo ho cambiato idea su questa e molte altre cose…), mentre la tardiva scoperta di Section.80 si è poi rivelata un’autentica folgorazione. È un’ammissione di colpa che dovevo, a maggior ragione oggi che Kendrick Lamar viene celebrato ovunque, o quasi.
And (I love myself)
Huh, when you lookin’ at me, tell me what do you see?– Kendrick Lamar, i, 2014
C’è un filo che lega Mr. Morale & The Big Steppers ai precedenti lavori, incluso DAMN. del 2017, il lato più spirituale del suo percorso. C’è, nel doppio disco di Kendrick Lamar appena uscito, il quadro evolutivo di una serie di elementi che danno la visione d’insieme, passando per gli eventi più drammatici e significativi degli ultimi anni, che lui interiorizza al massimo, sommandoli al proprio vissuto e rielaborandoli in un lungo, ostico, ma terapeutico processo introspettivo, così da decodificarli in un formato che giunge nuovo alle orecchie di chi ascolta. Ci sono i traumi che ritornano e che caratterizzano l’esperienza afroamericana – tra figure paterne messe in discussione, stereotipi, abusi, violenza, dipendenze e salute mentale precaria – ora aggravati dalle più recenti prove, la pandemia su tutte. Quella di Kendrick Lamar è opera neorealista, che anche se osservata da lontano affascina perché crea illusione, rendendo ammissibile ciò che nella quotidianità dei protagonisti è, al contrario, intollerabile. In definitiva, introiettando il male e portandolo in superficie, Kendrick Lamar assomiglia all’uomo invisibile di Ralph Ellison.
Sebbene la sua visione sia bigger than hip hop, è questo il perimetro entro cui si muove. E per quanto vi siano tratti che possono apparire comuni alle vicende umane – e lo sono, in effetti –, non dobbiamo avere la pretesa di comprendere ogni cosa, non solo perché la bussola punta sempre a Compton, ma soprattutto per un aspetto che marginale non è, ovvero che l’hip hop – per dirla con la professoressa di Studi afroamericani alla Princeton University, Imani Perry, nel suo fondamentale libro del 2004 per gli amanti del genere, Prophets Of The Hood – è una tipica espressione dell’arte afroamericana, al netto, cioè, del carattere universale che nel tempo il movimento è stato in grado di assumere, in principio per le peculiarità linguistiche, per la collocazione politica all’interno della società statunitense e per le forme, musicali e culturali, riconducibili alle tradizioni nere. In questo senso il rap di Kendrick Lamar è un’emanazione diretta dell’improvvisazione jazzistica, con ritorni al punto di partenza e momenti di approfondimento, che derivano dalle dimensioni inedite che lo avvolgono, come la genitorialità – di qui il sentimento di protezione, seppur controverso, ritratto da Renell Medrano per la cover di Mr. Morale & The Big Steppers (sul tema torna alla mente il già citato Ta-Nehisi Coates in Between The World And Me) – o il raggiungimento di un grado superiore di consapevolezza, lo step successivo che tale condizione porta in dote.
When Kanye got back with Drake, I was slightly confused
Guess I’m not mature as I think, got some healin’ to do
Egotistic, zero-given fucks and to be specific (Ah)
Need assistance with the way I was brought up (Ah, ah)
What’s the difference when your heart is made of stone
And your mind is made of gold
And your tongue is made of sword, but it may weaken your soul?– Kendrick Lamar, Father Time, 2022
Il sincretismo di Lamar era però parso evidente in diverse occasioni, in passato, specie in To Pimp a Butterfly. The Blacker The Berry era un brano contro il razzismo, inequivocabilmente contro il razzismo, ma anche contro l’atteggiamento talvolta ipocrita della comunità nera, non sempre in grado di tenersi alla larga dalle proprie contraddizioni. Era un invito a riflettere, a interrogarsi, a guardare oltre gli steccati ideologici, in una fase di crescente polarizzazione e di inizio Black Lives Matter, tra Trayvon Martin e Michael Brown. Infatti se ne discusse molto, nel 2015, anche perché il fatto di essere ritenuto da tutti, fan e critici, l’artista più maturo della sua generazione (qui un assaggio dal 2009), in qualche modo mise Kendrick Lamar, all’epoca come oggi, al centro dell’attenzione e al cospetto della tragicità degli avvenimenti già prima dell’uscita dell’album.
