Salutandoci per la pausa estiva, ci siamo lasciati con un grosso interrogativo: sarà Biden o no il candidato dem alle presidenziali di novembre? I segnali di un brusco cambiamento in vista c’erano tutti, ma c’erano anche quelli di un mantenimento dello stato delle cose. Il presidente e molte delle persone che gli stanno attorno continuavano a dire pubblicamente che sarebbe rimasto in corsa, ma le voci di un ritiro imminente erano via via più insistenti. Ed è andata a finire così, infatti. Solo che prima e nel mentre è successo tanto di più: un fallito attentato a Donald Trump a pochi giorni dalla convention repubblicana di Milwaukee, la scelta (controversa e alquanto dibattuta) di J.D. Vance quale suo running mate, la nomina in extremis – e inaspettatamente ricca di entusiasmo – di Kamala Harris e Tim Walz tra i democratici. E per concludere, il ritiro anche di Robert F. Kennedy Jr, il quale ora sostiene Trump.
Inoltre è accaduto che in maniera per nulla slegata dagli avvenimenti che abbiamo riassunto in appena dieci righe, la musica è tornata al centro della campagna elettorale. Dopo aver passato mesi a lamentare lacune in questo senso, fatte le dovute eccezioni almeno, qualcosa si è innescato di nuovo. Forse su un piano più teorico che pratico, ma visto l’andazzo è comunque meglio di niente.
Eccoci, allora. Passata una bella estate? Spero proprio di sì. Riprendiamo il percorso che ci accompagnerà fino al 5 novembre e oltre. Questa sarà una newsletter riepilogativa delle puntate precedenti, o meglio, delle puntate che non lo sono state, per poi soffermarci nelle prossime settimane su argomenti più specifici.
Ciao! Qui Mookie, una newsletter di Fabio Germani che racconta pezzi sparsi di America attraverso il rap e la musica nera. Per contribuire al progetto, basta poco: un like, una condivisione, il passaparola, un caffè. Come di consueto, alla ripresa dei lavori, grazie di cuore per essere ancora all’ascolto e un caloroso benvenuto alle nuove iscritte e ai nuovi iscritti. Si parte!
Quando ormai era chiaro che Kamala Harris sarebbe diventata la candidata democratica alla Casa Bianca, sui social è ricomparso un video del 2023 in cui si vede la vicepresidente uscire da un negozio di dischi a Washington, dopo aver acquistato alcuni classici della musica nera. La sua relazione con la musica è strettissima, come racconta nell’autobiografia Le nostre verità: sua madre amava i gospel, suo padre era un fan del jazz, Thelonious Monk, John Coltrane e Miles Davis. Harris ha ribadito questo legame nel suo intervento alla convention di Chicago, che si è tenuta dal 19 al 22 agosto, ricordando la “presenza” in casa, da bambina, di Aretha Franklin, Coltrane e Davis (Coltrane, in particolare, tornerà più avanti per un’ulteriore riflessione a tema presidenziali).
Quello che potrebbe apparire piuttosto un esercizio stilistico è in realtà un modo per rimarcare quali siano le radici culturali, l’educazione ricevuta, le cose in cui crede. Non è affatto banale: alcuni giorni prima Trump aveva messo in discussione l’identità razziale di Harris, partecipando alla convention della National Association of Black Journalists. Harris è figlia di migranti (madre indiana e padre giamaicano) e si è sempre definita nera, senza per questo rinnegare le origini miste della famiglia, un quadro in continua evoluzione della società statunitense. L’inno della campagna Harris è Freedom di Beyoncé, un brano pubblicato nel 2016, paradigmatico del periodo Black Lives Matter, mentre all’orizzonte rifletteva – anche se non potevamo ancora saperlo – la perlopiù inattesa presidenza Trump. In Freedom, Beyoncé invita gli ascoltatori a mettersi in marcia con lei, ma è soprattutto la presa di coscienza, definitiva, del fardello che le donne nere in America sono costrette a sopportare. Nel video (all’interno del visual album di Lemonade) vengono omaggiate Sybrina Fulton, Gwen Carr, Lezley McSpadden e Wanda Johnson, madri di Trayvon Martin, Eric Garner, Michael Brown (di Garner e Brown ricorre il decennale della morte) e Oscar Grant. Il 2016 avrebbe in seguito fatto conoscere i nomi di Alton Sterling e Philando Castile, il 2020 – altro anno elettorale in un intreccio drammatico e surreale quale è stata la pandemia – quelli di Breonna Taylor e George Floyd, ma c’è molto del 2016, da entrambe le parti, che sembra ora tornare di attualità (e anche questo lo vedremo tra poco).
