Ogni generazione ha la sua guerra da contrastare. Purtroppo nell’arco della vita può capitare di osservarne tante di più, ma quella che in qualche misura caratterizzerà la missione auto-attribuita di costruire un mondo migliore è una, e assumerà un eterno valore simbolico. Nel 1992 Eric B. & Rakim parlavano della prima guerra del Golfo contro l’Iraq di Saddam Hussein, che poco prima aveva invaso il Kuwait. Ma per i loro “genitori” il punto di non ritorno era stato il Vietnam, la rottura con l’ideale americano anche molto al di là dei suoi confini, ora che la maturità collettiva e le contestuali battaglie per i diritti civili stavano plasmando le coscienze e l’esistenza, in parte, dei futuri adulti come Rakim.
Causalities of war; as I approach the barricade
Where’s the enemy? Who do I invade?
Bullets of Teflon, bulletproof vest rip
Tear ya outta ya frame with a bag full of clips
‘Cause I got a family that waits for my return
To get back home is my main concern
I'mma get back to New York in one piece
But I’m bent in the sand that is hot as the city streets
Skylights up like fireworks blind me
Bullets, whistlin’ over my head remind me
President Bush said “Attack”
Flashback to ‘Nam, I might not make it back– Eric B. & Rakim, Casualties of War, 1992
La generazione successiva, perlopiù ancora nella fase dell’innocenza ai tempi della prima guerra del Golfo, ha in compenso avuto l’11 settembre 2001, l’Afghanistan e di nuovo l’Iraq, tra momenti di comprensione e altri di sconforto, rabbia e profonda delusione, attraversando cicli talvolta fulminei. Eppure ha chiuso un capitolo frustrante solo di recente, non senza strascichi, mentre gli Stati Uniti hanno cominciato a imprimere – al netto della retorica e delle operazioni isolate – una politica estera orientata a evitare il più possibile il coinvolgimento diretto nei conflitti regionali. Tuttavia il disastro umanitario in corso a Gaza viene percepito, soprattutto in alcuni ambienti, come una guerra a tutti gli effetti (anche) degli Stati Uniti, situazione che si ripercuote inevitabilmente sull’amministrazione Biden. Cosicché qualcuno si è chiesto nelle ultime settimane: Biden può uscire sconfitto dalle elezioni di novembre a causa della guerra tra Israele e Hamas? Se il presidente dovesse perdere il consenso tra i giovani che protestano nelle strade e nelle università contro le condotte di Israele ai danni dei civili palestinesi e contro il sostegno di Washington allo storico alleato (i tentativi di mediazione, che pure ci sono stati e proseguono in queste ore, non vengono ritenuti convincenti), quale sarà l’esito del voto? La verità è che è impossibile rispondere adesso alla domanda, cosa che peraltro non compete a questa umile newsletter, ma il dibattito che le ruota attorno e tutto il resto, sono già di per sé elementi descrittivi molto interessanti dell’America che si appresta a vivere la lunga stagione delle presidenziali.
War I despise
‘Cause it means destruction of innocent lives
War means tears to thousands of mother’s eyes
When their sons go out to fight
And lose their lives– Edwin Starr, War, 1970
Quando torneremo, forse tra due settimane (mantenendo fede alla promessa di tornare all’uscita ogni due venerdì), si sarà già votato per le primarie repubblicane in Iowa (15 gennaio) e nel New Hampshire (23 gennaio). È probabile che per quel momento – beninteso: salvo sorprese, magari nel New Hampshire, visto il ritiro di Chris Christie che potrebbe agevolare Nikki Haley – conosceremo il nome di chi sfiderà Joe Biden, vale a dire, sì, proprio lui, Donald Trump. I sondaggi (tralasciamo le grane giudiziarie e le decisioni della Corte Suprema attese nelle prossime settimane) gli attribuiscono un vantaggio troppo ampio per non credere alla facile profezia: al pronti-via, vincere nei primi Stati al voto significherebbe per l’ex presidente allargare subito la distanza dai rivali più accreditati nel partito e avere la strada spianata verso la nomination, in quella che sarà una riedizione del 2020 (che in verità scontenta la maggior parte dei cittadini statunitensi, paradosso della nostra confusa epoca). Altrettanto probabile è che l’economia sarà al solito l’aspetto più decisivo nelle scelte elettorali degli americani, ma dato il contesto così polarizzato è opportuno non trascurare gli altri, secondari o no.
