Forse era solo una questione di tempo, di attenta riflessione e di studio. Come dice MC Lyte in Change Your Ways, brano che abbiamo citato nella precedente puntata di Mookie, «They got us twisted, Black skin don’t mean we monolithic». Alla fine gli appelli dell’universo hip hop al voto per Kamala Harris sono arrivati tutti insieme, anche se non sono serviti a granché. Di solito questi annunci in pompa magna sono utili a cementare l’opinione di chi già la pensa allo stesso modo, a creare un effimero entusiasmo, ad amplificare il messaggio. Però poi, quando è il momento di recarsi alle urne, difficile che qualcuno ancora ci pensi, neppure se a fare l’endorsement è l’artista più importante al mondo. Vale per Taylor Swift, vale per Beyoncé, vale per qualsiasi personaggio famoso – cantante, attore o sportivo –, quindi vale anche per Bad Bunny e poco importa se molti cittadini di origini portoricane si sono legittimamente incazzati per la battuta razzista e tristissima di un comico invitato al mega-evento elettorale di un candidato – Donald Trump – che già di suo, quanto a empatia, lascia a desiderare: è assai probabile che tanti altri voteranno comunque per lui.
Know I’ma win, like the election if Trump run again
– Benny The Butcher, Everybody Can’t Go, 2024
A quelli che eravamo riusciti a elencare la scorsa settimana, negli ultimi giorni di campagna si sono aggiunti, per Kamala Harris, anche Sexyy Red – un autentico dietrofront –, Fat Joe – autore di un energico rimprovero indirizzato ai sostenitori latini di Trump (in compenso, a febbraio, si era dovuto sorbire critiche in quantità perché aveva acquistato le sue sneakers dorate) – e Meek Mill, il quale ha pubblicato un pezzo a seguito di polemiche per delle dichiarazioni che erano suonate alle orecchie di molti a favore del leader della galassia MAGA.
Now, what’s freedom to you?
Let’s talk about it, take a minute, think it through
I’m all about it, but the concept seems new
The coppers still shoot us down on Channel 5 news
Lock us up for anythin’ we do to pay dues
Some of us woke while some stay snoozed
Zombies walkin’ around trippin’ over issues
The knowledge is official but it’s often misused– Joey Bada$$, GOOD MORNING AMERIKKKA, 2017
Non negherò un aspetto: nei mesi passati ho contestato, per così dire, la scarsa partecipazione di artisti hip hop al dibattito pubblico. Soprattutto ho sofferto la prolungata assenza della musica di protesta e del rap politico. Salvo rare eccezioni, è stato come percepire un maggiore disincanto dopo le marce del 2020. Il presidente Joe Biden non voleva saperne di ritirarsi e non scaldava i cuori. Di contro Trump, il candidato più forte nel GOP, era divisivo e la maggior parte degli elettori – siccome la vittoria su Harris è stata piuttosto netta non possiamo far finta che quello che narravamo prima sia svanito nel nulla – speravano in un passo di lato di entrambi. L’inflazione, la guerra a Gaza, le incertezze su molteplici questioni: c’erano tutte le attenuanti del caso. In estate, nonostante i dubbi che si trascinava dietro, l’improvviso debutto della campagna Harris è stato uno scossone provvidenziale. Infine è sopraggiunto l’election day e sappiamo tutti come si è conclusa questa folle corsa. Servirà del tempo per metabolizzare l’esito del voto, per adesso possiamo limitarci a osservare che i risultati delle ultime elezioni (2016, 2020 e 2024) sono stati innescati da una serie di cortocircuiti, alcuni più immediati, altri non ancora decodificati.
Ciao! Questo è un episodio speciale di Mookie, una newsletter di Fabio Germani che racconta pezzi sparsi di America attraverso il rap e la musica nera. Per contribuire al progetto, basta poco: un like, una condivisione, il passaparola, un caffè. Ogni vostro piccolo gesto può fare la differenza: grazie!
Il New York Times segnala che i repubblicani sono riusciti ad allargare il proprio bacino elettorale. In effetti Trump, in misure variabili, ha guadagnato consensi ovunque. I democratici, al contrario, hanno smarrito qualcosa anche nei luoghi o nelle porzioni di popolazione dove storicamente erano avvantaggiati. In più le donne hanno avuto nel complesso un peso minore di quanto ci si aspettava alla vigilia. I dati sono parziali e non del tutto uniformi, ma secondo gli exit poll di Edison Research il sostegno dei neri (donne e uomini) per Harris non si è discostato troppo da quello rilevato nel 2020 per Biden1. E questo è un grosso merito di Harris, tralasciando i giudizi affrettati o faziosi: c’è stata una fase della campagna dem in cui Biden sembrava sul punto di registrare un “crollo” nell’ordine di circa dieci punti. In ogni caso le prime crepe, poi tradotte in un timido trasferimento di voti, sono iniziate a emergere subito dopo il secondo mandato di Obama, fino ad aumentare lievemente di competizione in competizione: niente di così inaspettato, insomma. Nitide, invece, le differenze nell’elettorato latino, la cui composizione – abbiamo constatato – è tanto più eterogenea.
