Bentrovati su Mookie, la newsletter che non scriverà mai (e poi mai) la parola “resilienza”.
Riprendiamo da dove ci eravamo lasciati la scorsa settimana, cioè dal presidente Biden che al primo giorno di lavoro alla Casa Bianca firma, tra i vari, un ordine esecutivo sull’equità razziale il cui scopo è assicurare «a tutti l'opportunità di raggiungere il loro pieno potenziale» (altri provvedimenti in materia sono stati firmati pochi giorni fa). Negli Stati Uniti la distanza tra i ceti presenta di norma delle marcate sfumature razziali. Quello che definiamo razzismo sistemico altro non è che l’eredità di un retaggio culturale ostile che ha provocato enormi svantaggi – politici ed economici –, capaci di alimentare ancora oggi discriminazioni e talvolta, nei casi più gravi, sfociare in violenza.
Quando JAY-Z afferma che «la libertà finanziaria è la sua unica speranza» (The Story Of O.J.), sta anzitutto rammentando un’ambizione collettiva via via che i neri prendevano coscienza del sogno americano dopo la schiavitù. L’evoluzione di quello che Amiri Baraka descrisse come il passaggio dalla condizione di afroamericani – le successive generazioni di neri nati in America che conservavano gli elementi africani puri degli schiavi deportati – a neri americani, il prodotto – quest’ultimo – della cultura incrociata (Il popolo del Blues). Che l’oggetto del desiderio sia un paio di Adidas o che lo sia un Picasso, non è in fondo questa l’essenza del sogno americano? Peccato soltanto per l’altra parte di verità che emerge dalle rime di JAY-Z: fuori dalla propria comfort zone, un nero in America resterà pur sempre un nero.
L’era Jim Crow, che il premio Pulitzer Douglas A. Blackmon ha ribattezzato schiavitù con un altro nome, fu il principio di tutto, della dottrina “separati, ma uguali”, delle distanze siderali tra le diverse componenti della popolazione statunitense. E se al Sud le cose andavano peggio, al Nord si tendeva a nascondere la testa sotto la sabbia. Nella seconda metà degli anni ‘30 del secolo scorso, molte città americane furono “ridisegnate” secondo le direttive della Federal Housing Administration, agenzia governativa creata a seguito del National Housing Act, che all’epoca aveva tra i suoi obiettivi quello di regolare le condizioni dei mutui concessi per l’acquisto di immobili in risposta alle difficoltà sopraggiunte durante la Grande depressione. Queste “nuove” mappe riclassificarono le zone delle città sulla base del livello di rischio: ad ogni livello era attribuito un colore – verde, blu, giallo o rosso (in lettere dal grado A al grado D) – e l’ultimo rango rappresentava l’area in cui sorgevano i quartieri meno attraenti e sicuri. Che guarda caso erano quelli a maggioranza afroamericana (o ispanica). Il processo fu rinominato redlining – Detroit è da sempre uno dei massimi casi di studio –, una stortura sociale la cui “missione” era riuscire a mantenere intatte le aree residenziali a maggioranza bianca, così da evitare ingenti svalutazioni, mentre venivano scoraggiati gli investimenti nelle zone considerate ad alto rischio – in pratica chi apparteneva ad una minoranza era costretto ad affittare –, con la ghettizzazione di interi quartieri, servizi pubblici inesistenti o quasi, scuole decadenti.
Si andò avanti in questo modo (per non parlare dei metodi vessatori delle vendite “a contratto”) fino al 1968, poi con il Fair Housing Act venne interrotto il rifiuto di vendere o affittare immobili sulla base di pregiudizi razziali, religiosi o di altro tipo. Niente più colori sulle mappe che avrebbero spinto intermediari o funzionari a scartare le richieste di mutuo da parte di una famiglia afroamericana che ambiva a comprare casa o a trasferirsi da una zona all’altra della città. In teoria. La verità è che gli effetti del redlining sono tangibili ancora ai giorni nostri: per i neri è molto più difficile ottenere un mutuo rispetto ai bianchi e quando ciò avviene il più delle volte è a condizioni svantaggiose, senza contare che la crisi dei subprime del 2007-2008 ha messo in ginocchio molte famiglie afroamericane e abbassato notevolmente la loro affidabilità finanziaria. Come scrive il Washington Post, citando il Census Bureau, oggi il 44% delle famiglie nere possiede una casa di proprietà contro il 73,7% delle famiglie bianche. Perciò trova una risposta immediata l’iniziativa di Killer Mike sul Black banking, recentemente illustrata su Rock The Bells.
