Tra gli effetti negativi e dolorosi della pandemia di coronavirus ce n’è uno che può apparire piuttosto banale, soprattutto se valutato cinicamente da qui, ma che ha suscitato in me malinconia e tristezza. È una cosa di cui si è venuti a conoscenza diverse settimane fa: la chiusura programmata del Roosevelt Hotel a New York. L’edificio, un pezzo iconico di Manhattan, si trova sulla 45esima, a dieci minuti a piedi da Times Square, a due passi da Grand Central Terminal e non troppo distante da Central Park. Tra i suoi muri è accaduto di tutto. Fu il quartier generale di Thomas Dewey, candidato repubblicano alla Casa Bianca nel 1948 e governatore dello Stato di New York, che venne dichiarato vincitore su Harry Truman dal Chicago Daily Tribune, mandato alle stampe prima che chiudessero tutti i seggi e un po’ troppo fiducioso dei sondaggi che gli accreditavano alla vigilia del voto una larga vittoria. Alla fine vinse Truman: una fotografia con in mano una copia del giornale («Dewey defeats Truman»), già Storia prima ancora di essere scattata. Sempre al Roosevelt Hotel, Barack Obama organizzò una delle sue raccolte fondi, ma l’albergo è divenuto famoso per essere stato la location di numerosi film, da quelli molto importanti (ad esempio Malcolm X di Spike Lee, tiene a sottolineare Mookie nel suo conflitto d’interessi) ai cinepanettoni nostrani. Soprattutto — almeno nella parte che ci interessa più da vicino — è stato intorno alla fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 la sede di rassegne dedicate a libri, fumetti e dischi. Al Roosevelt Hotel i vinili venivano letteralmente presi d’assalto dai produttori hip hop più famosi nell’area di New York: si potevano incontrare Pete Rock, Dj Premier, Q-Tip, Large Professor, Prince Paul e chissà quanti altri, pronti ad accaparrarsi i dischi migliori cui attingere per fare nuova musica. Questi eventi diedero un nuovo impulso alle produzioni della East Coast, altrimenti offuscata in quegli anni dall’altro lato dell’America, dagli N.W.A. e dal nascente gangsta rap. Il Roosevelt Hotel, insomma, contribuì in un certo senso a rimodulare il sound del rap dei primi anni Novanta, a New York. La sua chiusura rappresenta senza dubbio la fine di un’epoca, il definitivo superamento del ‘900.
Cosa ne è, oggi, di classici come The Low End Theory, Enter The Wu-Tang (36 Chambers), Illmatic, Ready To Die? La domanda non è così banale, ora che l’hip hop sembra prendere una piega diversa. La geografia resta una variabile importante, ma è nel complesso molto più difficile stabilire come suoni una cosa anziché un’altra. Un pezzo che suona New York è davvero distinguibile da uno che suona Los Angeles, o Chicago, o Atlanta? È un fatto che con ogni probabilità coinvolge in maniera diretta chi ascoltava il genere già negli anni ’90, o anche prima, meno chi è più giovane e approccia alla musica hip hop soltanto adesso, con tutte le nuove contaminazioni che sta subendo. Anche a livello underground — una qualche forma di underground persiste anche in quest’epoca di musica veicolata online — le caratteristiche di un luogo, quelle peculiarità in passato ben identificabili, rischiano di svanire. Prendiamo alcuni nomi a New York, oggi: MIKE (dj blackpower), Medhane (di recente al centro di una brutta storia che ha raccontato Eugenio Ronga nella sua newsletter, PARALLELO, che consiglio caldamente di seguire), Adé Hakim, tutti avanguardisti di un rap alquanto introspettivo, ragazzi che guardano più a Earl Sweatshirt che a Nas e che proiettano il background culturale in una dimensione più futuristica. Poi c’è Caleb Giles, che è un po’ come i suoi amici del Bronx (non Medhane, che è di Brooklyn) e un po’ no.
Il Bronx non è più quello degli anni ’70, dove tutto ha avuto inizio, che cambiò fisionomia e letteralmente pelle a partire dagli anni ’40 con la costruzione della Cross-Bronx Expressway, opera dell’architetto Robert Moses. Una “ferita” nel distretto, che deprezzò le case nei dintorni della gigantesca e trafficatissima arteria. Molti bianchi della middle class cominciarono ad abbandonare le attività e si trasferirono, lasciando dietro di sé un crescente degrado, rovine di palazzi, incendi sparsi, le gang, la droga e il resto, ma anche DJ Kool Herc, i Boogie Down Productions e le bridge wars. Ancora oggi ha i suoi problemi — quale posto non ne ha — , ma è allo stesso tempo un vivace pezzo di mondo, portatore di diverse tradizioni culturali, culla dell’hip hop, l’alfa e l’omega, con il museo che aprirà nel 2023 e che sarà, nelle intenzioni dei promotori, la sede di una grande eredità, incubatore di arti e un ponte verso il futuro. Il Bronx rimane un luogo di protesta, quando serve, che si è fatto sentire contro la brutalità poliziesca dopo l’uccisione di George Floyd e animato da rapper e attivisti come Mysonne. Ed è infine il distretto che il 3 novembre ha scardinato vecchi tabù — speriamo una volta per tutte — , eleggendo Ritchie Torres, che sarà il primo nero dichiaratamente gay, insieme a Mondaire Jones, ad occupare un seggio al Congresso.
