Quando viene il giorno usciamo dall’ombra,
in fiamme e senza paura
L’alba nuova fiorisce mentre la liberiamo
Perché c’è sempre luce,
se solo siamo coraggiosi abbastanza da vederla
Se solo siamo coraggiosi abbastanza da essere luce– Amanda Gorman, traduzione di Fabio Chiusi su Facebook
Bentrovati su Mookie, e sì: quel momento è arrivato.
«Avete altre domande? Ti dico una cosa, se hai un problema a decidere se sei per me o per Trump, allora non sei nero». L’intenzione era quella di esaltare una situazione data per scontata, ma questa frase che a maggio dello scorso anno, in piena campagna elettorale, Joe Biden rivolse a Charlamagne Tha God durante un’intervista per The Breakfast Club di Power 105.1, scatenò – comprensibilmente – più di qualche polemica. Il conduttore radiofonico aveva appena chiesto al candidato democratico di raggiungerlo presto in trasmissione, se di passaggio a New York e pandemia permettendo, per concludere l’intervento che era durato meno del previsto. «Non avrei dovuto essere così disinvolto. Nessuno dovrebbe votare per un partito sulla base della razza, della religione o dell'origine», ha in seguito rettificato il futuro inquilino della Casa Bianca, scusandosi.
L’intro di Otherside of America di Meek Mill è un pezzettino di discorso che Donald Trump pronunciò in Michigan nell’agosto del 2016. L’allora candidato repubblicano alla presidenza stava indirizzando un messaggio forte e chiaro agli elettori afroamericani, chiedendo loro il voto:
What do you have to lose? You're living in poverty, your schools are no good, you have no jobs, 58% of your youth is unemployed. What the hell do you have to lose?
Alle elezioni di novembre, però, il copione fu più o meno lo stesso che si ripete da Johnson-Goldwater del 1964: l’89% degli afroamericani votò per Hillary Clinton. Ma questo, come sapete benissimo, è solo un frammento della storia.
Donald Trump non è diventato presidente degli Stati Uniti d’America per caso, anche se ancora oggi «come diavolo ci è riuscito?» è una delle domande più frequenti a cui far seguire una mole di disquisizioni sul perché e percome l’impossibile sia stato invece possibile. Ta-Nehisi Coates lo ha definito «il primo presidente bianco». L’ascesa politica di Trump è stata lenta, costruita ad arte, dapprima sondata con la fallace (e presto ritirata) candidatura alle primarie del Partito riformista per le presidenziali del 2000, messa in letargo per un po’, poi riemersa con i reality show e il movimento del birtherism, culminata infine con la scalata al GOP. Il successo elettorale del «primo presidente bianco» non poteva verificarsi se non dopo l’amministrazione del primo presidente afroamericano, in buona parte grazie alla massiccia esposizione di una porzione di elettorato segnata dalla perdita, più percepita che reale, degli atavici privilegi, ritenuti peculiari per diritto naturale. Il giornalista Jeff Chang (l’autore di Can't Stop Won't Stop: A History of the Hip-Hop Generation) ricorda nel suo ultimo libro – con citazione per Kendrick Lamar nel titolo: We Gon' Be Alright: Notes on Race and Resegregation (2016) – come Trump avesse indicato la via nel suo best seller del 1987, The Art of the Deal: «Conosci il tuo mercato, usa la tua influenza». E così è stato, all’incirca. Trump – e chi per lui – ha fiutato il malcontento, lo ha misurato e, come si dice di solito, “ha cavalcato l’onda”. La sua è stata per lunghi tratti una vittoria reazionaria.
Tutte le questioni socioeconomiche di cui si è discusso per anni – la paura diffusa di perdere il lavoro o di vedere il proprio reddito crollare a causa della delocalizzazione e dell’automazione dei processi produttivi, questioni tangibili e che meriterebbero un’analisi approfondita e priva di ideologismi – riflettono perlopiù le frustrazioni e la rabbia del ceto medio bianco, cresciuto nel mito – occhio: stiamo generalizzando – lavoro-famiglia-casa-automobile, mentre generazioni intere di afroamericani crescevano nei projects e vivevano di espedienti. La presenza ingombrante nello Studio Ovale e, soprattutto, nelle vite delle persone di un presidente afroamericano – attenzione: non uno sportivo, non un attore, non un rapper, bensì il presidente degli Stati Uniti – ha messo in discussione una volta per tutte regole non scritte e convinzioni secolari. Alicia Garza, tra le fondatrici di Black Lives Matter, ha scritto che «quando i neri sono liberi, allora tutti sono liberi», ricorda ancora Chang. Le vicende statunitensi quasi mai possono essere scollegate dalle sfumature razziali che implicano, perché è la stessa esistenza dell’America a basarsi su principi fondativi di uguaglianza – non sulla carta, ma di fatto – a geometria variabile.
