Ci siamo. Questa è l’ultima puntata di Mookie inviata tramite Medium. Dalla prossima settimana si passa a Substack. Chi ancora non ha provveduto, può iscriversi alla “nuova” newsletter a questo link. Grazie di cuore.
Ok, possiamo cominciare.
L’ultima Verzuz Battle — una delle tante iniziative musicali online prese in periodo di quarantena — ha visto “scontrarsi” due pezzi grossi di Atlanta: Jeezy e Gucci Mane. I due hanno ripercorso circa 15 anni di scazzi reciproci e questo dovrebbe bastare per spiegare l’incredibile successo di pubblico che il format ha registrato per l’occasione. Probabilmente ne avrete già letto da qualche parte, anche perché Swizz Beatz — l’ideatore, insieme a Timbaland, di @verzuztv — si è vantato quasi subito dei numeri raggiunti: più di nove milioni di spettatori tra Instagram, Apple Music e altre piattaforme, un risultato che complessivamente supera quello di show o eventi musicali più rodati. La notizia vera è che il confronto, in cui Jeezy e Gucci Mane se le sono date di santa ragione rompendo lo schema di “stima e amore” dei precedenti — da Alicia Keys e John Legend a Gladys Knight e Patti LaBelle, passando per DMX e Snoop Dogg — , si è concluso senza spargimenti di sangue.
Si scherza, dai. La parte che davvero ci interessa è che i due si sono “alleati” quando c’è stata l’incursione virtuale di Stacey Abrams, nel giorno — 19 novembre — in cui lo Stato della Georgia ha certificato la vittoria di Joe Biden, dopo il riconteggio richiesto dalla campagna Trump, in quella che più o meno da 30 anni era una roccaforte repubblicana.
A questo punto serve un breve ripasso dalle vecchie puntate:
[In Georgia] non può non essere elogiato il mega-lavoro di Stacey Abrams, candidata a governatrice dello Stato nel 2018, che però non riuscì a vincere a causa (anche) degli stratagemmi (scorretti) dell’avversario repubblicano, Brian Kemp (in quanto segretario di Stato della Georgia era il responsabile delle procedure elettorali). Subito dopo la sconfitta, Abrams non si è persa d’animo e ha fondato Fair Fight Action, un’organizzazione contro la soppressione del voto che ha aiutato tantissime persone a registrarsi alle liste: una prima spinta verso un cambiamento politico e sociale. In giro si mormora che Stacey Abrams potrebbe ricandidarsi nel 2022, ma prima, il 5 gennaio 2021, si terrà in Georgia un ballottaggio cruciale per determinare quale partito avrà la maggioranza al Senato (circostanza che farà la differenza per la nuova amministrazione): ecco perché la sfida di Fair Fight non può dirsi ancora conclusa.
Capito? Anche se appassionano meno delle presidenziali, i ballottaggi del 5 gennaio in Georgia — a contendersi i seggi del Senato saranno l’uscente repubblicano David Perdue e il democratico Jon Ossoff, più Kelly Loeffler (Gop) e il pastore Raphael Warnock (Dem) — hanno un’importanza fondamentale per la futura amministrazione Biden. Attualmente la situazione al Senato vede i repubblicani in vantaggio 50 a 48 (serve arrivare a 51 su 100 per ottenere la maggioranza), motivo per cui i democratici dovranno conquistare entrambi i posti in palio per raggiungere la parità e usufruire del diritto di voto che allora spetterebbe al vicepresidente Usa, vale a dire, dal 20 gennaio 2021, Kamala Harris. Uno scenario di difficilissima realizzazione, ma non impossibile.
Nel suo intervento durante la Verzuz Battle tra Jeezy e Gucci Mane, Stacey Abrams ha perciò esortato il pubblico (della Georgia) al voto e ha ringraziato i due rapper per avere offerto un sostegno alla causa, contribuendo a veicolare il messaggio. Si stima che dal 2018 Fair Fight Action sia riuscita a far registrare almeno 800 mila nuovi elettori: ora l’obiettivo è convincere i neomaggiorenni, i giovani che al 3 novembre non avevano ancora compiuto 18 anni. Un “palcoscenico” ideale, insomma, quello di Verzuz.