Ciao! Qui Mookie, una newsletter di Fabio Germani che racconta pezzi sparsi di America attraverso il rap e la musica nera. Per contribuire al progetto, basta poco: un like, una condivisione, il passaparola. Ogni vostro piccolo gesto può fare la differenza: grazie!
Questa è la prima puntata del 2024.
La guerra tra Israele e Hamas ha avuto presto un riverbero negli Stati Uniti, che esula dalle mere questioni geopolitiche. Si sono registrati attacchi contro persone musulmane da un lato e qualche episodio di antisemitismo dall’altro, a conferma dell’elevato grado di «radicalizzazione» sulla questione e della società nel complesso1. Nel tempo le opinioni dei cittadini statunitensi su Israele sono cambiate abbastanza. Di partenza rimangono favorevoli, ma con minore intensità rispetto al passato. C’entra la demografia – del resto il mondo di oggi non è lo stesso dell’immediato secondo dopoguerra, ma neppure lo stesso degli anni ‘90, a pensarci bene –, c’entrano le tendenze politiche dei singoli e spesso anche le appartenenze religiose: il quadro era osservabile già prima del 7 ottobre 2023 e sul punto vale la pena ricordare che ad agosto dello scorso anno si discusse a lungo dei versi di Jay Electronica contenuti nel brano di Noname, balloons.
La vicenda ha riguardato infine le università, inducendo molti a paragonare, se non altro per vivacità e partecipazione, l’attuale movimento di protesta degli studenti con quello degli anni ‘60 contro l’intervento militare in Vietnam. Ma non ci si è limitati alle contestazioni universitarie. Quest’ultime hanno infatti scatenato una serie di reazioni, audizioni al Congresso e polemiche su più livelli che hanno costretto alle dimissioni, dopo appena sei mesi dall’entrata in carica, Claudine Gay, la prima rettrice nera nella storia di Harvard. Non è stata l’unica, prima di lei un passo indietro lo aveva fatto Elizabeth Magill dell’università della Pennsylvania, ma nel caso di Gay si è mescolato dentro di tutto: i soliti scontri culturali e ideologici, più la scoperta di alcune leggerezze commesse durante il percorso accademico.
Forse è il clima che si respira a esasperare i giudizi, ma di sicuro non si tratta di uno scenario inedito. A partire dal 2003 potevano emergere all’interno degli Stati Uniti aspre divisioni sulla guerra in Iraq (e anche all’epoca non mancavano i parallelismi con il Vietnam).
They tell us no, we say yeah, they tell us stop, we say go
Rebel with a rebel yell, raise hell, we gon’ let ‘em know
Stomp, push, shove, mush, fuck Bush
Until they bring our troops home, come on, just– Eminem, Mosh, 2004
Tali contrapposizioni si sono protratte, rasentando a volte il cospirazionismo, fino agli anni di Barack Obama, nonostante l’approccio in apparenza più moderato della sua amministrazione alla guerra al terrore.
I really think the War on Terror is a bunch of bullshit
Just a poor excuse for you to use up all your bullets
How much money does it take to really make a full clip?
