Quando a fine gennaio più di mille pastori neri hanno esortato con una lettera aperta il presidente statunitense Joe Biden a cambiare registro sulla guerra a Gaza, si è capito che qualcosa di diverso era nell’aria. La vicinanza che la comunità nera sta manifestando nei confronti della popolazione civile palestinese, martoriata dalle atrocità del conflitto, appare come l’ennesimo segnale di un cambiamento in corso, graduale e per larghi tratti di tipo generazionale. In quei giorni il New York Times si occupò della vicenda, interpellando alcuni dei pastori coinvolti nell’iniziativa. Dal resoconto emergeva una chiara linea di condotta, con il potenziale rischio per l’attuale inquilino della Casa Bianca – questo l’avvertimento tra le righe – di subire futuri contraccolpi in termini elettorali, specie tra i fedeli più giovani. La cosa non è rimasta indifferente alla comunità ebraica statunitense, anche perché “rompe”, almeno in superficie, uno schema ancorato al passato di reciproca solidarietà (in realtà si tratta di una semplificazione estrema: le divergenze poi sfociate in disordini non sono mancate, ma stavolta in ballo c’è più di un episodio di cattivo vicinato).
Da settimane l’interrogativo di osservatori e analisti politici è: la guerra tra Israele e Hamas costerà cara a Biden? È una domanda a cui è difficile dare una risposta certa, però è un ulteriore grattacapo per il presidente in cerca di rielezione che si aggiunge ad una lista bella lunga. Il problema, per Biden, è che l’argomento sta assumendo toni sempre più trasversali e la timida inversione di rotta riguardo specifiche mosse di Israele – che pure di recente c’è stata, tra vari “stop and go” – appare agli occhi di molti tardiva e, forse, persino inutile nella sua impacciata esibizione. Questo concentrato di situazioni comprende numerose sfere della società statunitense, dalla religione alla musica. E il legame che c’è tra religione e musica non è una disquisizione che si risolve in quattro e quattr’otto, come non si risolve in modo sbrigativo un qualsiasi dibattito sull’intersezione religione/politica, soprattutto negli Stati Uniti. Se al riguardo desiderate saperne di più, allora è il caso di seguire The God Gap, la bellissima newsletter di Ilaria W. Biano.
Ciao! Qui Mookie, una newsletter di Fabio Germani che racconta pezzi sparsi di America attraverso il rap e la musica nera. Per contribuire al progetto, basta poco: un like, una condivisione, il passaparola, un caffè. Ogni vostro piccolo gesto può fare la differenza: grazie!
Durante la stagione dei diritti civili, molti ebrei americani sostennero attivamente la causa dei neri. Indietro nel tempo, gli schiavi neri – che in principio si avvicinarono al cristianesimo in modo spontaneo, mentre il processo di evangelizzazione si intreccerà più avanti con il movimento abolizionista – trovarono delle analogie con cui potersi immedesimare nell’Esodo e nell’aspirazione salvifica della terra promessa, un approccio culturale alle più antiche narrazioni bibliche destinato a durare. La fusione di tradizioni africane e cristianesimo ha dato forma al sincretismo musicale che sarà la base per lo sviluppo di generi come il gospel, il blues e il jazz. Ma al di là delle nozioni storiografiche, le relazioni tra i due gruppi non sono state sempre idilliache, anche perché entrambi presentano al loro interno visioni e sfaccettature talvolta contrastanti.
Secondo l’ultimo sondaggio New York Times/Siena College, le opinioni sulla guerra a Gaza tra gli intervistati neri non restituiscono l’immagine di una posizione netta, sebbene non passi inosservata la propensione di poco superiore a esprimere sostegno nei riguardi della popolazione palestinese (il 30% contro il 27% che al contrario indica Israele). In qualche misura è il risultato di un passaggio, appunto generazionale, che parte dal movimento per i diritti civili e arriva a Black Lives Matter (e che, come allora, vede l’impegno di alcuni esponenti politici di primo piano)1. Adesso molti si riconoscono, piuttosto, nelle sofferenze dei palestinesi e il rapporto tra le due comunità nel paese si è rafforzato negli anni delle proteste contro la brutalità della polizia. Ciò non toglie che il sionismo cristiano abbia ancora dalla sua un credito tutt’altro che trascurabile.
