Febbraio è il Black History Month. I Tampa Bay Buccaneers hanno vinto il Super Bowl e in Italia abbiamo quasi un nuovo governo.
Bentrovati su Mookie, la newsletter che – vedete bene – è sempre sul pezzo.
Gli stereotipi sono come un marchio di fabbrica, non è per niente semplice scrollarsi di dosso le etichette che qualcuno ha deciso per te molto prima che tu venissi al mondo. Poi arriva quel momento, quando ti accorgi che forse – forse – le cose stanno cambiando. È stato un lungo viaggio cominciato con Harriet Tubman, proseguito con Rosa Parks, Ella Baker, Audre Lorde, Angela Davis e Assata Shakur, per poi ripassare quasi dal via con Sojourner Truth. È il 2016 quando Jamila Woods mette insieme tutto questo in Blk Girl Soldier, uno dei brani più significativi (e sottovalutati) degli ultimi anni.
Nel suo libro del 2015, The Sisters Are Alright: Changing the Broken Narrative of Black Women in America, Tamara Winfrey Harris ricorda che per le donne nere la vita può essere tanto complicata quanto assurdo è il pregiudizio che le accompagna, frutto di stereotipi ben definiti e ancora piantati nella coscienza collettiva. Mammy, Sapphire, Jezebel, Matriarch: sono concetti che vanno oltre la mera caricatura, che si rinnovano di volta in volta fin dai tempi della schiavitù, sia nella rappresentazione dei corpi sia sul piano valoriale.
Mammy. È la figura della donna devota alle faccende di casa, serva contenta e accomodante, spesso raffigurata come poco attraente agli occhi degli uomini (bianchi). La risposta, cioè, alle aspirazioni abolizioniste: l’idea era che questo tipo di donna accettasse la sua condizione, legittimando lo sfruttamento economico degli schiavi domestici.
Sapphire. Poteva capitare che le schiave lavorassero al fianco degli uomini, di qui la convinzione che ne assumessero i tratti caratteriali meno eleganti. Il passaggio allo stereotipo della donna nera arrabbiata – talvolta moglie irascibile e sboccata – fu immediato dopo l’abolizione della schiavitù e massificato attraverso il personaggio di Sapphire Stevens, reso celebre dallo show Amos ‘n’ Andy.
Jezebel. Molti autori e intellettuali ricordano come fosse tipico degli Stati Uniti il fenomeno del bianco povero che nelle piccole fattorie aveva un contatto stretto con i pochi schiavi che possedeva, una circostanza rara altrove, per esempio in Sud America, dove i ricchi proprietari disponevano di decine o centinaia di persone al loro servizio. Ad ogni modo le maggiori conseguenze di questi incontri tanto ravvicinati ricadevano sulle donne e violenze e stupri erano all’ordine del giorno. Ma la narrazione venne presto ribaltata, con il ritratto di donne nere “promiscue” se non addirittura “predatorie”. E lo stereotipo di Jezebel è tra i più difficili da cancellare, come dimostrano indagini anche recenti sui pregiudizi legati alla sessualità e alla maternità.
Matriarch. Nel marzo del 1965 vennero stampate alcune copie di un rapporto intitolato The Negro Family: The Case for National Action. Era opera del futuro senatore Daniel Patrick Moynihan, in quegli anni assistente segretario al dipartimento del Lavoro. Il suo obiettivo era mettere in luce che le leggi sui diritti civili, da sole, non avrebbero prodotto l'uguaglianza razziale. La cosa, sul momento, piacque al presidente Johnson che a giugno pronunciò un discorso alla Howard University – tra le più prestigiose università private nere d’America –, rifacendosi in parte al paper di Moynihan. Un paio di mesi dopo, però, il rapporto venne reso pubblico e l’amministrazione lo accantonò a causa (anche) del controverso dibattito che seguì la sua diffusione. Il rapporto si concentrava sulla tipicità della famiglia nera (sorretta dalle donne in percentuali nettamente superiori a quelle delle famiglie bianche), in un quadro desolante di nuclei divisi e talvolta illegittimi. Secondo Moynihan la comunità afroamericana, in quanto sostenuta da una struttura matriarcale, ritardava il progresso dell’intero segmento demografico sulla base di un principio diverso da quello che caratterizzava invece la maggioranza della popolazione. In realtà il pensiero di Moynihan trovò non poche sponde e ancora oggi è oggetto di studio – da Ta-Nehisi Coates a Ibram X. Kendi –, ma di fatto contribuì a demonizzare le madri nere single e i figli cresciuti in contesti non convenzionali (Love Child del 1968 delle Supremes parla proprio di questo).
Questi stereotipi, mescolandosi tra loro, sono poi evoluti in nuovi cliché – spesso veicolati da letteratura e cinema – quali la “donna di casa” tossicodipendente e quasi sempre strafatta nel pieno dell’epidemia di crack, quando negli anni ‘80 la droga era diventata di colpo il problema numero uno delle metropoli statunitensi. O in alternativa – altra esposizione cara alla fiction – le donne, mogli o fidanzate, che vivono in bilico tra gli affari illeciti di mariti/compagni e le incursioni della polizia.
Attrici, modelle, cantanti. Imprenditrici, impiegate, giovani donne in cerca di occupazione. Quello di Jamila Woods è un manifesto, ricorda che Black Girls are Magic, riprendendo un fortunato slogan lanciato da CaShawn Thompson nel 2013. È un movimento ora consapevole e maturo, come ci ha mostrato Beyoncé.
