Altro giro, altra corsa: stavolta faremo tappa a Detroit, restando così nella Regione dei Grandi Laghi dopo essere passati per Buffalo qualche settimana fa. Partiamo!
Bentrovati su Mookie, la newsletter che «may I have your attention, please?»
Una delle scene più significative di 8 Mile, almeno per gli ultratrentenni più impallinati, è quando Eminem/Rabbit e i suoi amici sono in macchina e discutono di questa faccenda seria che è la faida East Coast-West Coast, ma «noi dobbiamo far conoscere Detroit», «dobbiamo fare il nostro sound e chi se ne sbatte degli altri». Non era un tema nuovo, certamente non lo era nel 2002 quando il film uscì, ma non lo era neppure nel 1995, anno di ambientazione e di inizio – convenzionale – di questa rivalità tra le due coste di cui a lungo si è discusso, spesso a sproposito, lasciando le altre realtà, da Nord a Sud, apparentemente ai margini. E negli anni ‘90 la musica hip hop non era di casa solo a Los Angeles o a New York. A ritagliarsi un pezzo di scena c’era appunto Detroit, che le cose, in effetti, le ha sempre fatte a suo modo.
Una puntata dedicata alla “Motor City” era nell’aria già da un po’, soprattutto dopo essere passati per Buffalo. In aggiunta alcuni avvenimenti recenti hanno contribuito non poco ad accelerare questa decisione, con l’Ambassador Bridge sullo sfondo durante le proteste del Freedom Convoy (il rumoroso movimento dei camionisti canadesi che per giorni ha manifestato contro le misure anti-Covid) e con l’Halftime Show di febbraio, che ha visto tra i suoi protagonisti proprio Eminem. Da ultima anche una strofa di qualche anno fa che mi è tornata alla mente e che alla luce di quanto stiamo continuando ad osservare in questi giorni – c’entra ancora Eminem – è un riferimento di nuovo attuale. A suo modo, chiaramente.
It’s like another plane just entered into Ukraine again
Or the Bermuda Triangle and
Attempted to make a safe descent
Awaiting anyone who ain’t affiliated, it could be danger
Did you make arrangements with the gangsters ‘fore you came here? And if they mention us…– Eminem, Detroit vs. Everybody, 2014
La Detroit di 8 Mile è una città decadente, soprattutto ai suoi estremi. È una prima testimonianza del crepuscolo del sogno americano che non coinvolge solo le minoranze, ma anche i bianchi. Ed Eminem diventa un modello, che si muove all’interno di un’espressione tradizionalmente afroamericana, per milioni di (ex) giovani che si riconoscono in uno stato di privazione di qualcosa che talvolta ritengono dovrebbe spettare loro quasi di diritto, alimentando incomprensioni e polarizzazioni, poi accresciute negli anni. Eminem non ha mai cercato niente di simile, ma suo malgrado ha rappresentato quei sentimenti a tratti contraddittori, ma diffusi, in un quadro che la sua Detroit ha saputo dipingere meglio di altri posti.
I’m tired of being’ white trash, broke and always poor
Tired of takin’ pop bottles back to the party store
I’m tired of not havin’ a phone
Tired of not havin’ a home to have one in if I did have one on
Tired of not drivin’ a BM
Tired of not workin’ at GM, tired of wantin’ to be him– Eminem, If I Had, 1999
Detroit, infatti, è una città che in più di dieci anni ha già vissuto molte vite e altrettante, prima, se ne è viste passare. Teatro di importanti rivolte a sfondo razziale – ad esempio nel 1943 e nel 1967 –, a conferma, cioè, di un razzismo pervasivo che al Nord applicava formule diverse dal regime Jim Crow del Sud, Detroit ha spesso legato le sue fortune all’imponente industria dell’auto. Nel 2009 l’intervento dell’amministrazione Obama – una rarità nella politica americana – arginò, tra le polemiche, una crisi che altrimenti sarebbe stata senza precedenti. Un dato su tutti: nel 2009 il tasso di disoccupazione in città era oltre il 25%. Dopodiché la situazione migliorò, passando per la bancarotta del 2013 – il più grande fallimento per una municipalità statunitense, gravato da un debito di 18 miliardi di dollari –, cui è seguita l’ennesima rinascita, una ripresa fatta di nuovi investimenti e una disoccupazione che nel 2017 si attestava ormai su livelli decisamente più accettabili, attorno all’8%. La pandemia del 2020 ha infine rimesso tutto in discussione, facendo emergere, un’altra volta, le fragilità che attanagliano la città.