I’ma wade, I’ma wave through the waters
Tell the tide, "Don't move"
I’ma riot, I’ma riot through your borders
Call me bulletproof
Lord, forgive me, I’ve been runnin’
Runnin’ blind in truth
I’ma wade, I'ma wave through your shallow love
Tell the deep I’m new– Beyoncé, Freedom, 2016
Ad accompagnare Harris nella sua imprevista «brat summer» c’è stato Tim Walz, governatore del Minnesota, in principio non conosciutissimo a livello nazionale, pur essendo molto popolare nel suo Stato e un immediato campione di meme online. Come il “gioco” «To the Window…to the WALZ!!!», riferimento alla hit del 2003 di Lil Jon & The East Side Boyz (Lil Jon che peraltro ha fatto un’irruzione alla convention dem in rappresentanza della Georgia, uno degli Stati da non trascurare il giorno delle elezioni). Anche Walz ha un rapporto mica male con la musica: sostenitore di Taylor Swift e Beyoncé, l’anno scorso firmò un disegno di legge che rinomina un tratto della State Highway 5 in Prince Rogers Nelson Memorial Highway, lì in Minnesota, nel mezzo di una pomposa cerimonia all’insegna del viola.
Prima di arrivare al momento del ritiro (annunciato il 21 luglio), Biden era intervenuto alla convention annuale della NAACP e aveva concesso un’intervista a BET (Black Entertainment Television). Sulla carta erano passaggi normali, ma nel pieno di voci scoraggianti sul suo futuro politico, assumevano un’importanza particolare. I democratici non hanno mai avuto ragione di temere brutte sorprese dal “voto nero”, tuttavia nelle settimane precedenti, sondaggi alla mano, al riguardo era emersa più di una preoccupazione. I consensi per Biden tra gli elettori neri risultavano in calo e per Trump in lieve aumento. Tale riallineamento nemmeno era una novità assoluta (è sufficiente recuperare i dati del 2020), ma a un certo punto ha imposto alla campagna dem un cambio di rotta, che si è tradotto in ingenti investimenti pubblicitari in Stati come la South Carolina già alle primarie. Dunque, per Biden, era opportuno farsi vedere in luoghi dove recuperare terreno. È stato inoltre intervistato da Speedy Morman per Complex e nell’occasione i due hanno parlato dei rapper – tipo Lil Wayne e Kodak Black – che si dicono a favore di Trump, un fenomeno che Mookie ha analizzato spesso di recente. Biden si era detto scettico sulla presunta devozione degli artisti hip hop per il suo predecessore e ha ricordato di avere iniziato a fare politica in un ambiente forgiato dalla segregazione razziale e di essere stato eletto grazie alla comunità nera.
In una conversazione alla radio con Charlamagne Tha God, Biden fu protagonista quattro anni fa di un inciampo dialettico: il famigerato «se hai problemi a decidere per chi votare, allora non sei nero». Alla convention repubblicana, il deputato del Michigan, John James, non si è lasciato sfuggire l’opportunità di fargli il verso: «Se non voti per Donald Trump, non sei nero». Sul momento le telecamere sono riuscite a cogliere le risate in platea, ma in giro la battuta non è piaciuta granché. Però c’entrava un punto: i timidi segnali di cambiamento nei comportamenti di voto che i sondaggi stavano registrando. Con l’uscita di scena di Biden e la nomina di Harris, la situazione si è capovolta abbastanza in fretta. E tutto quello per cui la campagna Trump aveva lavorato nei mesi precedenti, fiutando un’aria diversa e “corteggiando” personaggi più o meno noti della musica e dello sport, è come se d’un tratto avesse perso valore.
L’estate di Trump è stata in parte caratterizzata da un’espressione infelice, pronunciata sempre alla convention della National Association of Black Journalists: i «black jobs» che a suo dire sarebbero messi a rischio dai migranti, circostanza tutt’altro che veritiera e che ha avuto il solo effetto di rafforzare gli stereotipi sulla tipologia di lavori svolti dai neri, scenario anch’esso miope e superato dalla corrente condizione economica degli Stati Uniti. Per di più Trump ha puntato, senza successo, Taylor Swift e ha avuto problemi qua e là: gli eredi di Isaac Hayes hanno intentato una causa contro la sua campagna per l’utilizzo non autorizzato di Hold On, I’m Coming del duo Sam & Dave, di cui Hayes era coautore (questa settimana un giudice federale di Atlanta ha dato loro ragione).
