Fall in Love in Chicago
La più importante città dell’Illinois è uno specchio delle contraddizioni americane
Abbiamo parlato spessissimo di New York, abbiamo parlato del Texas, di Compton e della Georgia. Potevamo mettere Chicago in un angolo?
Bentrovati su Mookie, la newsletter che questa settimana si trasferisce nell’Illinois.
Welcome to Chicago, y’all it don’t quit
Chi-Town, Windy City, be the ultimate
We call it Cold Il’ or just simply the ‘Go
Let me take you to this place I know– Abstract Mindstate feat. Kanye West, Welcome To Chicago, 2004
I’m a Chicagoan ‘til Chicago ends (Yeah!)
Till we blow like Chicago wind– Dilated Peoples feat. Kanye West, This Way, 2004
I’m in Chicago, Chiraq
– Chief Keef, … Love No Thotties, 2014
Il centro presidenziale di Barack Obama sorgerà a Chicago, nel South Side, a Jackson Park, sulle rive del lago Michigan. L’ambizione dell’ex presidente, ribadita poche settimane fa durante la cerimonia di inizio lavori, è che il complesso ultramoderno – sono previsti un museo, una biblioteca pubblica, aule, laboratori, spazi ricreativi, oltre agli uffici della Fondazione Obama, per un costo stimato di 830 milioni di dollari – possa trasformarsi presto in un luogo di aggregazione, un serbatoio di idee per la futura generazione di leader.
Ma nel South Side la gente sta sempre sul chi va là. Bello il centro presidenziale, bello il museo, bello il progetto: ma che ne sarà di noi?
La città più importante dell’Illinois è uno specchio delle contraddizioni americane, perché diversi sono i contrasti che la animano da sempre. Chicago è conosciuta come The Windy City e, a dispetto delle ragioni più ovvie, non è chiaro se c’è dell’altro oltre ai venti a motivare l’appellativo. È la terza metropoli statunitense – la più grande tra quelle situate lontano dal mare – e per quanto sia atavica la rivalità tra New York e Los Angeles, di certo non può essere messo in secondo piano il confronto altrettanto storico che Chicago ha proprio con New York: chi il grattacielo più alto, dove si vive meglio, quale il centro economico più rilevante, quale il centro culturale più vivace, Harlem o South Side.
A Chicago, disse una volta Saul Bellow, «nessuna persona sana di mente, che abbia un minimo di senso della realtà, se ne va in giro senza protezione». Persino la criminalità e la violenza sono questioni parallele nell’eterno confronto Chicago-New York. Nella prima metà degli anni ‘90 Chicago contava una media di 800 vittime di omicidio all’anno, un dato comunque inferiore a quello di Los Angeles e a maggior ragione di New York. Poi, sul finire del ‘900, le cose sono decisamente migliorate, ma, in tempi più recenti, Chicago è tornata ad essere sinonimo di insicurezza, almeno alle sue estremità. Nel 2016 FiveThirtyEight ipotizzò che l’aumento dei reati e della violenza armata in città fosse proporzionale alla diminuzione degli arresti e della “mano pesante” della polizia dopo il caso Laquan McDonald di due anni prima. Stando all’ultimo rapporto annuale sul crimine dell’FBI, l’anno scorso negli Stati Uniti c’è stata un’impennata di omicidi che da tempo non si osservava a questi livelli – difficile stabilire le cause e quanto la pandemia, ad esempio, abbia avuto un impatto significativo sul fenomeno, o, ancora, se un peso sia attribuibile alle proteste che seguirono l’uccisione di George Floyd –, coinvolgendo soprattutto persone non bianche. Chicago, tra feriti e uccisi, è una delle città che ha registrato gli incrementi più alti. Ma la percezione degli eventi, si sa, gioca brutti scherzi e al contrario di quello che si pensa diffusamente, la metropoli dell’Illinois non è la “capitale degli omicidi”.