La prima volta che Martin Luther King pronunciò le sue parole più famose, I Have a Dream, fu a Detroit. Era il 23 giugno 1963 e due mesi più tardi, il 28 agosto, King tenne il celebre discorso al Lincoln Memorial. A Detroit, invece, parlò in occasione della Walk to Freedom, prova generale del compito che lo avrebbe atteso a Washington. Parte dell’intervento a Detroit venne inciso in un album della Motown Records, etichetta discografica fondata nel 1959 da Berry Gordy.
Convincerlo non fu facile. Gordy ci aveva già provato nel 1962, senza successo, in parte a causa di una spiacevole disavventura per King sopraggiunta nello stesso periodo con la pubblicazione non autorizzata di un suo vecchio discorso (per volontà della Southern Christian Leadership Conference la vicenda finì in tribunale). Inoltre, raccontò TIME nel 2020, King nutriva dubbi circa la “profanazione” della musica sacra, ma il successo riscosso dal soul – e la Motown stava promuovendo «il suono della giovane America» – lo incoraggiò infine ad accettare la proposta, con l’obiettivo di riuscire a diffondere il messaggio ad una platea più ampia.
Negli Stati del Sud, più che altrove, la chiesa è un pilastro nella vita delle comunità nere (per un approfondimento sul concetto di Black Church vi rimando a The God Gap). Non è raro imbattersi ancora oggi in storie di cantanti R&B la cui formazione è avvenuta nei cori o che hanno frequentato a lungo le chiese, tipo Eric Bellinger. E non è raro ascoltare rapper che inseriscono elementi gospel nei loro dischi, tipo Killer Mike. Di sicuro c’è che la religione e gli incastri culturali riconducibili ad essa hanno avuto un impatto notevole sulla musica e sull’arte, che sia di protesta o meno; da Aretha Franklin a Kanye West, il campione del sacro e del profano in un’unica soluzione (più del profano che del sacro, in effetti).
Da qualche anno si registra negli Stati Uniti una crescente secolarizzazione, resa più evidente da quanti rifiutano una specifica affiliazione religiosa. Per il Pew Research Center, l’esercito dei Nones – che per comodità potremmo definire i non-religiosi (tra atei, agnostici o persone che semplicemente rispondono «niente» – è aumentato al 28% nel 2023 (anche se la metà delle persone non religiose si dichiara comunque “spirituale”). Mentre gli adulti bianchi costituiscono il 77% degli atei e il 69% degli agnostici, tra i neri appena il 2% e il 4% dicono altrettanto di sé. Poiché addentrarsi nel labirinto dell’universo religioso statunitense significherebbe rischiare di non vedere mai la fine di questa puntata, sul tema ci limiteremo a sottolineare pochi altri aspetti: l’infatuazione degli evangelici per Donald Trump; l’indice di approvazione per Biden in calo tra i protestanti neri dopo il primo anno di amministrazione; l’importanza della fede nella lotta al razzismo; la forza aggregatrice della religione nel Sud; il rapporto con Dio che i neri dichiarano anche se non affiliati. Uniti i puntini, si avrà un quadro abbastanza esaustivo.
Religione e spiritualità hanno forgiato l’hip hop in quanto prodotto dell’esperienza nera, nonostante la massiccia dose di materialismo egoriferito che lo contraddistingue. Chi “frequenta” un minimo il genere, sa che spesso i testi delle canzoni sono pieni di riferimenti biblici e spirituali. Snoop Dogg nel 2018 ha pubblicato un progetto gospel rap di oltre due ore. Della deriva ultra-cristiana di Kanye West avviata tra il 2016 e il 2020 abbiamo già detto. Bun B degli UGK ha addirittura tenuto il corso Religion and Hip-Hop Culture con il professor Anthony Pinn della Rice University.
Lord I’m sittin here on bended knee, my hands locked, eyes shut
Askin’ you to watch over me, no matter what
Even though I ain’t too well behaved, I’m still a child of You
And faith in my Holy Father is all that keep me smilin’
Through the bad times and worse times, through it all– UGK, Living This Life, 2007
Nell’hip hop la religione si trasforma in un potente catalizzatore, sulla falsariga degli spiritual nell’800, ponte tra anima e musica. È un espediente narrativo che i rapper sfruttano abilmente per invocare la serenità interiore (l’esempio più immediato non può che essere DMX in Lord Give Me a Sign), oppure per confessare i propri peccati e cercare redenzione, assumendo perciò una funzione catartica (Petey Pablo nell’album Diary of a Sinner). Si tratta di una scorciatoia che permette al bene e al male di coesistere, essendo dinamiche ben visibili nei medesimi ambienti che hanno generato l’hip hop.
