Nel libro premiato nel 2023 con il Pulitzer, Il suo nome è George Floyd, Robert Samuels e Toluse Olorunnipa indagano le origini e le vicende della famiglia Floyd, in una linea temporale che ha inizio nelle piantagioni di tabacco del North Carolina per poi approdare a Houston, morsa – come altre città degli Stati Uniti – dalle politiche abitative discriminatorie nei quartieri più svantaggiati, che condizioneranno a lungo la sua esistenza e quella di tanti giovani neri in America. Andando a sintetizzare al massimo, gli autori mettono in luce perché Floyd sia stato vittima innanzitutto di un sistema caratterizzato dai divari economici e sociali che lo hanno allontanato dall’istruzione di qualità o da una sanità decente, crescendo in un contesto di progressiva vulnerabilità che ha azzerato gli sforzi di rimettersi in piedi ad ogni caduta.
Oggi le abitazioni e le proprietà nelle zone a maggioranza nera subiscono ancora elevate svalutazioni, come se le cattive abitudini in materia del secolo scorso – aggravate da un prelievo fiscale troppo oneroso, per riprendere il professore all’Università della Virginia, Andrew Kahrl, il quale ha appena pubblicato il libro The Black Tax1 – non conoscessero mai fine.
Poverty, disease, death and destruction
Can you hear me God?
Did Jesus press the mute button?
The 1% wanna see us with nothin’
Politicians are liars
Even Obama frontin’
Corporations blood suck– Semi Hendrix (Ras Kass & Jack Splash), Jesus Pressed Mute, 2015
L’amministrazione Biden si insediò a inizio 2021 con il più ambizioso degli obiettivi: migliorare una volta per tutte le condizioni di vita di milioni di cittadini. Numerose iniziative sono state adottate in questa direzione (ad esempio sui costi degli alloggi, sul debito studentesco e sulla promozione dell’equità razziale), ma i giovani elettori, più degli altri, faticano a dirsi soddisfatti. E mentre aumenta la diffidenza verso la classe politica, è l’intera società statunitense ad essere in fermento.
Domanda: le proteste nelle università contro la guerra a Gaza – che in questi giorni hanno registrato occupazioni, irruzioni della polizia, sgomberi, arresti, proiettili di gomma e polemiche a tutto spiano – sono la riedizione, pur con le dovute (molte) differenze, di quelle del 2020 che seguirono l’omicidio di George Floyd, cioè il sintomo, anche, di un esteso malcontento? Le manifestazioni, dunque, si stanno abbattendo sulla campagna elettorale? Sul serio: non è un tentativo di smarcarsi dai pronostici, ammesso che abbiano senso al punto in cui ci troviamo, ma la faccenda è estremamente complessa per lanciarsi in previsioni del genere e comunque non è detto che le proteste siano davvero rappresentative dei giovani statunitensi, così diversi ad ogni angolo di paese. Inoltre, per tornare nel nostro campo, tutto ciò accade mentre altrove avvengono fatti che in altri momenti avrebbero con ogni probabilità provocato una reazione altrettanto dirompente (pensiamo al 2020, appunto, a Black Lives Matter, alla pandemia, eccetera), con la musica da subito impegnata a prendere posizione. Invece ora non possiamo non constatare il silenzio (o fase di attesa?), rotti soltanto dai diss incrociati della scena hip hop. È un periodo dai contorni poco chiari, a esclusione, forse, di Beyoncé.
Ciao! Qui Mookie, una newsletter di Fabio Germani che racconta pezzi sparsi di America attraverso il rap e la musica nera. Per contribuire al progetto, basta poco: un like, una condivisione, il passaparola, un caffè. Ogni vostro piccolo gesto può fare la differenza: grazie!

Tra Joe Biden e Donald Trump si prospetta un testa a testa, suggeriscono alcuni sondaggi, anche se non tutti gli istituti concordano (ricordiamo che al momento i sondaggi su base nazionale restituiscono poco o niente in termini elettorali di quello che sarà a novembre). Per il presidente in carica è un paradosso, perché al recupero nelle rilevazioni corrisponde un grado di approvazione piuttosto basso (anche nel confronto con il rivale repubblicano allo stesso intervallo del suo precedente mandato); inoltre nella media storica elaborata da Gallup, al 13esimo trimestre da quando è alla Casa Bianca, Biden occupa l’ultima posizione (su dieci presidenti) nell’indice di gradimento.
Al di là dei più rumorosi (in particolare quelli provenienti dalla galassia MAGA), gli elettori nutrono in generale scarsa fiducia in entrambi i – principali – candidati. Secondo il Pew Research Center i bianchi preferiscono Trump (56%) a Biden (42%); i neri sostengono Biden nella maggioranza dei casi (77%), ma c’è un tutt’altro che trascurabile 18% – tema ricorrente di questi mesi – a favore di Trump; gli ispanici sono divisi in modo più equo, con il 52% per Biden e il 44% per Trump; gli asiatici sono più convintamente dal lato del presidente in carica (59%), mentre Trump si ferma al 36%.