Gli sviluppi economici degli ultimi decenni – a partire dagli anni ‘80 sono cresciuti i posti di lavoro nei servizi e nelle aziende ad alto contenuto tecnologico – e la riqualificazione di molti quartieri un tempo fatiscenti (dobbiamo ricordare che il rapporto centro-periferia nelle grandi città statunitensi non è esattamente identico al nostro) hanno dato forma al fenomeno della gentrificazione, che si ha quando le persone delle classi più abbienti si trasferiscono proprio in quei posti (magari per avvicinarsi al lavoro), “scacciando” chi c’era prima a causa del contestuale aumento degli affitti e del carovita. Jeff Chang – che rincontriamo dalla scorsa puntata – ricorda in We Gon' Be Alright: Notes on Race and Resegregation che la gentrificazione è la chiave per capire come cambiano le città, ma è solo un pezzo del problema a cui dà il nome, appunto, di ri-segregazione.
Tutti questi elementi hanno poi a che fare con i trend che abbiamo osservato durante la pandemia. Non è un caso, insomma, se negli Stati Uniti la popolazione nera è stata la più danneggiata dal coronavirus. I neri hanno una probabilità tre volte maggiore di morire di Covid-19 rispetto agli altri gruppi, hanno maggiori probabilità di contrarre il virus e minori possibilità di accedere alle cure. Questo avviene per un preciso ordine di fattori. Sono impiegati perlopiù nelle attività essenziali, usufruiscono in prevalenza del trasporto pubblico e vivono nei quartieri più densamente abitati e con servizi scadenti, eredità del redlining. Ma soprattutto i redditi mediamente bassi non garantiscono una piena assistenza sanitaria (molti afroamericani restano sprovvisti di assicurazione), né un’alimentazione adeguata. La pandemia, infatti, ha colpito duro anche sul fronte economico, già piuttosto precario di suo in diverse aree del paese.
La disoccupazione, che si attestava ai minimi storici prima del coronavirus, è tornata inevitabilmente a salire, ma il punto è che i lievi progressi registrati negli ultimi anni hanno comunque messo in luce alcune fragilità. Nel 2019 il tasso di disoccupazione tra i neri è sceso al 6,1% (al 3,7% il dato medio), un fatto eclatante di cui Trump si è preso il merito in diverse occasioni. In realtà la discesa è cominciata con l’amministrazione Obama ed è proseguita fino al record dell’anno scorso, anche se poi i valori sono ancora il doppio di quelli dei bianchi (e nella pandemia i divari potrebbero essere molto più ampi), una differenza che si mantiene costante a prescindere dal titolo di studio.
Altro aspetto da considerare è il tasso di partecipazione alla forza lavoro (ovvero il rapporto tra forza lavoro – occupati e disoccupati in cerca di impiego – e popolazione), un indicatore che è oscillato su valori non altissimi negli ultimi anni e che riguarda, anche in questo caso, più i neri di altri gruppi demografici e che nella fase di emergenza ha registrato un ulteriore abbandono soprattutto della componente femminile, in particolare donne nere e di origini latine. Infine, come accennavamo sopra, al generale miglioramento dei livelli occupazionali pre-Covid non è corrisposto un aumento dei salari e nel 2019 una tipica famiglia bianca risultava decisamente più ricca di una tipica famiglia nera.
Forse è superfluo sottolinearlo, ma il quadro dovrebbe spiegare almeno in parte perché può ritenersi normale che uno come Rick Ross, a un certo punto, ricordi al mondo intero (e a Drake e a Kanye West) di possedere la piscina residenziale più grande d’America (nella villa acquistata da Evander Holyfield nel 2014): è il prestigio della proprietà, è il sogno americano che si avvera. È Black excellence.
Il 21 agosto 2020 è uscito Entrepreneur, brano di Pharrell Williams (con JAY-Z), che è un inno all’eccellenza e all’imprenditoria nera (I am black ambition) e allo stesso tempo una denuncia al razzismo sistemico (In this position with no choice / The system imprison young Black boys / Distract with white noise).
La pandemia, anche negli Stati Uniti, ha costretto molti piccoli e medi imprenditori a chiudere le attività. Il numero delle piccole imprese nere è sceso del 41% tra febbraio e aprile dello scorso anno, il peggior risultato tra i vari gruppi. E secondo un'analisi dell’Associated Press, le piccole imprese che fanno capo alle minoranze sono quelle che hanno ricevuto gli aiuti del governo con maggiore ritardo, alcune passando per qualche rifiuto durante le prime fasi di finanziamento (le banche hanno dapprima elaborato le richieste di prestiti di entità superiore, penalizzando le altre).