Resta tuttavia un impianto narrativo – in qualche misura giustificato – che ha trasformato Chicago in Chiraq (ispirazione per Spike Lee nel suo film del 2015, Chi-Raq, rilettura in chiave moderna della commedia greca di Aristofane, Lisistrata), da quando, cioè, ci si è accorti che nell’arco di 15 anni «sono stati ammazzati più americani che in Iraq e Afghanistan messi insieme». C’è addirittura un sito, HeyJackass.com, che tiene il conto delle uccisioni a Chicago. Neanche a dirlo è il South Side, nei quartieri dove per esorcizzare povertà e degrado prosperano le gang, a fare da sfondo a tutto ciò.
Is it genocide?
‘Cause I can still hear his mama cries
Know the family traumatized
Shots left holes in his face about piranha-sized
The old pastor closed the cold casket
And said the church ain't got enough room for all the tombs
It’s a war going on outside we ain’t safe from
I feel the pain in my city wherever I go
314 soldiers died in Iraq, 509 died in Chicago– JAY-Z & Kanye West, Murder To Excellence, 2011
Come è facile immaginare, di contro esistono approcci descrittivi che provano a ribaltare il punto di osservazione. Negli ultimi anni Chicago si è rivelata una fucina di talenti, una “nuova scuola” – qualcuno l’ha definito un “nuovo rinascimento”, perché guai a rinunciare alle iperboli – che poco o nulla ha da invidiare ai centri culturali oggi più in voga, da Atlanta a Houston. Chance The Rapper e la sua cerchia – un folto gruppo di giovani artisti quali Noname, Jamila Woods, Vic Mensa, Nico Segal (già Donnie Trumpet), the Mind, Malcolm London, Towkio, Saba e Mick Jenkins, tra gli altri – sono l’anello di congiunzione del conflitto tra il bene e il male che pervade le strade del South Side.
Se New York, e in particolare Harlem, hanno rappresentato il debutto su larga scala di una coscienza – artistica e letteraria – nera, subito dopo Chicago diventò il ricettacolo di una nuova consapevolezza sociale. È il luogo di formazione di Richard Wright e anche uno dei massimi esponenti dell’Harlem Renaissance, Langstone Hughes, manterrà un legame profondo con la città, curando a lungo una rubrica per il Chicago Defender, tra i più influenti giornali neri d’America. Ma ancor di più, ben prima che cominciassero i rapper a farlo, a raccontare delle miserie del South Side, di sopravvivenza e frustrazione, di politiche residenziali ai danni degli afromericani – anticipando inoltre le istanze emancipative della donna nera –, fu Gwendolyn Brooks, la cui poesia si sviluppa essenzialmente a Bronzeville, la Black Metropolis, memoria storica di un’area urbana che è stata tra le maggiori destinazioni negli anni della grande migrazione e culla del blues.
A New York, su Bleecker Street, nel Greenwich Village, c’è un locale che si chiama Terra Blues il cui motto fino a poco tempo fa era: «Chicago maybe is the capital of blues, but even Chicago doesn’t have Terra Blues». Al di là dei consueti confronti tra metropoli, il blues non è l’unica espressione di cultura afroamericana presente a Chicago, sebbene (forse) la più famosa. Nel 1893 molti pionieri del jazz si avventurarono da New Orleans e altri posti del sud alla volta di Chicago, richiamati dalle opportunità che l’Esposizione Universale offriva loro. Presto, tuttavia, la scena jazz di Chicago divenne una dixieland, eppure questo non impedì a personaggi di spicco come Jelly Roll Morton o Louis Armstrong di transitare da quelle parti. È come se la città, fredda per gran parte dell’anno, abbia sempre esercitato una funzione calamitica che va dai formidabili musicisti della Chess Records – che diedero al blues una dimensione mainstream – e arriva a Kanye West, passando per Michael Jordan. Si tratta di un reiterato contributo allo sviluppo dell’identità culturale e dell’eccellenza nera, vale a dire uno spaccato di immaginario statunitense esportato anche fuori dai confini nazionali. Chicago è stata poi la cornice di avvenimenti sociali e politici di rilevanza storica, alcuni tornati alla ribalta di recente grazie al cinema (Il processo ai Chicago 7, Judas and the Black Messiah). Divenne la casa di Playboy e il quartier generale della Nation Of Islam per volere di Elijah Muhammad e, soprattutto, è dove un giovane coordinatore di comunità di nome Barack Obama fece le sue prime esperienze negli anni ‘80, ad Atgeld Gardens, nel South Side, in un percorso che lo condurrà fino alla Casa Bianca.