Però sbaglia chi pensa che dall’altra parte non si stiano impegnando in simili manovre. Da un lato è lo stesso presidente Trump a promuovere i candidati repubblicani, anche perché un Senato a maggioranza democratica sarebbe un ulteriore freno al trumpismo — che invece resta molto forte — , dall’altro alcuni esponenti di spicco del Gop stanno utilizzando la Georgia quale trampolino in vista di possibili candidature alla Casa Bianca nel 2024. Inoltre, anche in Georgia, si osservano nuovi “territori” contendibili, che certamente fanno gola tanto ai democratici quanto ai repubblicani: gli elettori latini e quelli di origine asiatica.
Nello specifico, in Georgia, su oltre dieci milioni di residenti, circa cinque milioni e mezzo sono bianchi, più di tre sono neri, appena un milione è ispanico e circa 648 mila appartengono ad altri gruppi (dati Georgia.gov). La Georgia, dopo la schiavitù, ha abbracciato l’era Jim Crow, ma è anche lo Stato che più tardi ha avuto tra i suoi rappresentanti al Congresso, ininterrottamente dal 1986, un campione dei diritti civili come John Lewis. Alcune contee — ad esempio quella di Bibb, in particolare Clayton e DeKalb, oltre a Fulton trainata dalla capitale dello Stato (e della trap) Atlanta, la città anche di Killer Mike, metà Run The Jewels, da sempre sostenitore di Bernie Sanders — sono a maggioranza afroamericana e i grandi centri abitati sono il principale serbatoio di voti per il Partito democratico. È in Georgia che a febbraio si è consumato l’omicidio di Ahmaud Arbery, da parte di due uomini bianchi, padre e figlio, convinti che il giovane di 25 anni che stava facendo jogging fosse il ladro che giorni prima aveva compiuto qualche furto nel quartiere, ennesima dimostrazione di un persistente pregiudizio basato sul colore della pelle. Per non dilungarci troppo, in Georgia, nonostante i progressi, ancora si avverte il retaggio della segregazione razziale. I trend nazionali, però, impongono nuove strategie, inclusive di tutte le minoranze. A gennaio il ballottaggio della Georgia sarà un doppio test per la politica.
Alle ultime elezioni, infatti, abbiamo osservato due fenomeni. Per la prima volta, gli elettori ispanici hanno superato nel complesso quelli afroamericani, mentre gli asiatici, stando alle rilevazioni del Pew Research Center, sono il segmento demografico in più rapida crescita nell’elettorato statunitense. E a differenza degli afroamericani — al netto dei voti guadagnati da Trump rispetto al 2016 —, i due gruppi, pur mostrando anch’essi una maggiore propensione verso i candidati dem, appaiono tanto più eterogenei, nel senso che le persone non votano tutte allo stesso modo per il semplice fatto di essere latine o asiatiche. Chi ha radici cubane potrebbe non essere dello stesso avviso di un portoricano quando si recherà al seggio per votare, così come un coreano potrebbe esprimere una preferenza ad un candidato in modo diverso da un altro cittadino di origine asiatica.
In qualche modo tutto questo rappresenta una prova definitiva di costruzione di America post-razziale. In molti angoli del paese, culture e tradizioni condividono strade e spazi vitali, ma istanze e problemi diversi hanno spesso costituito motivi di scontro tra le stesse minoranze. È quello che accadde durante le proteste di Los Angeles del 1992, scoppiate dopo la sentenza che scagionò i quattro agenti protagonisti, un anno prima, del pestaggio di Rodney King (un episodio che oggi pigramente consideriamo il principio di tutto, da cui Ice Cube trasse spunto per Who Got The Camera? anticipando di parecchi anni gli avvenimenti più recenti): a un certo punto crebbero le tensioni — a lungo covate — anche tra afroamericani, ispanici e coreani, con questi ultimi in particolare che subirono molti danni alle loro attività economiche.