In fondo anche Trump ha vissuto un esaltante intervallo musicale, seppure per ragioni che hanno sfiorato la tragedia. L’indomani del tentativo di attentato ai suoi danni – il 13 luglio a Butler, Pennsylvania – moltissimi utenti online hanno paragonato l’accaduto ai fatti di cronaca gangsta-rap stile anni ‘90. «In un anno arrestato e colpito. A questo punto dovrebbe pubblicare un album», era uno dei commenti più in voga. Quando 50 Cent, al solito il più scaltro di tutti, ha postato sui social la cover di Get Rich Or Die Tryin’, il significativo album di esordio del 2003, con il volto di Trump al posto del suo ha scatenato un putiferio («Trump gets shot and now I’m trending», scrisse nella didascalia). Poco prima, 50 Cent aveva pubblicato la foto, già consegnata alla storia, di Trump con il pugno alzato e l’orecchio sanguinante sotto la bandiera americana, accompagnata dalla canzone Many Men, contenuta appunto in Get Rich Or Die Tryin’ (stavolta la didascalia era: «I know the vibes 🤦 we are all in trouble now!»)1. In Many Men 50 Cent racconta la propria esperienza (o una sua versione romanzata) con le persone che lo volevano morto e che per un pelo non sono riuscite nell’obiettivo: per alcune settimane la campagna dell’ex presidente ha approfittato della narrazione e il brano ha accompagnato il suo ingresso agli eventi pubblici. Lo stesso 50 Cent si è esibito durante un live con la cover modificata di Get Rich Or Die Tryin’ proiettata alle spalle. Si è addirittura speculato su una possibile partecipazione alla convention repubblicana del rapper e produttore televisivo, poi smentita.
Many men
Many, many, many, many men
Wish death ‘pon me
Lord, I don’t cry no more
Don’t look to the sky no more
Have mercy on me– 50 Cent, Many Men (Wish Death), 2003
Alcuni giorni prima dell’attentato, per una strana combinazione di fattori, 50 Cent aveva affermato a Washington – dove si era recato per incontrare al Congresso esponenti democratici e repubblicani per discutere di come aumentare la rappresentanza delle minoranze nel settore degli alcolici di lusso (attività in cui nutre interessi imprenditoriali) – di vedere molti uomini neri identificarsi con Trump a causa delle accuse RICO. La percezione di un elevato grado di immedesimazione – dai guai giudiziari agli attentati, tanto per non farci mancare stereotipi a più non posso – era con ogni probabilità esagerato, ma illustrava alla perfezione quegli insoliti segnali rilevati anche nei sondaggi. Dopodiché Trump ha scelto J.D. Vance come candidato vice e l’attenzione si è spostata per intero sul senatore dell’Ohio. L’attentato e tutto il resto dimenticati, o quasi.
È plausibile che all’uscita di Hillbilly Elegy, J.D. Vance non avesse la pretesa di spiegare al resto del mondo “l’America di Trump”, come si è detto e scritto ovunque, fosse pure quel pezzo di America, delimitato dagli Appalachi e dalla Rust Belt, fondamentale per la sua elezione nel 2016 (eccolo che ritorna, il 2016). Di sicuro, però, il Vance di Hillbilly Elegy era molto diverso da quello di oggi, emanazione degli istinti più perentori del trumpismo. Un elemento evidente all’epoca di Hillbilly Elegy, era la convinta ostilità alla consolidata idea di “privilegio bianco”, un sentimento che abbiamo potuto osservare negli anni su larga scala. Anche i bianchi devono guadagnarselo, il sogno americano: chi si lagna e basta – il suggerimento di molti e Vance tra questi – è destinato a restare ai margini. La medesima percezione, a un certo punto, ha compreso l’altra faccia dell’America, che ha ritenuto il sogno finalmente alla portata. L’ampia convergenza tra i due spaccati non tiene conto delle diverse componenti strutturali che talvolta allargano i divari, anziché ridurli (un altro esempio è quando Vance nel suo libro allude alle “regine del welfare”).
