Nelle ultime settimane ho trascorso una distratta vita online e la cosa ha coinvolto anche Mookie, come immagino avrete notato. Forse è stato per la stanchezza prolungata (vale per me, vale per molti di voi) o per la voglia di riordinare le idee, o forse è successo e basta, fatto sta che ho avvertito la necessità di interagire sui social molto meno del solito. La circostanza mi ha portato a riflettere su come si possa diventare “invisibili” se non si è attivi, per così dire, nei luoghi che normalmente frequentiamo. Non è detto che sia per forza un male, ma l’idea di invisibilità è una rappresentazione mentale di noi stessi in un dato momento, di come ci relazioniamo con gli altri e delle risposte emotive che riceviamo. Tranquilli, la smetto subito. Era solo per comunicarvi che questa mia riflessione ha ispirato la prima puntata del 2022.
Bentrovati su Mookie, la newsletter che ha i suoi tempi, ma torna sempre.
I’m invisible, understand, simply because people refuse to see me
Sentite, sono invisibile per il semplice fatto che la gente si rifiuta di vedermi
– Ralph Waldo Ellison, Invisible Man
Nel 1989 Ugo Rubeo, professore di Lingua e Letterature Anglo-Americane alla Sapienza di Roma, pubblica L’uomo visibile: la poesia afroamericana del novecento (Bulzoni Editore). La metafora della visibilità serve a sottolineare l’importanza di una cultura che, dal sottobosco in cui era stata confinata a lungo, finisce per plasmare le diverse forme artistiche, dalla musica alla poesia, presenti negli Stati Uniti. La figura pubblica dell’intellettuale afroamericano, osserva Rubeo, comincia ad emergere alla fine dell’800, mentre la “nuova” componente della società statunitense è in cerca di una definizione della propria dimensione e fisionomia. «Lo sviluppo della cultura afroamericana [...] – scrive nell’introduzione al suo libro – segue pertanto un tracciato che inevitabilmente la pone in rotta di collisione con un sistema che comunque tende a disconoscerla, a ignorarla, a rimuoverla. Di qui quell’andamento idiosincratico, quella forte carica di conflittualità, quella stessa propensione allo sperimentalismo che delle forme di espressione dei neri d’America costituiscono tratti caratteristici, seppure certo non omogenei; di qui anche l'intrinseco, inamovibile paradosso di una scrittura che nel definirsi in modo autonomo necessariamente accentua le proprie caratteristiche di diversità, rendendo in qualche modo più agevole e determinata quell’opera di sistematico azzeramento che viene tentata nei suoi confronti».
Un consolidamento della cultura afroamericana avvenne negli anni Venti del ‘900, nel pieno del fenomeno che più avanti verrà chiamato Harlem Reinassance, emanazione del modernismo, cioè di un movimento che proprio negli Stati Uniti mise radici profonde, ma già prima c’era stato un nutrito gruppo di intellettuali che aveva aperto discussioni e alimentato dibattiti sull’esperienza nera, che più avanti proseguiranno in un crescendo inclusivo di tutte le arti. L’idea di visibilità che Rubeo propone è, dunque, un’interpretazione volutamente antitetica a quella di Ralph Ellison in Invisible Man, romanzo pubblicato nel 1952 e ancora oggi considerato un pilastro della letteratura nera statunitense, espressione di una condizione comune a tanti individui nell’America segregata, in un quadro di drammatica solitudine e indifferenza nei loro confronti. Il tema dell’invisibilità/visibilità non si esaurisce ad una dialettica interna di ristretti circoli – W.E.B. Du Bois, per primo, rivendicherà la centralità della cultura afroamericana nello sviluppo di una più generica cultura americana –, ma è invece piuttosto ricorrente, quasi in modo ciclico, con schemi e funzioni che di volta in volta si rinnovano. Non è un caso, allora, se molti hanno elaborato teorie e pensieri che accostano il capolavoro di Ellison a opere decisamente più recenti, come To Pimp A Butterfly di Kendrick Lamar o 4:44 di JAY-Z.
Sentirsi invisibili agli occhi della società è un sentimento che anche una ragazzina di 11 anni può percepire. Dasani lo confidò – «I’m visible, but society doesn’t see me» – ad Andrea Elliott, scrittrice e premio Pulitzer, giornalista del New York Times, che raccontò la sua storia nel 2013, poi “aggiornata” in un libro uscito pochi mesi fa, Invisible Child: Poverty, Survival and Hope in an American City. Della vicenda umana di Dasani – una storia di povertà estrema a Fort Greene, Brooklyn – ha scritto a fine ottobre 2021 Marta Ciccolari Micaldi (La McMusa), nella sua newsletter Sogni Americani.