È a poco più di un’ora di distanza da Detroit, a Dimondale, sobborgo a maggioranza bianca di Lansing, che nel 2016, durante la campagna presidenziale, il futuro inquilino della Casa Bianca, Donald Trump, rivolse il suo “famoso” appello all’elettorato nero: What do you have to lose? You’re living in poverty, your schools are no good, you have no jobs, 58% of your youth is unemployed. What the hell do you have to lose? Ecco, questa linea immaginaria che da Dimondale arriva a Detroit, è un’ipotetica rappresentazione della frattura statunitense. Gli abitanti di Detroit sono a larghissima maggioranza neri – secondo il censimento 2020 lo è il 77% della popolazione, a fronte però di un valore leggermente sopra il 14% in tutto il Michigan –, eppure occupa le prime posizioni nella classifica delle città che ancora presentano alti indici di segregazione residenziale, il risultato di anni e anni di pratiche controverse quali il redlining. La povertà, che a queste latitudini non è mai mancata, è in parte il motivo di una criminalità piuttosto presente – Detroit è la “sede” storica della Black Mafia Family, che potreste conoscere per la serie Starz, BMF, prodotta da 50 Cent – e nel 2020 la città si è confermata tra le più violente degli Stati Uniti. Inoltre, elemento puramente storiografico, è qui che venne dapprima fondata la Nation Of Islam (1930).
Insomma, nonostante abbia sempre fatto le cose a suo modo e un’anomala collocazione geografica che la rende città di confine a Est, Detroit non è mai stata un corpo avulso, semmai, con le sue innumerevoli difficoltà, ha in modo tangibile rispecchiato costantemente le tante discrepanze made in America. E non è un caso, forse, che il rapper bianco più famoso e credibile sia originario di un luogo come questo. Tuttavia la descrizione sommaria di Detroit non le rende davvero giustizia: all’atmosfera cupa si accosta un’invidiabile vivacità artistica, alla moda e ricca di intraprendenza.
Alcuni mesi fa Eminem ha aperto in città il ristorante takeaway «Mom’s Spaghetti», nome che deriva dalla prima strofa di Lose Yourself. Ne ha scritto, tra gli altri, il New York Times, a un certo punto definendolo una sorta di mini-museo dell’artista, ormai lontano dai grandi successi di un tempo.
Associarla a lui è un processo automatizzato, sebbene la sua figura abbia avuto un impatto che è andato ben oltre il Michigan e la sua carriera sia stata incanalata nella soleggiata California tramite Dr. Dre, ma Detroit è stata molto più di Eminem. A dirla tutta, più di Eminem e i D12, ripensando a «Detroit che fa le cose a suo modo» e che doveva contraddistinguersi al cospetto delle litiganti NYC e LA, inevitabilmente i ricordi vanno al compianto J Dilla, produttore e rapper che più di tutti da quelle parti – negli Slum Village o da solista – ha caratterizzato il suono della città, lasciando un’eredità culturale – da Black Milk ad Apollo Brown – che in poche occasioni si è vista con la stessa intensità. Dilla è morto nel 2006 e nel frattempo si era trasferito a Los Angeles, ma è un’informazione che non aggiunge granché, se non che nella sua breve attività artistica – in ogni caso forsennata: ancora oggi capita che spunti all’improvviso, in questo o quel disco, una sua produzione rimasta inedita – ha collaborato con gente di ogni angolo d’America, tipo i Pharcyde e Common, esportando, per così dire, lo stile Motown che lui aveva interiorizzato e rimodulato (è uscito da poco un accurato libro su di lui, per chi fosse interessato).