Eppure i quattro anni di amministrazione Trump hanno alimentato un dibattito all’interno della stessa comunità afroamericana, certamente non nuovo, ma che ha ripreso consistenza alla luce di alcuni elementi imprescindibili, in primo luogo, appunto, la legacy di Barack Obama. L’ex presidente è stato spesso accusato – accusa trasversale, proveniente anche da ambienti afroamericani, intellettuali e non – di avere fatto troppo poco per i neri nel corso dei suoi due mandati. Il tema è ricorrente – come si vede in Dear White People –, ma un presidente non è un monarca che adotta qualsiasi provvedimento gli passi per la testa, né possiede una bacchetta magica: in linea di massima Obama ha sempre risposto così. E di recente, in un’intervista al solito Charlamagne Tha God per promuovere il libro Una terra promessa, ha rafforzato il concetto. Le statistiche, ha ribadito, dicono infatti il contrario. Quando ha lasciato l’incarico, tre milioni di afroamericani che prima non l’avevano, erano in possesso di assicurazione sanitaria; per la prima volta da anni era diminuito il numero di neri in prigione; la povertà tra gli afroamericani si attestava al livello più basso dal 1968 e contestualmente erano aumentate le imprese black.
Di Obama, intanto, era stato detto tutto e il contrario di tutto. A un certo punto si era stabilito che, al pari di Hillary Clinton, fosse il totem delle «élite» contro il «paese reale» che gli preferiva di gran lunga Trump, una narrazione tuttavia sgonfiata dai dati. Obama, per riprendere le parole di Gay Talese qualche tempo fa, era visto alla stregua di un «professore di decoro, che aveva trasformato la Casa Bianca in una classe di Harvard» e questo, evidentemente, rappresentava un problema per molti. Un problema cui potremmo dare il nome di Obama nation, su suggerimento di Kanye West, il quale, dall’iniziale cotta per il MAGA hat in poi, ha avuto se non altro il merito di innalzare il dibattito. Dunque la domanda che emerge dalla controversa uscita di Biden in campagna elettorale è: un nero che vota per un candidato repubblicano (nella fattispecie Trump) può essere considerato abbastanza nero? Il bello è che Kanye West – ma anche questo è solo un frammento della storia – si è recato ad un seggio elettorale per la prima volta nel 2020, votando per se stesso.
Ad ogni modo se lo è chiesto pure Spike Lee in Da 5 Bloods, con il personaggio interpretato da Delroy Lindo sostenitore di Trump e c’è da ammettere che quella che ruota attorno alla figura del black republican – poi, intendiamoci, repubblicano e trumpiano non sono sempre sinonimi – è una discussione interessante (ci torneremo). Per restare nel nostro, sappiamo che alle ultime elezioni Donald Trump è riuscito a guadagnare (pochi) consensi tra gli elettori afroamericani. Come sia potuto accadere è ancora oggetto di indagine (magari, banalmente, c’entra l’alta partecipazione). Qualcuno – complice Obama che ha accreditato la teoria – ritiene che il rap gli sia stato d’aiuto.
Durante le primarie del 2016, si parlò molto del patrimonio di Trump. All’epoca Bloomberg lo aveva quantificato in 2,9 miliardi di dollari, Forbes in 4,1. Ma lui nel documento depositato alla commissione elettorale federale precisò che la sua ricchezza ammontava a più di dieci miliardi. DIECI MILIARDI DI DOLLARI, scritto con il caps lock, caso mai si avessero avuti dei dubbi. Ecco, lo stile smargiasso da rich & gangsta di Trump – rinomato dalle epiche battaglie legali e burocratiche con Ed Koch, burrascoso sindaco di New York in quegli anni, per la ristrutturazione di un albergo lussuoso o per la costruzione di un nuovo edificio a Manhattan – ha ispirato in passato molti rapper (Raekwon, Nas e tanti altri), ma l’inversione di rotta si è potuta osservare non appena si è candidato a presidente e ha cominciato a proporre le sue ricette in materia di politiche migratorie, sociali ed economiche. Dall’esplicita FDT di YG e Nipsey Hussle fino ad arrivare ai testi più colti di Common o degli A Tribe Called Quest, non si può dire che Trump – e così via nel 2020 –, abbia davvero goduto del sostegno dell’universo hip hop, al netto delle posizioni espresse dai singoli (Lil Wayne che si fa fotografare con lui a pochi giorni dal voto), degli endorsement che non lo erano veramente (50 Cent), delle collaborazioni improvvisate (Ice Cube) o degli ultimi arrivati che fanno il tifo per lui (Lil Pump).
In Apple Of My Eye, traccia contenuta in Rather You Than Me del 2017, Rick Ross stravolge il mood di depressione e commiserazione: «I'm happy Donald Trump became the president, Because we gotta destroy, before we elevate».