Dunque, gli endorsement delle celebrità. Iniziamo con il dire che lo scenario appena illustrato spiega perché li abbia cercati e voluti anche la campagna Trump, che si è impegnata a corteggiare rapper più o meno conosciuti. Se ora si discute del valore di una parola o di un gesto di qualcuno di famoso è per l’innata esigenza, mediatica e non, di scovare nuovi colpevoli, di sobillare i conflitti tra esseri umani – “ricchi” e “poveri”, “élite” e “popolo” –, ma la verità, semplice, è che il carrozzone è parte del gioco. Beyoncé ha “perso” le elezioni? Sì, come le perse nel 2016, quando si schierò attivamente al fianco di Hillary Clinton. Ma rimane Beyoncé e continuerà a far parlare di sé nei prossimi anni, nel bene o nel male, con o senza Harris, Trump, o chicchessia, alla Casa Bianca.
Beyoncé (e JAY-Z) nel 2016
Un tema ricorrente, inoltre, è stato quello relativo alla fascinazione per Trump, in apparenza rimessa a lucido, all’interno dell’universo hip hop. Il quadro dimostra che l’hip hop non ha abiurato la sua naturale inclinazione, ma se i trend demografici del voto sono quelli, perché ostinarsi a pensare al movimento come a un blocco, appunto, monolitico? L’elezione di Trump del 2024 è slegata dall’elegia americana del 2016 – ammesso che la fotografia della classe bianca operaia in declino nelle aree deindustrializzate degli Appalachi fosse già all’epoca l’unica spiegazione possibile – e descrive oggi più di allora un paese in trasformazione profonda. Di sicuro le semplificazioni in voga qualche anno fa, tipo l’equazione che la crescita delle minoranze avrebbe prodotto il trionfo del progressismo e plausibilmente contribuito a colorare via via gli Stati di blu, Texas compreso, si sono rivelate finora un enorme abbaglio. Il fatto – scusate la ripetizione – è che il processo elettorale non avviene a compartimenti stagni e un sacco di elementi, inediti o ciclici, lo evidenziano di continuo.
The present mocks us, good Black people
With keen memories set fire to the bastards
Who ask us in a whisper to melt and integrate– Gil Scott-Heron, Comment #1, 1970
Un tempo la rivoluzione era una visione corale, ora i cambiamenti hanno collocato l’hip hop in una dimensione più intima, quasi individualista, furba all’occorrenza. Le “due Americhe” non sono più due, sono almeno tre o quattro. Se il rap politico è mancato senza una solida spinta emotiva, esterna alla bolla degli endorsement, forse un frammento di ragione risiede proprio da queste parti. Chiamiamolo riallineamento, oppure sono le inevitabili storture di una società dai tratti post-razziali che lentamente – molto lentamente, chiaro, altrimenti le disuguaglianze non persisterebbero ai livelli che conosciamo – si sta materializzando sotto i nostri occhi, anche se non siamo ancora in grado di individuarla appieno a causa della frustrazione urlata di chi vorrebbe impedire che ciò accada (l’altra faccia della medaglia, infatti, è che il razzismo non cessa di esistere). L’idea per alcuni indulgente di Trump quale “male necessario” o “incidente della storia” a questo giro potrebbe non reggere più.
Ora, ovvio, non può essere l’hip hop il coefficiente di quanto si è visto avverare il 5 novembre. Anzi. È solo che capiterà sempre più spesso che il nostro rapper preferito, quale che sia la sua identità, dica o faccia cose che faticheremo a capire perché fermi a Fight The Power (per citare la sempiterna ispirazione di Mookie), mentre là fuori tutto appare più volubile. Non andrà ogni volta così, ma il rischio sarà quello di trincerarsi dietro una formula inversa di inconsapevole conservatorismo. Teniamolo a mente per il futuro.
Maybe we’ll never see a Black man in the White House again
I’ll write a check to the IRS, my pockets get slim
Damn, do I even have a say ‘bout where it’s goin’?
Some older n**** told me to start votin’
I said “democracy is too fuckin’ slow”– J. Cole, BRACKETS, 2018
🔎 Altre cose interessanti
«Quincy Jones ha orchestrato il suono dell’America», scrive Wesley Morris sul New York Times.
Sul nuovo disco di Tyler, The Creator, CHROMAKOPIA.
Sono state rese note le nomination ai Grammy Awards 2025. Comanda Beyoncé. Nella categoria Album Of The Year compare André 3000.
Davvero non ho idea di cosa ci riserveranno i secondi quattro anni di Trump presidente. Quando lasciò la Casa Bianca scrissi che l’alfa e l’omega della sua amministrazione furono i fatti di Charlottesville del 2017 e l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021. Spero non dovremo rivivere niente di tutto questo.
Veniamo a noi. Non so come ringraziarvi per l’anno elettorale passato insieme, per gli stimoli costanti e i confronti costruttivi con molti qui all’ascolto. Ammetto un po’ di stanchezza, motivo per cui ci si fermerà almeno una settimana in più del normale: usciti sani e salvi dalle elezioni, è doveroso riordinare i pensieri. Qualcosa potrebbe cambiare in termini organizzativi, ma affronteremo ogni aspetto a tempo debito.
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A presto allora! (anche se con più calma stavolta 😊)
Sì, è vero: qua e là ci si può imbattere in dati abbastanza discordanti.