Resta il fatto che metà degli elettori, ripartita all’incirca in egual misura tra tutti gli insiemi demografici, sostituirebbe volentieri Biden e Trump con altri candidati, soluzione possibilmente preferita dai giovani che si dichiarano, tutto sommato, dalla parte dell’attuale inquilino della Casa Bianca.
Per quanto si mostri evidente lo scollamento tra le fasce di popolazione più giovani e la politica di Washington, sembra – sembra – che la campagna Trump stia fiutando qualcosa di insolito nell’aria, al punto che l’ex presidente potrebbe – potrebbe – tentare di reclutare star dello sport e dell’hip hop per la scalata al “voto nero”. Negli ultimi anni era stata una prerogativa dei democratici, della campagna Obama nel 2008 e nel 2012, di Hillary Clinton nel 2016, poi di Biden nel 2020 e anche stavolta, con iniziative sparse qua e là. Ma la sensazione è che i repubblicani – o perlomeno i gruppi che ruotano attorno a Trump – considerino tale spazio ormai contendibile. Dati alla mano il traguardo sarebbe fuori portata, ma le recenti teorie sul paese orientato sempre più verso il Partito democratico per ragioni soprattutto demografiche, ad ora non stanno trovando coincidenze tangibili o immediate, nonostante l’atteso incremento nel 2024 di elettori appartenenti alla generazione Z.
Nel 2019 Erick Sermon fantasticò su una sua amministrazione in chiave hip hop, con Dr. Dre come vice, JAY-Z segretario di Stato, 50 Cent alla Difesa, Ludacris ai Trasporti, i Public Enemy alla Sicurezza interna e così via. E Snoop Dogg all’Agricoltura, proprio per quel motivo lì. In Cabinet, il brano di Erick Sermon, c’era anche l’intenzione di sottolineare in modo ironico la centralità dell’hip hop, in una relazione simbiotica per nulla inedita del rapper nei panni del commander in chief.
Mentre i fan si stanno scatenando per le risposte di Kendrick Lamar a Drake – da qualche settimana c’è subbuglio per una faida che da tempo non si vedeva nel rap a questi livelli – , si avverte la mancanza dell’hip hop politico che nel periodo 2016-2021, al contrario, è stato all’ordine del giorno. A Trump ci siamo abituati – e anzi osserviamo addirittura cambi di casacca o quasi, da Snoop Dogg a YG –, la polizia continua a non andare sempre d’accordo con segmenti di popolazione più o meno grandi (ma non ci facciamo troppo caso), nel complesso i problemi restano, o almeno quella è la percezione diffusa. Ma l’hip hop deve esserlo ogni volta, politicizzato? In occasione dei 50 anni della cultura, celebrati nel 2023, il giornalista e critico Wesley Morris ha scritto sul New York Times che l’hip hop «è esploso» dalla promessa infranta degli Stati Uniti ai suoi cittadini neri. È una definizione convincente, che però oggi si scontra inevitabilmente con la nuova realtà – confusa, frammentata, disincantata –, sebbene (o magari perché) ai vertici delle classifiche.
È anche di questo che abbiamo parlato io e Fabio Negri nel suo podcast tematico Unsupervised, fresco fresco di uscita. «Un dialogo sull’hip hop – scrive Fabio –, sulla grammatica, sull’America, sulla grammatica dell’America e dell’hip hop». Buon ascolto, a chi vorrà.
One thing ‘bout music, when it’s real, they get scared
Got us slavin’ for the welfare
Ain’t no food, clothes, or healthcare
I’m down for guerilla warfare
All my n*****, put your guns in the air if you really don’t care
Skunk in the air
Make a n**** wanna buck in the air for my brother
Locked up in the jump for a year
Shit is real out here, don’t believe these videos
This fake-ass industry, gotta pay to get a song on the radio– Dead Prez, It’s Bigger Than Hip Hop, 2000
Altre cose interessanti
Tra gli spunti di interesse non più rinviabili di questa campagna elettorale statunitense spiccano senza dubbio l’aborto e l’annosa questione dei flussi migratori (intanto in Arizona, sull’aborto, le cose stanno procedendo così).
La storia di Jam Master Jay è uno spaccato d’America ancora valido.
La golden age del 40/40 di JAY-Z (via Galis).
In questi giorni abbiamo salutato figure importantissime dell’hip hop: Mister Cee e Rico Wade della Organized Noize, il trio di produttori alla base dei successi degli Outkast, dei Goodie Mob e di gran parte della scena di Atlanta degli anni ‘90 e dei primi 2000. Infine il giornalista Dallas Penn.
Eminem ha annunciato il nuovo album, The Death of Slim Shady (Coup De Grâce).
Nella prossima puntata approfondiremo alcuni degli aspetti trattati questa settimana con il contributo fondamentale di un ospite. La playlist della newsletter è pronta, in parte condivisa con quella di Unsupervised: non resta che premere il tasto play.
Domande? Suggerimenti? Potete rispondere alla mail, scrivermi su Instagram, su Threads o su Notes. Se Mookie vi piace, mandate il link alle amiche e agli amici!
Ci leggiamo tra due settimane, a presto!
Ho appreso della pubblicazione grazie alla newsletter del New York Times, Race/Related.
Grazie per la disponibilità e la chiaccherata. Zio Mookie 4ever.