Onestà mi impone di dirvi che quella che segue è una puntata non del tutto inedita. Dell’argomento avevo infatti già scritto in un articolo pubblicato su Medium. Alcuni fatti recenti mi hanno spinto ad aggiornare e a riadattare il testo in un formato sicuramente diverso, perciò potrei azzardare che alla fine è una cosa nuova. E questo è quanto.
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Nella categoria Rappers from Houston, Wikipedia include, tra gli altri, il nome di George Floyd. Un dettaglio poco sottolineato nei giorni di fine maggio dello scorso anno, mentre guardavamo atterriti in video quei fatali 8 minuti e 46 secondi, era che Floyd fosse di origini texane, di Houston. Si trovava a Minneapolis (Minnesota), dove poi è morto, per ragioni di lavoro. E proprio a Houston, alla Fountain of Praise Church, 6.362 persone si radunarono il 9 giugno per l’ultimo saluto pubblico. Cantanti gospel, gente che indossava magliette di sostegno a Black Lives Matter o con stampate le parole pronunciate da Floyd poco prima di morire soffocato («I can’t breathe»), le stesse che furono di Eric Garner. Politici, ovviamente il governatore del Texas, il repubblicano Greg Abbott, personaggi noti quali Kevin Hart, Master P e Ludacris. Insomma, c’era chiunque.
Ai tempi della scuola, Floyd era una promessa dello sport. Frequentò la Texas A&M University di Kingsville, ma fece presto rientro a Houston, senza una laurea. Più tardi ebbe qualche problema con la giustizia, infine il trasferimento in Minnesota, costretto dalle difficoltà economiche e dall’esigenza di riuscire a provvedere alla figlia di sei anni. Fu dopo il ritorno da Kingsville che provò a fare qualcosa con il rap. Non è una storia tanto nota, ma Floyd venne coinvolto in alcuni progetti musicali, dapprima nel mega-collettivo Screwed Up Click di DJ Screw – da rapper si faceva chiamare Big Floyd – e in seguito in un altro gruppo, i Presidential Playas. Le sue abilità al microfono sono testimoniate in una traccia di un loro disco del 1996, Block Party.
Il New York Times, in un ritratto pubblicato a giugno 2020 e aggiornato in queste settimane, ha scritto che le sue rime sono ostentato orgoglio per il Third Ward, la zona di Houston in cui è cresciuto e famosa soprattutto per essere il luogo di origine di una delle persone più celebri del pianeta: Beyoncé Knowles.
I neri costituiscono il 13 per cento della popolazione americana. Eppure, nel 2015, nel computo delle persone uccise dalla polizia, i corpi neri ammontavano al 26 per cento, un dato che è poi lentamente calato al 24 per cento nel 2016, al 22 per cento nel 2017, e al 21 per cento nel 2018, secondo il «Washington Post». I corpi neri disarmati – che a quanto pare sembrano minacciosi agli agenti impauriti – hanno il doppio di di probabilità di essere uccisi rispetto ai corpi bianchi disarmati.
– Ibram X. Kendi, Come essere antirazzista (2019)
Nel nostro immaginario, inteso di noi europei, il Texas rappresenta lo stereotipo dell’America: cowboys rigorosamente bianchi e spaghetti western, le mandrie, il petrolio, il patriottismo sfrenato e intriso di machismo, Ted-Cruz-le-armi-e-il-bacon, la musica country. Niente di più miope. Non sempre l’associazione Texas-Beyoncé è immediata, essendo lei un’icona mondiale. Ma in Texas se lo ricordano, eccome. Il Texas Monthly ha un’intera sezione dedicata a Beyoncé e lei, a sua volta, non ha mai rinnegato le proprie radici. Nel 2020, durante la fase più dura della pandemia (il Texas è stato all’inizio uno degli Stati maggiormente colpiti e gli effetti sono ricaduti soprattutto su afroamericani e minoranze in generale), insieme alla madre, l’imprenditrice Tina Knowles Lawson, ha fornito alla comunità di Houston kit per i test, mascherine e guanti, attraverso l’iniziativa #IDIDMYPART, dopo che aveva già donato sei milioni di dollari ad alcune organizzazioni impegnate nell’emergenza sanitaria.
Nelle ultime settimane il Texas è stato sotto i riflettori a causa dell’incredibile ondata di gelo che si è abbattuta sullo Stato, provocando disagi e ingenti danni alla popolazione. Ad ogni modo lo Stato è sempre un “osservato speciale” perché considerato anticipatore di comportamenti e tendenze che, con ogni probabilità, si rifletteranno su scala nazionale. Ha un prodotto interno lordo che lo collocherebbe, se fosse ancora indipendente (lo era nell’800, poi da allora di cose ne sono successe), tra i primi dieci paesi al mondo, sotto la California, che è la sua antitesi politica, riprendendo le parole del premio Pulitzer Lawrence Wright, autore di Dio salvi il Texas.
