All’inizio del mese Kamala Harris ha incontrato a Flint, Michigan, alcuni leader della comunità arabo-americana. L’obiettivo, con lo sguardo rivolto alle presidenziali, era quello di ricucire lo strappo provocato dal sostegno statunitense – che di riflesso la coinvolge in prima persona – alla guerra di Israele a Gaza e in Libano. Nell’anno di conflitto e devastazioni, l’amministrazione Biden si è destreggiata in una serie di stop and go. Da un lato piena aderenza alle esigenze di Israele nella regione, dall’altro tentativi di contestazione dinanzi alle operazioni più distruttive e letali. Un atteggiamento ritenuto ambiguo, che ha spinto via gli elettori arabo-americani e quelli di religione musulmana dalla tradizionale vicinanza al Partito democratico. Harris è riuscita a recuperare parte dei consensi, ma secondo un recente sondaggio dell’Arab American Institute, la candidata dem e Donald Trump sarebbero alla pari, con il 41% e il 42% delle preferenze. Questo dato al momento significa per Harris 18 punti al di sotto del 59% ottenuto nel 2020 da Biden.
La mossa della vicepresidente, dunque, non è banale. Per quanto stiamo parlando di numeri relativamente piccoli, è probabile che la vittoria dell’uno o dell’altro candidato in questa porzione di elettorato sarà dettata in larga misura dalle proposte politiche sulla crisi mediorientale. L’endorsement per Trump di Ameer Ghalib, sindaco di origine yemenita di Hamtramck1 – un gesto raro, poco più che simbolico –, è un modesto, ma ennesimo campanello di allarme per la campagna dem, almeno su questo fronte. Le cose sono al solito più intricate di come appaiono, tuttavia non si può dire che Macklemore non abbia avvertito Harris del rischio.
Hey Kamala, I don’t know if you’re listening
But stop sending money and weapons or you ain’t winning Michigan– Macklemore, HIND’S HALL 2, 2024
Il Michigan vanta una delle più importanti comunità arabo-americane degli Stati Uniti. Le proteste per la guerra a Gaza sono spesso partite dall’area metropolitana di Detroit. Che Trump sia la risposta alla delusione nei confronti dell’amministrazione Biden, soprattutto alla luce di alcune sue affermazioni o delle decisioni maturate nel periodo trascorso alla Casa Bianca, è uno scenario quantomeno curioso. Però anche Trump è passato per Detroit, qualche giorno fa. E per l’occasione se ne è uscito che se la rivale dovesse essere eletta a novembre, il paese, allora, potrebbe finire esattamente come Detroit, alludendo alle difficoltà economiche che la metropoli del Michigan ha vissuto negli ultimi anni. La personalità radiofonica hip hop, Charlamagne Tha God, ha fornito una seconda chiave di lettura, ispirata dalla demografia della città: «Kamala Harris is a woman of color, Black and Indian. When Trump says the whole country is going to become like Detroit if she becomes president, he’s telling folks that they need to fear America becoming too Black».
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Per avere idea della composizione della comunità musulmana negli Stati Uniti – che all’incirca conta poco più di quattro milioni di persone –, rimando a questo (fondamentale) articolo di Ilaria W. Biano di The God Gap. Qui, in maniera sbrigativa, ci limitiamo a osservare che musulmani e arabo-americani non sempre coincidono, ma le frammentazioni difficilmente spostano le coscienze sugli attuali avvenimenti in Medio Oriente.