Amiri Baraka, in Digging, colloca tale fenomeno nel periodo post-rivoluzionario, quando «i progressi sociali della rivoluzione nera sono stati ricacciati indietro». Ma il “tradimento sociale”, per riprendere Baraka, che si manifesta (anche) sotto forma di musica contemporanea, stride con la realtà storica. È difficile dire se il paragone con la parte di hip hop che dichiara di sostenere Trump sia corretto (anzi: forse è persino ingiusto), ma da quando Harris ha preso il posto di Biden, molte celebrità del rap si sono riaffacciate anche da un punto di vista “politico”. È come se la luce della speranza, uniti i puntini – la ritrovata euforia tra i dem, Trump che non cambia di una virgola, l’ostentata intransigenza di Vance –, si sia riaccesa. Certo, Baraka faceva riferimento a John Coltrane (eccolo di nuovo pure lui), al free jazz, che era «parallelo» a «Free Angela», «Free Huey», «The Ballot or the Bullet», «Free Black People». Erano altri tempi, altre esigenze, altro tutto. Ma qualcosa, come abbiamo osservato all’inizio, si è rimesso in moto. E il 2016 è meno distante dal 2024.
Prison is a business, America’s the company
Investing in injustice, fear and long suffering
We staring in the face of hate again
The same hate they say will make America great again
No consolation prize for the dehumanized
For America to rise it’s a matter of Black Lives
And we gonna free them, so we can free us
America’s moment to come to Jesus– Common, Letter To The Free, 2016
Siamo giunti alla fine della puntata. Prima di salutarci, una piccola menzione alle città che hanno ospitato le convention repubblicana e democratica. Nel secondo caso, di Chicago, non abbiamo molto da aggiungere a quanto scritto in passato, ma è una scusa per citare ancora una volta Common, che è di lì e che all’evento dem ha fatto gli onori di casa (anche John Legend e Stevie Wonder tra gli artisti che hanno partecipato alla DNC).
Fortunate to be born and raised in the Chi
Salt-of-the-earth people with the bravest eye
They say “Your guy is the truth” – I wasn’t raised to lie
Fortunate to be so qué será
Every day that I get up, I trace the sky
And draw with the most high on the place that I am
And that’s fortunate– Common & Pete Rock, Fortunate, 2024
Per quanto riguarda Milwaukee, qui non si è mai riusciti a vantare un’irresistibile tradizione in fatto di hip hop. Se escludiamo Coo Coo Cal, tra la fine degli anni ‘90 e l’inizio dei 2000, si fatica a ricordare gente di spicco proveniente dall’area. A cercarli con il lanternino, viene in mente Speech degli Arrested Development, ma di fatto a Milwaukee ci è solo nato e poi gli Arrested Development si formarono ad Atlanta: tutta un’altra storia. In compenso la più popolosa città del Wisconsin, famosa alle nostre latitudini per Happy Days, ha avuto a lungo una relazione con la musica R&B, dovuta alla vicinanza con Chicago e in generale alle produzioni del Midwest che caratterizzarono il panorama artistico del secolo scorso. Eppure oggi, a Milwaukee, si scorge una scena hip hop più vivace, un trend avviato tra gli altri da IshDARR e che ora coinvolge giovani rapper, tipo Lakeyah (sebbene anche lei sia piuttosto in debito con Atlanta) e Destinee Lynn. A partire dagli anni ‘40, la popolazione nera del Wisconsin aumentò con la “grande migrazione” e Milwaukee, grazie all’industria e alle opportunità di lavoro che aveva da offrire, diventò la meta più ambita. Presto divenne anche tra le città più segregate d’America, maggiormente a causa delle inique politiche residenziali (un problema diffuso, sappiamo). Gli strascichi di queste dinamiche si possono vedere ancora adesso, nonostante i profondi cambiamenti demografici: secondo il censimento 2020, le popolazioni nera e bianca si equivalgono, all’incirca, in termini percentuali, in quello che è un contesto ad ogni modo multietnico, come del resto un po’ dappertutto nelle grandi città statunitensi.
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Settimana di rientro anche per Fabio Negri e Unsupervised.
I’m the knowin’ that it’s love and couldn’t possibly be hate
I’m the prayer of a mama want her son to walk straight
I’m the prisoner released when he walkin’ out the gate
I’m Black
I’m Black, I’m Black, I’m Black, I’m Black– LL Cool J feat. Sona Jobarteh, Black Code Suite, 2024
Nelle prossime settimane proveremo a entrare più nel dettaglio dei temi imprescindibili, anche se qualcuno l’abbiamo già trattato nei mesi scorsi – archivio –, ma ora necessita di nuove riflessioni e approfondimenti. Per il resto, torniamo alle sane abitudini.
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I post in questione sono stati infine rimossi.