Have a dream in New Orleans
Fall in love in Chicago
Have a dream in New Orleans
Fall in love in Chicago
Have a dream, dream, dream
Fall in love, love, love
I want to love you
I want to love you (You know I need your love)
I want your love, love, love, love, love, love, love
I want to love you
I want to love you (You know I need your love)
I want your love, love, love, love, love, love, love– Mick Jenkins, Your Love, 2015
Insomma, un po’ per collocazione geografica e un po’ per naturale vocazione, Chicago si è posta sempre nel mezzo. E altrettanto ha fatto con la musica, in particolare con l’avvento dell’hip hop che alla fine degli anni ‘80 aveva già indirizzato il genere su due binari – quasi – paralleli: c’erano l’East Coast e la West Coast, mentre le scene del sud e quella di Chicago nel Midwest (quest’ultima è però una definizione contestata) tentavano di ritagliarsi un loro spazio, mettendo il marchio di fabbrica sui rispettivi stili. Nella metropoli dell’Illinois la nascita dell’house, a sua volta influenzata dalla disco music e dal funk del decennio precedente, fu più o meno l’inizio di un nuovo modo di concepire l’hip hop – hip house –, che in seguito raggiungerà la solita New York e anche la più vicina Detroit.
Hip House is the new style that I created
All around the world, it devastated
By the Hip which is short for Hip-Hop
And by the House which will rise you to the top
If they were givin’ out a Grammy, I’d get one
For havin' the number one record in London
Detroit, New York and Chicago
Miami, St-Louis and Colorado
‘Cause I gotta go so let’s go
‘Cause it's my show
Throw up your hands and scream “Oh!”
That's what I’m used to hearin’
People havin’ fun and cheerin’
Me on, yes I’m havin’ fun
And I will be outdone by none
You might wonder why I’m number 1
‘Cause I'm a writer not a biter my tongue so let’s go, yo– Fast Eddie, Yo Yo Get Funky, 1988
Oggi la musica nera di Chicago deve molto a Kanye West. A 20 anni non ancora compiuti, nel 1996, produsse il disco di esordio di un rapper locale, Grav, un lavoro lontano anni luce dalle sonorità innovative che avrebbe adottato invece più tardi. Anzi, era un album decisamente in linea con i tempi: quelli di Common (Common Sense agli esordi). Dai primi anni ‘90, il merito di Common è stato quello di avere condotto il rap consapevole e riflessivo ad un livello superiore, andando oltre le presunte battaglie ideologiche – perlopiù sobillate dai media – tra East e West Coast e rasentando un attivismo, sociale e politico, che sarà la misura di un’intera carriera fino ai comizi anti-Trump in giro per l’America. Un metodo stilistico che in seguito Kanye West farà artisticamente suo – cappello MAGA a parte, segmento di una personalità complessa – e non a caso il sodalizio tra i due, specie nel periodo 2004-2007, risulterà a quelle latitudini tra i migliori di sempre.