When I was seventeen
I ran away from home
And from everything
I had ever knownI was sick and tired
Living in a town
Filled with narrow minds
And hateThey used to laugh at me
The children called me names
I would ran and hide
Feelin’ so ashamedJust for being born
I was just a boyPunished for a crime
That was not mine– The Spinners, Ghetto Child, 1973
L’invisibilità si conferma argomento tanto complesso quanto complesse sono le relazioni tra persone che occupano diversi spazi vitali, il risultato di anni di segregazione che le leggi e le conquiste sociali nel frattempo sopraggiunte non sono riuscite a scansare del tutto. Ed è addirittura normale che spesso coinvolga i più piccoli, nella baraonda di luoghi comuni che si sovrappongono e che vedono protagonisti i “padri assenti”, un cliché rafforzato dal rapporto Moynihan del 1965 (The Negro Family: The Case for National Action) e dall’adozione di alcune controverse politiche di welfare – Aid to Families with Dependent Children – che secondo i critici hanno talvolta “motivato” lo sgretolamento dei nuclei familiari neri per accedere ai sussidi, altrimenti negati in presenza di un uomo adulto in età da lavoro. Lo stereotipo è sopravvissuto fino ai giorni nostri, perciò a dicembre 2020, a conclusione di un anno ostico (eufemismo) e di proteste sparse negli Stati Uniti, GQ intervistò i padri – o le figure paterne – di Michael Brown, Terence Crutcher, Daniel Prude, Rayshard Brooks, George Floyd e Jacob Blake in un longform che racchiudeva un po’ tutti questi elementi e il cui titolo si contrapponeva, anch’esso, all’uomo invisibile di Ellison: Visible Men: Black Fathers Talk About Losing Sons to Police Brutality.
Look for me, lost in the whirlwind
‘96 Bonnie and Clyde, me and my girlfriend
Doin’ 85 when we ride
Trapped in this world of sin
Born as a ghetto child, raised in this whirlwind (c’mon)– 2Pac (Makaveli), Me And My Girlfriend, 1996
Ma il cliché del padre assente ha prodotto, in un senso anche più spregiativo, quello della madre single nera – the welfare queen –, etichetta che il film del 1974 diretto da John Berry, Claudine, provò ad allontanare, portando all’attenzione del pubblico i dilemmi familiari e sentimentali di una donna, dovuti ai cavilli dei programmi sociali. In generale è negli anni ‘70 che si è cominciata ad osservare una più convinta visibilità, come abbiamo già potuto constatare a proposito di sessualità e rappresentazione dei corpi. Un’identità politica più consapevole, che seguiva una maggiore diffusione delle istanze nazionaliste e radicali, fu il detonatore verso la realizzazione di contenuti culturali capaci di raggiungere platee più ampie. Nello specifico Claudine fu un punto di rottura, almeno rispetto alla narrazione gangsta della blaxploitation. Come ha scritto Mark Anthony Neal, professore di studi afroamericani alla Duke University, un grosso contributo arrivò anche dalla colonna sonora del film, prodotta da Curtis Mayfield e interpretata da Gladys Knight & the Pips. In particolare To Be Invisible, traccia peraltro contenuta in Sweet Exorcist di Mayfield, sempre del 1974, che, nell’economia della pellicola e delle storie che si intrecciano, «evidenzia la percezione del padre nero assente».
To be invisible
Will be my claim to fame
A man with no name
That way I won’t have to feel the pain
Indispensable
Just a plain old human being
Today don’t mean a thing
In a world that’s so mean– Curtis Mayfield, To Be Invisible, 1974
I contrasti che si registrano negli Stati Uniti, ormai da anni, sono conseguenza diretta di uno status socioeconomico precario – aggravato dalle recenti crisi –, che ha ampliato le (tutt’altro che superate) questioni razziali. Rispetto al passato, la cosa interessa maggiormente i bianchi (white trash nell’accezione più sprezzante possibile, ne parlammo una prima volta in America Is Listening) messi ai margini del sogno americano. Persone che si sentono non volute dalla società che non sa offrire loro condizioni migliori e un lavoro degno. Che cadono nel baratro degli eccessi o dell’epidemia di oppioidi. Che ritengono di essere, in qualche misura, le nuove vittime del razzismo perché ora lo sport nazionale è dare priorità alle esigenze delle minoranze (interessante, anche se lungi da farne un metro di paragone, è la chiave di lettura proposta un po’ di tempo fa sul New York Times da John McWhorter, professore associato alla Columbia University, a proposito del redlining). Tutto ciò mentre in alcuni Stati vengono introdotte riforme che cambiano le regole del gioco secondo le necessità di parte, ostacolando l’accesso al voto e penalizzando perlopiù quelle stesse minoranze. Ripetute forme di invisibilità nell’America spaccata in due.
All you Black folks, you must go
All you Mexicans, you must go
And all you poor folks, you must go
Muslims and gays, boy, we hate your ways
So all you bad folks, you must go– A Tribe Called Quest, We The People…., 2016
Altre cose interessanti
Intanto l’attesa per l’Halftime Show del Super Bowl cresce di giorno in giorno. Con un trailer così, non può che essere inevitabile. Appuntamento a domenica 13 febbraio.
Siamo giunti al termine della prima puntata del 2022, ma prima dei consueti saluti di rito, lasciatemi dare un enorme abbraccio virtuale alle nuove iscritte e ai nuovi iscritti alla newsletter: grazie per la fiducia, vi si vuole già bene.
Anno nuovo, vecchie abitudini: domande? Suggerimenti? Potete rispondere alla mail, oppure scrivermi su Instagram o su Twitter. Se Mookie vi piace, mandate il link alle amiche e agli amici!
Ci leggiamo tra due venerdì (proviamo a riprendere il ritmo), a presto!