I send
Duaa’s up from the belly of the Dunya (Subhanallah)
Duaa’s up for my Umi in the Ummah (Subhanallah)
Duaa’s up for the honorable Louis Farrakhan
Who pulled me out the grave and pointed me towards the Sunnah (Mash’Allah)
Remember Rappin’ Duke? Duh-ha, duh-ha
You never thought we’d make it to Lā ‘ilāha ‘illā Allah
It’s the day of the judgment, fulfillment of the covenant
These universal truths remain self-evident– Jay Electronica, Flux Capacitor, 2020
Jay Electronica – chi meglio di lui? – ci introduce all’interno di un’ulteriore particella, costituita dalla relazione tra hip hop e religione musulmana, appena confinante con la classificazione statistica dei Black Muslim. Non si tratta di una condizione esclusiva – pensiamo a personaggi dello sport come Kareem Abdul-Jabbar, Hakeem Olajuwon, Mike Tyson e prima di lui Muhammad Ali –, ma nell’hip hop, appunto, trova di sicuro un terreno fertile. La connessione – che potremmo ricondurre fino ai Last Poets – deriva dai precetti militanti di organizzazioni come la Nation Of Islam e la Five-Percent Nation, oltre che dall’eredità culturale di Malcolm X. La professoressa Imany Perry suggerisce che la religione – da intendersi ancora nella sfera, politica e ideologica, di tali strutture – ha esercitato un impulso attrattivo verso gli artisti hip hop tramite «l’identificazione populista della divinità con l’uomo qualunque»2 (un aspetto che avrebbe anche molto a che fare con l’identità maschile), prerogativa soprattutto dei Five Percenters. Fatto sta che questi elementi, mescolandosi tra loro, hanno contribuito nel tempo a rendere l’approccio religioso, talvolta mistico, una costante nella musica. Alcune formule tipiche della Five-Percent Nation – basate sulla dottrina della matematica suprema e sugli insegnamenti di Clarence 13X, il quale si allontanò dalla NOI nel 1963 per poi fondare il suo movimento – sono entrate con naturalezza nella grammatica dell’hip hop, prosperando nelle comunità nere urbane ed emergendo nei contesti che hanno plasmato la cultura.
Non c’è alcun nesso, sia detto forte e chiaro, ma fa uno strano effetto vedere Obama a Pittsburgh che cazzia gli uomini neri forse riluttanti all’ipotesi di avere una donna come presidente mentre si scrive di un’organizzazione che alle donne attribuisce ruoli subordinati alla dimensione divina accordata invece agli uomini.
La Five-Percent Nation si poneva oltre la religione. Si collocava, anzi, sul piano dell’esperienza quotidiana, favorendo perciò l’unione delle due entità, entrambe con il proposito di elevarsi ad un livello superiore, da Rakim al Wu-Tang Clan, passando per i Brand Nubian (Lord Jamar considera Harris non qualificata e starebbe valutando di votare per Trump, sentito Obama?). La lista dei rapper che si dichiarano (o si sono dichiarati) musulmani è lunga – Busta Rhymes, Scarface, Q-Tip, Ice Cube, Yasiin Bey, Lupe Fiasco, Vic Mensa e potremmo andare avanti per un bel po’ –, ma anche in presenza di sole influenze e suggestioni, la fascinazione non si esaurisce ai presunti rapporti di 10, 85 e 5%. In un’intervista alla NPR per l’uscita di No Fear Of Time dei Black Star, Talib Kweli ha spiegato di sentirsi «in linea con l’Islam in tanti modi», pur non essendo espressamente musulmano.
È convinzione abbastanza diffusa che la militanza abbia infine lasciato il posto ad ambizioni spericolate e che in particolare il gangsta rap sia rappresentativo dei cambi di paradigma. La verità è che in quella fase comincia a prendere forma un’intersezione evidente, nonostante le ripetute incursioni di Louis Farrakhan, il controverso leader della Nation Of Islam spesso citato nei brani hip hop, allo scopo di “richiamare all’ordine” i rapper, quasi fossero dei leader spirituali che hanno smarrito la missione.
Adesso, tutto questo, come si traduce rispetto al conflitto nella Striscia di Gaza? È complicato. Perché le comunità che oggi protestano apertamente contro il sostegno degli Stati Uniti a Israele sono uno spaccato diverso – sebbene contiguo in alcuni passaggi – dal quadro descritto finora, che si ricollega piuttosto al nazionalismo nero e si intreccia con la stagione dei diritti civili. Alle sporadiche iniziative o alle singole posizioni sul tema – che, è opportuno sottolineare, non sono mai mancate – si sovrappongono le critiche per il silenzio di artisti che dalla loro potrebbero addirittura avere un qualche tipo di coinvolgimento morale, ad esempio Dj Khaled, che è di origini palestinesi e di fede musulmana. Ma al di là delle scelte individuali – la voce dissidente più rumorosa rimane quella di Macklemore, il quale però, procedendo per stereotipi, gioca un altro campionato –, il clima di opinione è mutato, slegato, cioè, dalle appartenenze religiose o a determinati gruppi. È un salto temporale, una rinnovata immedesimazione collettiva, come in passato lo fu l’aspirazione salvifica della terra promessa e che di generazione in generazione segue il corso degli eventi: è una materia alquanto dibattuta, anche a causa dell’ultimo libro di Ta-Nehisi Coates, The Message, che – tra le varie – tratta la vicenda palestinese da una prospettiva Jim Crow (non senza strascichi di polemiche, come è facile immaginare).