The broads, the cars, the half-moons, the stars
I’m like Jeff Fort the way I get behind bars
Burn CDs with no regard for the stars
Come to the crib with conflict diamonds and they ours
Back in ‘94, they called me Chi-town’s Nas
Now, them niggas know I’m one of Chi-town’s gods
We eating, Joe, you still talking no carbs
A conscious nigga with mack, like Steve Jobs– Common feat. Kanye West, Southside, 2007
Ma la metropoli è stata sempre aperta alle novità. Così, mentre gli MC più famosi di New York e di Los Angeles facevano a gara a chi era più figo, a Chicago gente come Twista o i Do or Die esasperavano un nuovo modo di stare al microfono, il chopper rap – qualcosa di simile all’extrabeat –, che ora non gode delle stesse grandi fortune, ma che all’epoca caratterizzò molto la scena di Chicago.
La storia degli Abstract Mindstate e Kanye West, su Instagram
L’entroterra in cui sono cresciuti gli artisti della “nuova scuola” di Chicago è il risultato di una lunga storia di attivismo – che passa anche per iniziative quali la Donda’s House di Kanye West, motivo di attriti qualche anno fa tra Kim Kardashian e il co-fondatore dell’organizzazione, Rhymefest – come unica risposta alle vicende di violenza, spaccio e rapine. Chicago è dalla prima metà del secolo scorso a guida democratica, tuttavia una pacificazione completa e duratura in città non è mai avvenuta. Chance The Rapper – suo padre lavorò per Obama quando era un politico emergente dell’Illinois e parecchio tempo prima per Harold Washington, primo sindaco nero di Chicago – è stato un fervente oppositore dell’ex sindaco Rahm Emanuel (soprattutto dopo il caso Laquan McDonald) e nel 2020 ha partecipato alle proteste di Black Lives Matter contro gli abusi delle forze di polizia. Nonostante la sindaca Lori Lightfoot rappresenti in molti modi “una prima volta” per Chicago e per l’America, le critiche che le comunità più povere rivolgono alle istituzioni sono le medesime di sempre. Alcuni quartieri restano ai margini e spesso i giovani che li abitano hanno tre possibili scelte dalla loro: dedicarsi al crimine, fare rap o tutte e due le cose insieme.
FBG Duck era un giovane rapper di Chicago, venne ucciso lo scorso anno fuori da un negozio di Gold Coast, quartiere residenziale che affaccia sul lago Michigan. È notizia di pochi giorni fa l’incriminazione dei cinque presunti responsabili dell’omicidio. Duck faceva parte di una fazione dei Gangster Disciples, la gang fondata negli anni ‘60 da Larry Hoover, la cui vicenda nel 2018 fu al centro dell’incontro alla Casa Bianca tra Donald Trump e Kanye West. King Von era invece affiliato ai Black Disciples, veniva dai Parkway Gardens – complesso popolare conosciuto come O’Block e noto per essere stato per un breve periodo la dimora da bambina di Michelle Obama –, oggi considerato uno dei posti meno sicuri della città. Von è rimasto ucciso ad Atlanta dopo una lite, a novembre 2020. Un epilogo dalle dinamiche certamente diverse, ma la sua figura rimane piuttosto controversa.
È uno spaccato a tratti irritante e comune a molte città americane, che a Chicago è sfociato – da Chief Keef in poi (qui c’è un interessante ritratto del critico musicale David Drake) – nella drill (una costola della musica trap, semplificando tantissimo), che è una rappresentazione più cruda, se vogliamo più autentica, della violenza nelle strade.
E anche stavolta, dal South Side al resto del mondo, è stato un attimo.
Siamo ai saluti e non saprei dire se una sola puntata dedicata a Chicago sia esaustiva, inevitabilmente manca qualcosa: ad esempio c’è G Herbo che avrebbe meritato un po’ di spazio. Magari ci torneremo in futuro. Domande? Suggerimenti? Potete rispondere alla mail, oppure scrivermi su Instagram o su Twitter. Se Mookie vi piace, iscrivetevi e fate iscrivere le amiche e gli amici alla newsletter!
Ci “leggiamo” tra due venerdì, state bene!