9/11, building 7, did they really pull it?– Lupe Fiasco, Words I Never Said, 2011
In definitiva la società statunitense è sempre stata frazionata e bellicosa su molte faccende. È la sua atavica sovrastruttura a renderla complessa e difficile da interpretare. L’America, di tanto in tanto, litiga sulle cause della guerra civile. L’America, di tanto in tanto, rifiuta diritti che sembravano acquisiti. L’America, sebbene molti sostengano il contrario, continua a discriminare specifiche categorie di persone in modo sproporzionato (prendiamo un dato: a fronte di progressi tangibili, le disparità restano ampie e il numero dei senzatetto nel 2022 è aumentato, con un impatto particolarmente significativo sulle comunità nere).
Hopeless and the arrogant
Oppression our inheritance
The opps a walkin’ terrorist
Death of youth imperative
Silent mumble prayers for it
I can’t bring my brother back them gates, they don’t got stairs for it
Staring down the barrel of my pride, guilt
Trauma, ego, eyes low– REASON feat. London Monét, Faded off Poor n Riches!, 2023
Questa prospettiva dovrebbe aiutare a comprendere il perché di ulteriori mutamenti nella società statunitense, a partire dai comportamenti di voto che si stanno ridistribuendo, per quanto, anche qui, molto lentamente. Nel 2020 si verificò un timido aumento dei consensi tra gli elettori neri per Trump, previsto in crescita di nuovo quest’anno. Come sopra, sono diversi i motivi che concorrono a determinare una situazione per qualcuno inaspettata, che sembra sconfessare – ad oggi – le persuasioni secondo cui i trend demografici dovrebbero avvantaggiare i democratici.
Alle nostre latitudini potrebbe apparire poco chiara la ragione alla base di questa inversione di rotta. Dal “giorno uno” alla Casa Bianca, Biden – anche sulla scia emotiva dell’emergenza sanitaria e delle proteste per l’omicidio di George Floyd – ha promosso politiche volte a disinnescare il razzismo sistemico. Il disincanto e l’insoddisfazione per come vanno le cose in generale, la religione (componente fondamentale) e le disuguaglianze persistenti (nonostante il contesto di crescita economica) stanno trainando una parte di cittadini neri, riconoscibili in quanto conservatori, in direzione del Partito repubblicano. Il migliore andamento del mercato del lavoro, di cui hanno beneficiato tutti i segmenti, è stato comunque vanificato dall’impennata dei prezzi, che invece ha colpito più duramente la comunità nera. La sensazione, dunque, è che l’appello di Trump lanciato nel 2016 a Dimondale, sobborgo a maggioranza bianca di Lansing, nel Michigan – What do you have to lose? You’re living in poverty, your schools are no good, you have no jobs, 58% of your youth is unemployed. What the hell do you have to lose? – stia per essere raccolto da una porzione minoritaria, ma non così marginale, dell’elettorato nero.
Secondo Perry Bacon Jr., columnist del Washington Post, la polarizzazione sta evidenziando ora più che mai le linee di separazione tra i due principali schieramenti politici. In questo modo i conservatori neri sono più liberi di smarcarsi dalle tradizioni e votare per i candidati che ritengono più affini. Tutto sommato non è detto che sia un male, afferma il commentatore politico del WP: è sbagliato dare per scontato il voto dei neri e addirittura peggio è aggrapparsi allo stereotipo del “cugino Pookie” di obamiana memoria.
I’m loyal, I got Ye over Biden
– Travis Scott, SKITZO, 2023
Alla fine, però, non si può escludere che il sentimento più diffuso sia quello illustrato da Charlamagne Tha God alla CNN, pochi giorni fa:
Altre cose interessanti
Un trailer (e una spiegazione).
Sarà un lungo viaggio, non mancheranno le cose di cui parlare. Chiaro che questa prima puntata voleva essere un giro di ricognizione. Il suggerimento è il medesimo di sempre: leggere (e ascoltare) tanto.
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Alla prossima puntata, allora. A presto!
Il tema è stato affrontato dettagliatamente nel numero del 5 novembre 2023 di Americana, la newsletter sugli Stati Uniti di Alessio Marchionna di Internazionale.