All Involved è un romanzo di Ryan Gattis del 2015 che racconta il contorno, per così dire, di quei “sei giorni di fuoco” del 1992: le gang latine — clica — approfittarono dei disordini per agire indisturbate, svaligiare gli esercizi commerciali, appiccare incendi, regolare i conti. Prima di scrivere il libro, allo scopo di avere una completa visione dei fatti, l’autore condusse un’indagine certosina, parlando con molte persone, ex criminali, vigili del fuoco all’epoca in servizio, testimoni. Lil’ Creeper, uno dei personaggi di Gattis, profetizza: «Los Angeles ha la memoria corta. Non impara mai niente. Ed è questo che la distruggerà. Sta’ a vedere. Ci saranno altre rivolte razziali nel 2022. O anche prima, non so».
Ora potrà sembrare un discorso un po’ banale, ma l’hip hop si è distinto quale elemento unitivo. I Cypress Hill a Los Angeles (soprattutto) e i Beatnuts, con Fat Joe e Big Pun a New York, sono degli apripista, ma negli anni un po’ tutte le minoranze hanno abbracciato un movimento tradizionalmente afroamericano. Tra gli artisti più in voga della scena attuale, Anderson .Paak (madre sudcoreana) e Tyga (madre vietnamita) sono a modo loro rappresentativi dei cambiamenti demografici in atto. In ambito underground, interessanti sono i nomi di Kero One e Azure, entrambi di origine coreana. Ad un livello superiore, ben oltre l’hip hop, la futura VP degli Stati Uniti, Kamala Harris (madre indiana e padre giamaicano), è il caso simbolicamente più incisivo. E chissà quanti, di analoghi, se ne potrebbero scovare solo nella Silicon Valley o nelle aree ad alto sviluppo tecnologico.
Negli Stati Uniti non c’è più un’unica questione razziale, perché ne stanno emergendo di nuove — ognuna con la propria storia e con le proprie pretese — al punto da rendere necessario l’uso del plurale. A gennaio la Georgia sarà un primo, timido laboratorio dell’America del futuro.
Bonus
Intervistai Ryan Gattis a settembre del 2016, per provare a delineare un quadro, vista la ciclicità degli eventi, della società americana post-Obama che si apprestava al voto e il suo romanzo mi era parso un punto di partenza niente male. C’è un passaggio di quella chiacchierata che mi fa piacere riportare.
L’hip hop è stato definito in passato come una novella forma di giornalismo. Leggendo il romanzo di Ryan Gattis si ha quella stessa sensazione, ripercorrere un episodio dopo l’altro le fasi di un contesto che segnò la storia della comunità afroamericana e della società statunitense in generale […]. Gli avvenimenti di aprile-maggio 1992 divennero presto oggetto di dibattito politico, con il presidente uscente George H. W. Bush e lo sfidante democratico Bill Clinton impegnati nella campagna elettorale: più pragmatico l’approccio del primo, più emotivo quello del secondo. Ora appare tutto così attuale, di nuovo, con i contenuti impegnati del rap e Black Lives Matter. Gattis è un grande fan dell’hip hop e mostra un’orgogliosa gratitudine quando gli proponiamo questa chiave di lettura. «Gli A Tribe Called Quest hanno cambiato la mia vita. The Low End Theory (loro storico album del 1991, ndr) rappresentò un cambiamento epocale per me. Credo sia corretto dire che questo genere musicale ha modellato la mia comprensione e il rispetto delle parole. Forse nessun’altra forma d’arte è responsabile della mia cura per i dettagli e per l’autenticità nello storytelling. Mi impegno molto per ritrarre questa cosa nel mio lavoro […]. Sono onorato che si veda questo tipo di connessione, sicuramente cerco di scrivere con lo stesso spirito che avverto nei miei pezzi rap preferiti».
Ci siamo dilungati troppo? Spero non vi siate annoiati, ma era doveroso salutare Medium — tutti insieme: ciaooo Mediuuum — nel migliore dei modi. È difficile stabilire se abbandonerò completamente la piattaforma, se Off The Benches (di fatto la mia prima “creatura”) resterà appena un archivio delle cose scritte in passato oppure no. Vedremo, non so dare una risposta, tranne che da venerdì prossimo saremo su Substack. Comunque, per qualsiasi suggerimento o critica (rigorosamente costruttiva) è sufficiente rispondere a questa mail. Per il resto, grazie.
Ci leggiamo presto!
(a voi, in effetti, cambierà poco ❤️)
A proposito, quasi dimenticavo. Auguri, Shawn Carter.