So why did I weep when Trayvon Martin was in the street
When gang-banging make me kill a nigga blacker than me?
Hypocrite!– Kendrick Lamar, The Blacker The Berry, 2015
In quel frangente Kendrick Lamar diede impulso ad un dibattito che nella sua struttura organica poneva addirittura le basi per alcuni dei temi che pochi anni dopo, dalla cancel culture in poi, avrebbero occupato parecchio del nostro tempo oltre a quello, guarda caso, di Mr. Morale & The Big Steppers. Il secondo momento di svolta è contraddistinto da Alright, una sorta di inno generazionale – e con questa abbiamo esaurito il bonus per l’utilizzo dell’aggettivo “generazionale” –, intonato durante le proteste al termine della presidenza Obama e, ancora, nel 2020.
Alls my life, I has to fight, nigga
Alls my life, I
Hard times like, “Yah!”
Bad trips like, “Yah!”
Nazareth
I’m fucked up, homie, you fucked up
But if God got us, then we gon’ be alright– Kendrick Lamar, Alright, 2015
Ciò che Kendrick Lamar pare voglia dire ripetutamente alla sua gente è: sono tempi difficili, tutto va a rotoli, eppure possiamo mantenere viva la speranza. Come ha scritto Hanif Abdurraqib in Finché non ci ammazzano, «Alright, più di ogni altro pezzo contenuto in To Pimp a Butterfly, ha rappresentato una vera novità e si è imposta come una canzone capace di far da colonna sonora a questo nuovo movimento storico, capitanato da giovani neri di qualsiasi estrazione: donne nere, universitari neri, comunità di neri queer e trans. La musica nera che si erge a simbolo di un movimento è stata spesso lo specchio di cosa significhi essere neri in America - è speranza radicata in un credo, ma continua comunque a guardarsi spesso le spalle in cerca di una via d’uscita [...]. È un brano che si aggrappa a un’idea di speranza associata soprattutto alla spiritualità, ma ha anche il potere di arrivare alla gente. Quando Kendrick Lamar, prima che parta il ritornello, ci dice I’m fucked up / Homie, you fucked up, è come se ci autorizzasse a crogiolarci in ciò di cui abbiamo bisogno per sentirci vivi, qualsiasi cosa sia [...]. Mentre in passato c’erano tante canzoni che promettevano un paradiso nuovo e migliore, Alright non promette altro se non che il dolore c’è e ne arriverà altro [...]. Quindi Alright ci esorta, piuttosto, a festeggiare la vita nonostante tutto [...]. Kendrick Lamar dice “Dio protegge tutti noi” e quel noi si lancia dalle casse per abbracciare i neri in sala. Allo stesso modo in cui un buon predicatore dice noi in una chiesa afroamericana facendo mormorare l’intera congregazione». Forse, allora, in uno scenario che nel suo complesso si mostra più incerto che mai, è da considerare del tutto normale la citazione (che Lamar abbrevia) di Fannie Lou Hamer in untitled 02 | 06.23.2014 (untitled unmastered., 2016): «I’m sick and tired of being sick and tired».
Messo tutto in prospettiva, come la vita appunto, Mr. Morale & The Big Steppers è la chiusura del cerchio. Vista così non stride che sia l’ultimo album con la TDE. Alcuni ritengono di trovare in questa, come nelle altre opere, un po’ di W. E. B. Du Bois e Booker T. Washington, con la differenza che l’antitesi di pensiero viene impersonata dal solo Kendrick Lamar. Magari è troppo, ma un pezzo di crescita personale (e, perché no, di progresso collettivo) emerge in Auntie Diaries che, dopo Smile di JAY-Z, mette un punto, ora definitivo (non senza strascichi di polemica), su una questione a lungo tabù all’interno del movimento hip hop – dunque escludendo artisti di fama recente – e, più in generale, delle numerose sacche di conservatorismo nero.
Demetrius is Mary-Ann now
Remember church, Easter Sunday?