Kazaam is sad thrills, your gimmick is mediocre, the jig is up
I seen you from a mile away losin’ focus
And I’m insensitive, and I lack empathy
He looked at me and said “Your potential is bittersweet”
I looked at him and said “Every nickel is mines to keep”
He looked at me and said “Know the truth, it’ll set you free”
”You're lookin’ at the Messiah, the son of Jehovah, the Higher Power”
“The choir that spoke the word, the Holy Spirit, the nerve of Nazareth”
“And I’ll tell you just how much a dollar cost”
“The price of having a spot in Heaven, embrace your loss, I am God”– Kendrick Lamar, How Much a Dollar Cost, 2015
Pionieri dell’Holy Hip Hop come Soup The Chemist e quotati artisti Christian rap come Lecrae – o le Hip Hop Church che di tanto in tanto sorgono qua e là – rappresentano la massimizzazione di questa forma musicale. Interessante è il caso di Jackie Hill Perry, poetessa, scrittrice e artista hip hop, che nel 2018 ha dato alle stampe – ha senso questo modo di dire nel 2024? temo di no… – il suo secondo album, Crescendo. Dopo la conversione al cristianesimo, Perry non ha nascosto idee radicali su molti argomenti, tuttavia il disco raccoglie una serie di riflessioni – ad esempio sul ruolo della donna – in relazione alla fede in Dio, divenendo un punto di riferimento nel suo campo.
Tomorrow I’m a wife
Yesterday I was a mother
Today I’m just a woman
Next week I’m just a sister
Look I’m more than just a picture
What am I: I’m a woman that’s made in God’s image–Jackie Hill Perry, Woman, 2018
Durante un dibattito organizzato dalla Columbia University, Marcyliena Morgan, professoressa di Harvard e fondatrice dell’Hiphop Archive & Research Institute, ha sintetizzato più o meno così: «Il gospel è la musica di tutti, non appartiene ad una religione in particolare. È ciò che senti nella comunità, significa far parte della comunità».
Fede e musica nera non possono prescindere neppure dai precetti della religione islamica, circostanza che nell’immediato appare più che mai rilevante alla luce dei comportamenti di voto degli elettori arabo-americani e musulmani, di solito a favore dei democratici, ma che la guerra in Medio Oriente sta mettendo in dubbio in vista delle presidenziali. Ci torneremo.
Altre cose interessanti
Oggi l’hip hop è meno ossessionato dai legami territoriali, però capita che la vecchia scuola ci ricordi il valore dei luoghi di origine (era una cosa che mi piaceva condividere).
Segnalazione di un disco poco discusso in Italia, uscito a febbraio. Si tratta di James & Nikki: A Conversation di Rhymefest, una ricostruzione in chiave moderna della storica conversazione del 1971 tra James Baldwin e Nikki Giovanni.
Il Super Tuesday ha sancito una volta per tutte quello che sapevamo già: a novembre sarà di nuovo Biden contro Trump. Sebbene sia lo sport preferito di molti, buttarsi in pronostici sull’esito della sfida elettorale è ora un azzardo. È vero: nelle ultime settimane ci siamo concentrati parecchio sulle debolezze dell’attuale inquilino della Casa Bianca, ma i fattori in gioco che potranno determinare il risultato finale sono tanti e i contorni al momento poco chiari. Nel nostro piccolo proveremo a tenere insieme i tasselli del puzzle.
La playlist della newsletter è pronta (per l’occasione compare anche MLK), non resta che premere il tasto play. Domande? Suggerimenti? Potete rispondere alla mail, scrivermi su Instagram, su Threads o su Notes. Se Mookie vi piace, mandate il link alle amiche e agli amici!
Ci leggiamo tra due settimane, a presto!
Forse – forse – non è del tutto casuale l’appello della vicepresidente Kamala Harris per un cessate il fuoco immediato a Gaza lanciato da un luogo simbolo come Selma.
...Preach!