Di nuovo: sarebbe un azzardo rispondere alla domanda sopra sulle attese elettorali. Come si muoveranno gli arabo-americani, potrebbe in effetti rivelarsi uno spunto interessante, specie dove Harris e Trump si giocheranno la partita voto per voto (e il Michigan sembra andare proprio in questa direzione). Come si muoveranno gli altri, se il dramma di Gaza avrà davvero un peso enorme nella scelta dei candidati, è un altro paio di maniche. E con ogni probabilità le variabili in campo saranno tante di più.
Altre cose interessanti
Da qualche giorno è un gran parlare ovunque del sondaggio New York Times-Siena College sull’elettorato nero. Quello che emerge, in estrema sintesi, è che il recupero di consensi di Harris si attesta su valori ancora distanti dal risultato di Biden nel 2020. Chi segue Mookie con affetto sa che nel complesso, Harris o Biden, è una situazione che si osserva da mesi – se non da anni: nei circoli intellettuali se ne discute parecchio e certo non da ora – e anche se la vittoria della vicepresidente in questo segmento non è in dubbio, si mormora che i dati inquietino non poco i dem. I trend riguardano in misura maggiore gli uomini – che c’entri quello di cui abbiamo ragionato due puntate fa? – e il pensiero di Obama al riguardo lo conosciamo; il deputato James Clyburn si dice preoccupato, il senatore Raphael Warnock un po’ meno. Con Trump che in generale, afferma Politico, peggiora nella sua consueta retorica, Kamala Harris prova a rilanciare questo pezzo di campagna con un programma economico destinato ai maschi neri più alcune iniziative mirate, utili a scrollarsi di dosso – eccoli di ritorno – i pregiudizi sulla sua carriera da procuratrice.
Harris ha inoltre affrontato l’argomento nell’intervista con Charlamagne Tha God. In seguito è andata nella tana del lupo di Fox News. Intanto i democratici sfoggiano l’artiglieria pesante, con Bill Clinton intervenuto in Georgia e Michelle Obama che a breve farà altrettanto. Tutto ciò mentre le cose stanno già accadendo.
Kendrick Lamar ha dominato i BET Hip Hop Awards.
È morto a 52 anni il rapper underground di Brooklyn, Ka. Non era riuscito in principio a rendere la musica la sua prima occupazione, per trasformarsi soltanto in età adulta, da indipendente, in un artista di culto. Ad agosto è uscito il suo album The Thief Next To Jesus, in cui indaga la complessa relazione, personale e non, con la religione cristiana. Il bel ritratto di Craig Jenkins su Vulture.
Appuntamenti, più o meno. Ci leggeremo regolarmente tra due settimane e saremo a -4 dal voto. Quindi torneremo subito l’8 novembre per i primi commenti (si spera) sull’esito delle elezioni. Dopodiché riprenderà la regolare pubblicazione, ma non escludiamo una pausa. Sono stati anni intensi e Mookie ha bisogno di rallentare per continuare a offrire contenuti all’altezza e di qualità, quando opportuno. Avremo comunque modo di confrontarci. Nel frattempo sotto, se avete piacere a sostenere questo umile lavoro, trovate il pulsante per offrirmi un caffè nel mio bar di fiducia. Grazie di cuore! 👇
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A presto!
Hamtramck è una città di circa 28 mila abitanti, che ha eletto un consiglio comunale interamente musulmano.
Imany Perry, Prophets of the Hood: Politics and Poetics in Hip Hop, 2004.
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