Eppure la musica ha sempre dato prova di superamento dei luoghi comuni. O almeno di un tentativo che si può facilmente riconoscere in Billie Holiday e poi in Nina Simone, o in Betty Davis, che – nonostante un matrimonio ingombrante alle spalle – fu una pioniera del funk, esplicita e “scandalosa” per gli anni ‘70, mentre cantava di libertà sessuale e discriminazioni razziali. Senza dimenticare che il blues classico degli anni ‘20 si diffuse da Sud a Nord grazie a cantanti come Ma Rainey (di recente interpretata da Viola Davis) e Bessie Smith, «che portarono il blues a una compiutezza tecnica e ad un livello di spettacolo mai conosciuto prima»1.
Per quanto oggi incensiamo le regine della musica, tra film, libri e documentari, è molto probabile che ai loro tempi non venissero prese sul serio. Anche quando raggiungono risultati importanti, i neri devono affrontare sfide che ad altri, nella medesima posizione, non spettano, una condanna che viene loro appiccicata già alla nascita: dimostrarsi bravi il doppio, per quella vecchia storia del muro del pregiudizio che a quanto pare rimane difficile da abbattere. Alle donne nere è andata peggio (e continua ad andare peggio), perché più degli uomini devono fare i conti – parole di Amanda Gorman nel suo dialogo con Michelle Obama su Time – con «la politica della rispettabilità», per cui la cura dell’aspetto, tra le varie, può diventare un’ossessione per soddisfare i canoni estetici ritenuti più idonei in determinati ambienti. Tuttavia, come la stessa Gorman ci fa capire, questo paradigma sta cominciando a vacillare. Mano a mano che prende forma una rinnovata coscienza della femminilità nera – in generale, per i neri statunitensi vivere in un mondo bianco ha posto di continuo interrogativi sul proprio status –, cresce di riflesso l’accettazione di un’identità altrimenti smarrita poiché non del tutto conforme agli ideali della parte preponderante d’America.
Don't touch my hair
When it's the feelings I wear
Don't touch my soul
When it's the rhythm I know
Don't touch my crown
They say the vision I've found
Don't touch what's there
When it's the feelings I wear– Solange, Don’t Touch My Hair (2016)
L’ingresso della famiglia Obama alla Casa Bianca è stato certamente un punto di svolta incredibile. Purtroppo, ha osservato Sophia Nelson in un libro pubblicato nel 2011 – Black Woman Redefined: Dispelling Myths and Discovering Fulfillment in the Age of Michelle Obama –, nonostante molte donne nere siano riuscite a raggiungere un livello di successo che le loro madri potevano a malapena sognare, gli stereotipi restano un freno culturale al progresso che l’immagine della prima First Lady afroamericana sembrava avere sancito una volta per tutte. E i limiti che a tutt’oggi osserviamo in America, adesso sono aggravati dalla pandemia.
In definitiva – sintetizzando abbastanza è questa la conclusione a cui giunge Tamara Winfrey Harris nel suo libro – la soluzione è accettarsi e volersi bene, anche se non è facile esprimere il proprio potenziale in una società che non ha compreso ovunque il valore della diversità, spesso contraddicendo il pilastro della sua stessa esistenza. Così Rapsody riprende il viaggio già intrapreso da altre prima di lei e in Eve – secondo il vostro fedelissimo il miglior disco hip hop del 2019 – ripassa al setaccio ogni tappa, ogni conquista da Myrlie (Evers-Williams) a Oprah (Winfrey). È la sua «lettera d’amore» alle donne nere, un po’ come Queen Latifah nel 1989 con Ladies First, tra i primi brani a ridisegnare i confini di un ambiente troppo a lungo a trazione machista.
Per fortuna non mancano nuovi modelli di coraggio cui ispirarsi – Stacey Abrams, le attiviste di Black Lives Matter, LaTosha Brown – e noi, qui, restiamo in attesa del prossimo capitolo.
Altre cose interessanti
La citazione di Love Child delle Supremes voleva essere in parte un omaggio a Mary Wilson, anche se in origine il brano venne cantato dalla sola Diana Ross.
Tutti pazzi per Amorphous, da Oprah Winfrey a Beyoncé. Dopo il successo di Sunshine (The Light) con Fat Joe, il ragazzo è ora pieno di spunte blu sui social ed è finito persino sul New York Times.
Fela Kuti, Tina Turner, Dionne Warwick, Mary J. Blige, Chaka Khan, JAY-Z e LL Cool J sono alcuni dei nomi in lizza per la Rock & Roll Hall of Fame del 2021.
Probabilmente What It Feels Like di Nipsey Hussle e JAY-Z è la cosa che ascolterete di più nel weekend. Ma va detto che l’intero album ispirato al film Judas and the Black Messiah è una perla.
Sì, lo so, avrei potuto citare tante più artiste famose, cantanti o rapper. Ma in questa puntata, penso si sia capito, ho provato a estendere il discorso e a guardare oltre i soliti cliché, appunto, del “rap al femminile” (è il 2021, anche basta con questi discorsi triti e ritriti). Comunque, al riguardo consiglio questo bel podcast su Spotify curato da Danyel Smith: Black Girl Songbook.
Dubbi? Domande? Potete rispondere alla mail, se vi va, oppure commentare o scrivermi su Twitter, Instagram, Facebook. Se Mookie vi piace, iscrivetevi e fate iscrivere gli amici e le amiche alla newsletter.
State bene e alla prossima settimana!
Amiri Baraka, Il popolo del blues.