L’argomento è saltato di nuovo fuori proprio nel giorno dell’insediamento di Biden. Ospite del Club Shay Shay di Shannon Sharpe, Ross ha illustrato l’idea per cui l’ingresso di Trump alla Casa Bianca ha potuto aggiungere valore alla presidenza Obama, al suo lascito e all’impatto emotivo e simbolico che ha avuto.
Sorry America, but I will not be your soldier
Obama just wasn't enough, I need some more closure
And Donald Trump is not equipped to take this country over
Let’s face facts 'cause we know what’s the real motives– Joey Badass, LAND OF THE FREE (2017)
La versione di Joey Badass, che su Genius spiega il senso delle sue barre in prima persona, è che per quanto l’esperienza obamiana sia stata entusiasmante, i problemi razziali dell’America non sono scomparsi e uno o più eventi isolati non eliminano il pregiudizio: «Solo perché mi hai dato un presidente nero, non significa che la nostra storia sia stata cancellata». Allo stesso tempo le marce di Black Lives Matter e il motto #NoJusticeNoPeace ripetuto in tantissime delle canzoni pubblicate lo scorso anno non sono riconducibili esclusivamente a Trump, sebbene il suo atteggiamento per nulla conciliante abbia fatto da cassa di risonanza. Il rap di protesta può avere avuto periodi di flessione, ma di sicuro negli ultimi anni non sono mancati gli stimoli: nel 2012 Trayvon Martin, nel 2014 Michael Brown, nel 2015 Freddie Gray, nel 2016 Alton Sterling e Philando Castile, nel 2020 George Floyd e Breonna Taylor. È in profondità, è oltre Trump, insomma, che si deve scavare.
Boom, these explosion are bullshit
And we're going to the Capitol
So let's walk down Pennsylvania Avenue
And God bless America [...]This level of breach was unseen
Since the British breached the Capitol in 1814
Promoted evacuation of the house and senate
One of the looters was a lawmaker named Derrick Evans
Few people died, many cops were injured
What's Trump's punishment? His Twitter's suspended
At the George Floyd protest in helmets and boots
They called in five thousand national guard troops
For us, the pentagon called in the helicopters
He left with the speaker's podium and they never stopped him
This was a inside job, they lied to us
Police officers taking selfies with rioters
When we protested it must have been
Thousands of cops dressed in riot gear, some of them grinned
Shooting rubber bullets, hitting kids, women, and men
When Trump supporters rushed the Capitol they ushered 'em in
They orchestrated the riots up close
Hoping that they could stop certification of electoral college votes– Papoose, Capital Bullshit (2021)
L’alfa e l’omega dell’amministrazione Trump sono stati i fatti di Charlottesville del 2017 e l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio, avvenimenti intrisi di suprematismo bianco, addirittura tollerati o stigmatizzati con colpevole ritardo (e talvolta messi sullo stesso piano delle proteste di Black Lives Matter). Come il presidente Grant nel 1870 con il Ku Klux Klan (il resto, tuttavia, è storia), Biden ha constatato nel suo discorso di insediamento che il suprematismo bianco è «il nostro terrorismo nazionale».
Trump si è autoproclamato «il presidente che ha fatto di più per gli afroamericani dai tempi di Lincoln»: retorica vuota, a maggior ragione nel pieno di una pandemia che ha colpito soprattutto le minoranze. Il razzismo sistemico è stato inserito tra le sfide prioritarie che l’amministrazione Biden-Harris intende affrontare. Tra gli ordini esecutivi firmati dal presidente nel primo giorno di lavoro, figura quello sull’equità razziale il cui scopo è assicurare «a tutti l'opportunità di raggiungere il loro pieno potenziale».
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Prima di lasciare l’incarico, Donald Trump ha concesso la grazia a 73 persone e ha commutato 70 sentenze. Tra gli interessati Lil Wayne e Kodak Black. Il resoconto qui, anche se per il secondo, a quanto pare, i problemi con la giustizia proseguiranno. Questo, però, il commento di Ben Crump.
Fabio Negri, su The Italian Soul, racconta la storia normalissima (e anche per questo bellissima) di Amorphous, che dai mashup in cameretta è arrivato a produrre un pezzo con Fat Joe e Dj Khaled, uscito proprio in queste ore.
Il dente è tolto e la cosa andava fatta, credo. Dovevamo parlare anche dei QAnon? Risposta secca: no, per adesso. Veniamo a noi. Dubbi? Domande? Potete rispondere alla mail, se vi va, oppure commentare o scrivermi su Twitter, Instagram, Facebook. Se Mookie vi piace, iscrivetevi e fate iscrivere gli amici alla newsletter.
Facciamo ancora un po’ di attenzione là fuori, eh. Tante care cose e alla prossima settimana!