È in questo contesto evolutivo che prende vita la musica di Caleb Giles, 22 anni. Il 21 ottobre è uscito il nuovo disco, Meditations, un concentrato di jazz e hip hop (spesso suonato proprio da lui, ex componente del gruppo jazz Standing on the Corner). Un lavoro, se possibile, più riflessivo dei precedenti Tower (album di esordio, ascoltabile solo su Bandcamp), There Will Be Rain e Under the Shade, che ripercorre il suo ultimo anno, il travagliato ritorno a casa, nel quartiere di Kingsbridge, dopo aver vissuto per un periodo tra Manhattan, Brooklyn e altre città. Un anno fa di questi tempi si è messo al pianoforte, ha scritto le melodie e ha dato forma a Meditations, culminato nel pieno di una pandemia, un tempo che però — parole sue — ha utilizzato per «crescere». Le atmosfere non sono quelle di Illmatic, ovviamente (né c’è la pretesa di mettere in mostra una netta continuità con il passato), ma lì dentro c’è ancora traccia di New York, se la state cercando. Non si scherza con il Bronx.
Stay down, see all the changes ‘round here
Picking the pace up
While you’re picking the face out
Digging them stakes off
The dirt I embrace out here
You’re fucking my days up
It’s true, ain’t number to pace up
I grew and I ain’t son— Caleb Giles, Stone Flower (2020)
Altre cose interessanti
Va piuttosto da sé che l’intenzione di parlare delle nomination ai Grammy non era molta — lascio volentieri la parola a Fabio Negri su The Italian Soul e a Clara Mazzoleni su Rivista Studio — , ma non si può non osservare come le decisioni relative al Best Rap Album siano interessanti: a parte Jay Electronica (A Written Testimony) e Nas (King’s Disease) che sarebbe stato strano il contrario, coraggiose sono le candidature di D Smoke (Black Habits), Freddie Gibbs e The Alchemist (Alfredo), Royce Da 5’9” (The Allegory). All’appello manca il quarto capitolo dei Run The Jewels, scelta comunque curiosa in periodo di proteste, considerando che sulla scia di quanto successo durante l’anno dal caso Floyd in poi, la Best Urban Contemporary Album si è “trasformata” in Best R&B Progressive Album per richiamare le origini di un genere e allo scopo (anche) di evitare accuse di razzismo edulcorato.
In giro si dice che sia prossima la pubblicazione di un nuovo album di Dr. Dre. Visti i precedenti, manteniamo la calma.
È morto il primo (e unico) sindaco nero di New York, David Dinkins. Una figura in verità controversa, legata ai disordini di Crown Heights del 1991, che si colloca tra Ed Kock e Rudy Giuliani.
Il libro di memorie di Barak Obama sta andando benissimo in termini di vendite (1,7 milioni di copie nella prima settimana), segnando un record storico per la casa editrice Penguin Random House. Obama sarebbe inoltre d’accordo con l’idea di fare interpretare la sua parte a Drake — un desiderio dal 2012, a quanto pare — in un eventuale biopic (grazie ad Alessio Samele, spacciatore ufficiale di notizie per Mookie).
Joe Biden ha superato gli 80 milioni di voti, Donald Trump ne ha ottenuti oltre 73. Tra i due ci sono poco più di sei milioni di voti di differenza. Entrambi risultano essere i candidati più votati di sempre, complice l’altissima partecipazione alle ultime elezioni. Trump continua a sostenere che le presidenziali siano state «una frode massiccia» (vabbè), però dovrebbe aver capito com’è che funziona. Ai cronisti ha infatti detto che se i grandi elettori a dicembre voteranno per Biden, allora farà le valigie. Non ha riferito se parteciperà il 20 gennaio alla cerimonia di insediamento del nuovo presidente. Lo scopriremo più avanti.
Per concludere, tutto il mondo è paese.
Il fatto che il sottoscritto abbia soggiornato al Roosevelt Hotel nel 2015 è puramente casuale. Per il resto, abbiamo mantenuto una promessa di qualche settimana fa: parlare di Caleb Giles, che è tra gli artisti underground più interessanti del panorama newyorkese. E sì, c’era anche la volontà di rimarcare che l’hip hop non è solo bling bling.
Alla prossima settimana, ciao!