È di nuovo la conferma di quanto sia svantaggioso essere neri o appartenenti ad una minoranza in una società che ha radicato al suo interno un sottobosco culturale di tali proporzioni. Eppure qualcosa si è mosso nel tempo, su livelli molto alti nell’ambito della musica, del cinema o dello sport, ma sono cambiamenti significativi, in grado di esercitare un incitamento corale a migliorare le situazioni. Si tratta di «un potere nero di natura economica – come scrive Roland Lazenby in Michael Jordan, la vita (2014) a proposito del contratto che MJ firmò con Nike nel 1984 – e verosimilmente il potere più grande a cui i neri avessero la possibilità di accedere, come quello delle banche possedute dai neri o quello delle piccole imprese che prosperavano, negli anni della segregazione, in città come Atlanta o Durham. I profitti raggiunti dai professionisti e dagli imprenditori di colore, molto spesso anonimi, forse non godevano di molta pubblicità, ma avevano accumulato ricchezze nel cuore dell’esperienza afroamericana. La trattativa con la Nike – aggiunge l’autore riferendosi all’evento che aprì un’inedita stagione dell’eccellenza nera – avrebbe consegnato a Michael Jordan i primi strumenti di un potere economico in grado di trasformare le cose».
Forse avrete sentito in questi giorni parlare di Clubhouse, un social network che funziona con i messaggi vocali e che è stato valutato un miliardo di dollari. Intervistato da Dan Runcie per il podcast di Trapital (che è la sua newsletter, già consigliata da Mookie), Master P ha sbroccato al riguardo perché molto del successo, a suo dire, Clubhouse lo deve alla creatività dei neri e dei tanti rapper (tra i quali 21 Savage e Meek Mill, informa HipHopDX) che lo hanno fin qui animato. Motivo per cui, sostiene, andrebbero realizzate cose del genere, controllandone però la narrazione e reinvestendo i soldi «nella nostra comunità e nella nostra cultura». Ma al di là delle convinzioni di Master P, non si può negare che gli artisti hip hop siano in realtà più intraprendenti di quelli di altri generi musicali, come fa notare lo stesso Dan Runcie in questo thread su Twitter che vale la pena leggere. Dallo storico momento di Michael Jordan con Nike all’ascesa di Dr. Dre con Beats by Dre, fino a JAY-Z che siede allo stesso tavolo con i vertici – bianchi – della NFL, ne è passata di acqua sotto i ponti. E quando si raggiunge la vetta, il senso di comunità non necessariamente svanisce, almeno a guardare il solito JAY-Z che continua a investire sul mercato della cannabis per aiutare le minoranze ad entrare in un business che è piuttosto in espansione in America.
Dopo la morte di George Floyd alcuni hedge fund hanno annunciato iniziative per promuovere la diversità in un mondo, quello della finanza, che difatti non è mai stato particolarmente inclusivo e colossi bancari come Morgan Stanley e Wells Fargo – scriveva il Sole 24 Ore a settembre 2020 – si sono impegnati ad aumentare la percentuale di manager neri.
Bitch, black card, black Rolls, more black CEOs
– Nas, 27 Summers (2020)
Altre cose interessanti
Cicely Tyson ha avuto una carriera di attrice straordinaria e mai avrebbe potuto interpretare ruoli stereotipati, lei che dava un valore alle battaglie civili e delle donne. Aveva 96 anni e aveva da poco pubblicato il suo libro di memorie, Just as I am.
Il ritratto del New York Times.
Comunicazione di servizio. Con la puntata di oggi, abbiamo completato la nostra transizione dei poteri, un percorso che mirava, diciamo così, a mettere i puntini sulle “i” delle cose osservate nel 2020, le presidenziali americane e molto altro, comprese le parti più controverse e dibattute della carriera politica di Joe Biden, tra i primi presidenti, tuttavia, a parlare in maniera chiara di razzismo sistemico. Adesso ci fermiamo una settimana, dato che non lo abbiamo fatto a Natale né a Capodanno, giusto il tempo di riordinare le idee e ripartire poi carichissimi. Dunque, ricapitolando: ci leggeremo da queste parti non il 5 febbraio, bensì il 12!
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Vi ricordo l’appuntamento – stessa modulazione di frequenza – per il 12 febbraio.
A presto e grazie!