Si ritiene che entro il 2050, c’è chi dice anche prima, negli Stati Uniti i bianchi non costituiranno più la maggioranza assoluta dei cittadini americani. La nuova maggioranza sarà quella che vedrà insieme le attuali minoranze, perlopiù latini, asiatici e afroamericani. Ecco, in Texas è un processo avviato già da circa un decennio e questi mutamenti, scommettono in molti, avranno presto o tardi un impatto significativo sull’esito delle future contese elettorali, locali e nazionali. Si tratta di un posto tradizionalmente conservatore, con sfumature liberal osservabili qua e là. Nel 2016 Donald Trump vinse su Hillary Clinton con un margine di quasi dieci punti percentuali – quattro anni prima Romney superò Obama di 15 –, ma nel 2020 lo scarto con Joe Biden si è ulteriormente ridotto a +5 (anche se in alcune contee a maggioranza latina l’ex presidente ha registrato un aumento dei voti, confondendo così le idee). Dal 1995 con George W. Bush, i governatori sono senza soluzione di continuità espressione del GOP, eppure le città procedono in direzione opposta. Sono puntini blu (il colore del Partito democratico) all’interno di una mappa rossa (il colore del Partito repubblicano). A Houston e a Dallas i sindaci sono i democratici Sylvester Turner ed Eric Johnson e anche ad Austin, che del Texas è la capitale, il primo cittadino Steve Adler è un esponente dem.
Nonostante l’indole reazionaria di qualche decisore politico che per semplice opportunismo o retaggio culturale prova ad ostacolare i cambiamenti, in questi anni le principali città texane sono cresciute da un punto di vista demografico più di altre metropoli statunitensi, ospitano aziende ad alto contenuto tecnologico (stile Silicon Valley) e, in conseguenza di tutto ciò, stanno diventando tanto più inclusive di quanto siano mai state in passato. È a Houston che non a caso si è formato il rapper Tobe Nwigwe, figlio di immigrati nigeriani, entrato nelle grazie degli Obama con la serie #getTWISTEDsundays su Instagram. Se il Juneteenth, la festa della liberazione dalla schiavitù, ha assunto di recente una dimensione più mainstream (è ormai riconosciuto in quasi tutti gli Stati Uniti), in parte è dovuto al Texas, che per primo riconobbe la ricorrenza nel 1980: del resto è qui che il generale Gordon Granger proclamò la liberazione di tutti gli schiavi il 19 giugno 1865, dopo la sconfitta dei confederati nella guerra di secessione. Ma in definitiva, come abbiamo visto nella rappresentazione dei puntini blu sulla mappa rossa, persistono due tipi di Texas contrapposti, specchio – per non smentirsi mai – dell’America conflittuale di oggi.
Atlanta, Georgia, è considerata a ragione l’odierna capitale mondiale della musica trap ed epicentro della black culture. Ma prima che gli OutKast, sostenuti dal team di produttori Organized Noize e dalla Dungeon Family, cominciassero a scalare le classifiche, il riscatto hip hop del Sud era partito dal Texas, con la solita Houston protagonista, in particolare grazie alla Rap-A-Lot, l’etichetta fondata da J. Prince. Nel 1986-87 gruppi come i Geto Boys di Scarface o come gli UGK (Bun B e Pimp C) da Port Arthur, una cittadina a maggioranza nera non troppo distante da Houston, diedero i primi assaggi di Dirty South, la risposta al più quotato rap di New York o della California.
Una caratteristica di questi gruppi, che emerge soprattutto nei primi dischi, è il legame profondo con il territorio, quasi l’esigenza organica di far conoscere ad un pubblico ampio realtà diverse da quelle descritte nelle varie Straight Outta Compton o durante le cosiddette Bridge Wars di New York. Se nel 1982 Melle Mel e Duke Bootee erano in The Message i portavoce della concrete jungle, alcuni anni dopo i Geto Boys, in Assassins, lanceranno uno dei primi esperimenti di horrorcore, mostrando una Houston grigia, con riferimenti a Freddy Krueger e a film come The Texas Chain Saw Massacre (Non aprite quella porta).
Il Texas, comunque, è uno Stato abbastanza vasto da ospitare generi musicali di tutti i tipi, dal gospel al blues (due nomi su tutti: T-Bone Walker e Lightnin’ Hopkins), dal rock al rap. Texani sono Devin The Dude, Lil’ Flip, Lil’ O (in realtà di origini nigeriane, lo cito in particolare per Playas Get Chose, una fissa di gioventù), Slim Thug e Paul Wall. E ancora Kevin Abstract e il resto dei Brockhampton, e Travis Scott ovviamente. Poi c’è Megan Thee Stallion, fresca vincitrice del Grammy come migliore artista emergente. Lecrae, uno dei massimi rappresentanti del christian hip hop. A El Paso è cresciuto Khalid, tra i volti più interessanti della musica r’n’b contemporanea. E last but not least, da Austin, l’ottimo bluesman Gary Clark Jr.