La musica di Detroit non è mai stata un fenomeno passeggero, anzi ha gettato ogni volta le basi per qualcosa di più grande. Quando nel 1959 Berry Gordy fondò la Motown, chiamando furbescamente l’etichetta in un modo che non lasciava spazi interpretativi, la musica nera venne presto catapultata in una dimensione che non faticheremmo a definire “pop”, stravolgendo i vecchi schematismi e riuscendo ad attrarre un pubblico sempre più ampio, in una stagione decisiva nella storia degli Stati Uniti, come fu quella del movimento per i diritti civili. Alla stessa maniera la techno di Detroit ha ridisegnato negli anni ‘80 e ‘90 i contorni della musica elettronica in chiave soul e funk. Nulla sembra accadere per caso, da quelle parti.
Ora, naturalmente, non staremo qui a elencare tutti i rapper della città – sono tantissimi, da Royce da 5’9” (metà Bad Meets Evil con Eminem) a Boldy James, Elzhi, Dej Loaf, Lizzo e Danny Brown (tra i preferiti di Mookie) –, ma è curioso come negli ultimi anni gli artisti di Detroit siano riusciti a fare rete, dimostrando un legame profondo con quelle strade in circostanze che altrove poche volte è stato lo stesso. Nel 2020 è uscito Detroit 2 di Big Sean, che in Friday Night Cypher – una traccia di oltre nove minuti – ospita i migliori MC di Detroit, giovani e veterani, tra i quali i soliti Eminem e Royce Da 5’9”. L’anno prima era invece uscito un progetto analogo, ma più esteso, che radunava alcune delle eccellenze della città, solo a livello più underground: Sincerly, Detroit di Apollo Brown.
Detroit State Of Mind, direbbero Elzhi e Danny Brown.
Life can be fatal and a hazard, from the cradle to the casket
I’m rightfully raised around a life of crime, snitches dropping dimes
I think of rhymes when I’m in a Detroit State of Mind– Elzhi, Detroit State Of Mind, 2011
Altre cose interessanti
Sul Detroit News si può leggere la storia di Terrell Jermaine Starr, giornalista nativo di Detroit, ora in Ucraina, posto che chiama «casa» dal 2009, mentre è alle prese con il racconto della guerra e prova a dare una mano come può.
Eminem è l’artista più certificato della storia della Riaa per singoli d’oro e di platino, record che ha celebrato alcuni giorni fa. Ad ogni modo The Game sostiene di essere un rapper migliore e siccome, partecipando a Drink Champs, ha anche affermato che per lui ha fatto più Kanye West in due settimane che Dr. Dre in un’intera carriera, il sospetto è che se la sia presa un bel po’ per non essere stato invitato all’Halftime Show…
Black Milk ha prodotto per intero l’album dei Cypress Hill uscito oggi, Back In Black.
Tutti i dischi della Death Row, ma non quelli di Tupac per una questione di diritti non esclusivi, sono stati rimossi dalle piattaforme streaming, fatta eccezione per TIDAL, almeno per il momento. Elliott Wilson, intanto, ha reagito così.
Non è chiaro se la decisione di Snoop Dogg, fresco proprietario della storica label, sia temporanea o no ed eventualmente legata alla volontà di rendere la “nuova” Death Row «un’etichetta NFT» (nel caso ciò significherebbe un cambiamento epocale per l’industria musicale). Comunque, se non siete su TIDAL, c’è ancora la possibilità di acquistare i classici di Dre, Snoop e gli altri su Bandcamp.
Ascoltare il podcast originale Spotify di Alex Pappademas, Big Hit Show, incentrato su To Pimp A Butterfly di Kendrick Lamar, dà la misura di come ci sia ancora spazio per un racconto intelligente e istruttivo della musica anche contemporanea. Il terzo episodio, che tra le altre cose esplora la formazione di formidabili musicisti quali Terrace Martin, Kamasi Washington e Thundercat, è la prova di quanto sostenuto.
Comunicazione di servizio: Mookie si ferma per un po’. Non torneremo tra due venerdì, come di consueto, ma più in là, ad ogni modo entro aprile. Nel frattempo ci terremo aggiornati su Instagram, promesso.
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