I sat in the pew, you had stronger faith
More spiritual when these dudes were living life straight
Which I found ironic ‘cause the pastor didn’t see him the same
He said my cousin was going through some things
He promised the world we living in was an act on abomination
And Demetrius was to blame
I knew you was conflicted by the feelings of preacherman
Wondering if God still call you a decent man
Still you found the courage to be subservient just to anoint
Until he singled you out to prove his point, saying
“Demetrius is Mary-Ann now
Church, his auntie is a man now”, it hurt
You the most ‘cause your belief was close to his words
Forcing me to stand now
I said, “Mr. Preacherman, should we love thy neighbor?
The laws of the land or the heart, what’s greater?
I recognize the study she was taught since birth
But that don’t justify the feelings that my cousin preserved”
The building was thinking out loud, bad angel
That’s when you looked at me and smiled, said, “Thank you”
The day I chose humanity over religion– Kendrick Lamar, Auntie Diaries, 2022
Per la sua capacità di descrivere la realtà che lo circonda, Kendrick Lamar è stato spesso accostato ai grandi del passato. Stavolta il parallelismo con Marvin Gaye è risultato naturalmente più facile, grazie anche al campionamento di I Want You in The Heart Part 5, ultimo capitolo della serie che di solito anticipa l’uscita del nuovo album. Di sicuro c’è del Marvin Gaye inizio anni ‘70 – quello di What’s Going On per capirci – in Kendrick Lamar, ma anche il primo ha avvertito la necessità di chiudere il cerchio a un certo punto. Me lo ha fatto notare Fabio Negri di SLRVLTN, conversando a proposito di Mr. Morale & The Big Steppers. Perciò, in chiusura, lascio volentieri la parola a lui:
Gli ultimi giorni del 1978 sono segnati dall’uscita di Here My Dear di Marvin Gaye (15 dicembre). Che è un disco, doppio anche questo, creato durante una delle sue grandi crisi: quella del deteriorarsi del suo rapporto con la moglie e il conseguente trauma del divorzio.
La parola chiave in questo caso è “trauma”. Here My Dear è figlio dell’artista in eterno conflitto con se stesso e questa volta anche con la vita. Un disco che racconta quel periodo, racconta quel Marvin Gaye e racconta il suo punto di vista su Anna Gordy, sulle relazioni, sulla testimonianza di come le vite possano cadere con un tonfo lungo un’ora e dieci minuti. Quasi quanto Mr. Morale & The Big Steppers che è il disco di Lamar dopo il blocco dello scrittore durato due anni, ma non è questo il punto. Il punto torna alla parola chiave, “trauma”. Nel 1978 la musica soul tocca i suoi punti più oscuri con Here My Dear e nel 2022 l’hip hop tocca i suoi punti più controversi con Mr. Morale & The Big Steppers. Kendrick Lamar non ha rilasciato interviste, forse non ne servono se si leggono i testi. L’evidenza che si parli di traumi è palese. In ogni traccia. Due dischi che non sono “commerciali”. Due dischi che sono di due artisti mainstream. Due dischi che mettono in piazza il non detto dal mainstream, senza alcun pudore.
The pressure’s taking over me, it’s beginning to loom
Better if I spare your feelings and tell you the truth
Lately, I redirected my point of view
You won’t grow waitin’ on me
I can’t live in the Matrix, huh
Rather fall short of your graces, huh
This time I won’t trade places, huh
Not about who’s right, who’s wrong, huh
Evolve, the only thing known, huh
Ask me when I'm coming home, huh
Blink twice again, I’m goneI choose me, I’m sorry
I choose me, I’m sorry
I choose me, I’m sorry
I choose me, I’m sorry
I choose me, I’m sorry
I choose me, I’m sorry– Kendrick Lamar, Mirror, 2022
Quando un artista riesce a mettere (quasi) tutti d’accordo, è frequente imbattersi in una qualche forma di appropriazione emotiva. Kendrick Lamar non è da meno, come se lo sforzo di capire Kendrick Lamar possa spettare ad una persona sola: chi ne sta scrivendo. Però è la dimostrazione che molte delle cose di cui parla Kendrick Lamar possono riguardarci, benché culturalmente distanti, soprattutto nell'egotismo. Se anche io ho dato l'idea di aver ceduto il passo alla tentazione, beh, allora scusate.
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