Scrive Lawrence Wright in Dio salvi il Texas:
Quando ero al liceo a Dallas, i miei amici e io giravamo in auto ore senza meta, ipnotizzati dalla trasmissione su WRR chiamata “Kat’s Karavan”. Trasmetteva rhythm and blues, conosciuta anche come “race music”, suonata da grandiosi bluesmen texani, come T-Bone Walker, Lightnin’ Hopkins e Lead Belly. Si può tracciare una linea tra questi musicisti e Janis Joplin, che prese il blues del Texas e lo usò per sovraccaricare il rock and roll. Un’altra traiettoria andava dall’R&B attraverso il mariachi per arrivare a Selena, o attraverso il pop per arrivare a Beyoncé. Il Texas è un grande dispositivo di codifica di formati culturali.
La famiglia di George Floyd riceverà dalla città di Minneapolis 27 milioni di dollari come “risarcimento”, se così si può dire, per la tragedia. Si tratta di una cifra record, che il famoso avvocato Ben Crump – quello di Who Killed Tupac? – ha commentato in questo modo: «Il fatto che il più grande patteggiamento per un caso di morte provocata dalla polizia riguardi il caso di un uomo nero è un messaggio forte: le vite nere contano e la violenza della polizia contro le persone nere deve finire». Tuttavia, oltre alla mediaticità (inevitabile) del caso, quest’ultimo evento è stato un ulteriore ostacolo alla composizione di una giuria imparziale (dopo alcuni giorni sono state trovate 12 persone, sette donne e cinque uomini, ora mancano due supplenti per completare il quadro), circostanza che ha rischiato di rallentare più del dovuto il processo contro Derek Chauvin, l’ex poliziotto che il 25 maggio 2020 soffocò Floyd con un ginocchio sul collo. Non è la prima volta che Minneapolis si ritrova a pagare ingenti somme per la cattiva condotta della polizia e la cosa comincia a creare malumori tra i cittadini. Dopo le vicende legate a George Floyd e a Breonna Taylor, si è parlato a lungo negli Stati Uniti di una complessiva riforma della polizia, anche se non è semplice da far passare al Congresso. Da alcuni mesi, però, qualcosa si sta muovendo a livello locale.
Con i suoi 28 Grammy conquistati in carriera (almeno fin qui), Beyoncé è entrata nella storia della musica. Un traguardo che dà ancora più lustro allo speech dello scorso anno in occasione di Dear Class of 2020, l’evento per i neodiplomati e laureati introdotto dall’ex coppia presidenziale, Michelle e Barack Obama. Il suo intervento – parteciparono, tra gli altri, Lady Gaga, Alicia Keys e Justin Timberlake – fu un manifesto sull’importanza e sulla bellezza della popolazione nera, quindi contro la disuguaglianza razziale e il sessismo nell’industria dell’intrattenimento.
Altre cose interessanti
Dan Runcie di Trapital (siamo praticamente diventati il suo ufficio stampa) illustra le tre lezioni che possiamo imparare dalla content strategy di Beyoncé.
Domenica scorsa il Grammy per il Miglior disco di musica cristiana contemporanea è andato a Kanye West. Anche lui è entrato nella storia (a modo suo).
A proposito di Kanye West: è in corso un dibattito sul suo patrimonio, ma secondo Forbes non è lui la persona nera più ricca d’America come invece si era ipotizzato in un primo momento (qui la versione in italiano).
Quale che sia stata la motivazione alla base della strage di Atlanta, pochi giorni fa (in molti ritengono che sessismo e razzismo nei confronti di donne asiatiche siano elementi imprescindibili), è un fatto che negli ultimi tempi siano cresciuti i reati d’odio negli Usa contro i cittadini di origine asiatica. «Negli Stati Uniti non c’è più un’unica questione razziale, perché ne stanno emergendo di nuove – ognuna con la propria storia – al punto da rendere necessario l’uso del plurale», scrivevamo alla vigilia dei ballottaggi del 5 gennaio in Georgia.
Il titolo di questa puntata è un omaggio agli UGK: Texas Ave è una strada di Port Arthur. E sì, vero, anche Vanilla Ice è texano! Dubbi? Domande? Suggerimenti? Potete rispondere alla mail, se vi va, oppure commentare o scrivermi su Twitter, Instagram, Facebook. Se Mookie vi piace, iscrivetevi e fate iscrivere le amiche e gli amici alla newsletter.
State bene, ci leggiamo venerdì prossimo!