Questo mese sono 30 anni dall’uscita di due album che hanno fatto la storia dell’hip hop. E d’accordo che ormai è tutto iconico e tutto leggendario, ma non è un’esagerazione. Di recente qualcuno ha scritto che la Storia – quella con la “S” maiuscola – è una successione di singoli eventi, che presi da soli significano poco, ma che nell’insieme definiscono i processi e la portata di interi periodi cui a distanza di anni viene loro attribuita una particolare rilevanza. Non è la scoperta dell’acqua calda, però è vero che la Storia ce la raccontiamo per sommi capi, spesso trascurando i dettagli.
Ad ogni modo: il 9 novembre del 1993 uscì Enter the Wu-Tang (36 Chambers) e due settimane più tardi, il 23 novembre, venne pubblicato Doggystyle. Verrebbe da dire che il resto è storia, ma abbiamo appena cominciato.
Qualche giorno fa mi sono confrontato con un caro amico sulla tendenza a ricordare il passato con estrema nostalgia. Non eravamo granché allineati: io lo ritengo un difetto umano, atavico se vogliamo, il perpetuo conflitto generazionale; lui sostiene che sia soprattutto il risultato della pigrizia che oggi anima la società, quindi adesso è uno schifo, prima era più bello e si potevano mangiare anche le fragole (no, quest’ultima cosa l’ho aggiunta io, scusate). La sua tesi è che siamo passati da una cultura propositiva – da ricercare neppure tanto indietro – ad una remissiva, costellata di revival e di che belli erano i film (pardon, ci sono ricascato). Forse ha ragione lui, del resto il mondo che stiamo attraversando non aiuta. O forse abbiamo ragione entrambi, perché il mondo non aiuta, ma noi ci mettiamo del nostro. Quello che so è che una fase storica non arriva dal nulla, semmai è la conseguenza di altro: qualcuno pone le basi per ciò che vivremo da grandi; altrettanto, allora, saremo chiamati a fare nella vita adulta e così via. Ed è proprio per questo motivo che ora ripartiamo dal 1993, anche per capire il 2023.
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Il 1993 si trascinò dietro molte cose dall’anno precedente, ma facciamo pure dal 1991. A gennaio aveva fatto il suo ingresso alla Casa Bianca il new democrat Bill Clinton, dopo aver vinto le elezioni del 3 novembre 1992 – in parte grazie alla presenza ingombrante del terzo candidato Ross Perot, che secondo non pochi osservatori tolse voti decisivi all’uscente George H. W. Bush –, mettendo fine alla lunga stagione di conservatorismo al potere. Si chiudeva, dunque, un’epoca che, tolta la parentesi di Jimmy Carter e riprendendo il lavoro dell’amministrazione Nixon, sembrava essere stata costruita, agli occhi di molti, con l’unico obiettivo di smantellare la great society teorizzata all’incirca 20 anni prima da Lyndon B. Johnson. La cosiddetta reaganomics – che propagò l’ideale di Stati Uniti a immagine e somiglianza di Ronald Reagan – non riuscì a colmare i divari di reddito, specie quando proporzionali al colore della pelle. La generica ripresa degli anni ‘80 passò per le più favorevoli prospettive congiunturali, senza però uniformare l’abbondanza. In seguito, invece, la presidenza Bush non lascerà un ricordo indelebile da un punto di vista socioeconomico, in linea con le nuove insicurezze che si stavano affacciando all’inizio dei ‘90. Dunque, Clinton non aveva granché da perdere in campagna elettorale e sembrava essere agevolato dalle circostanze che di volta in volta gli si paravano davanti. Poi arrivò l’assoluzione degli agenti che avevano pestato Rodney King.
Alla fine dei sei giorni di fuoco di Los Angeles (29 aprile - 4 maggio 1992), la questione era tutt’altro che risolta. Come ricorda Jeff Chang in Can’t Stop, Won’t Stop del 2005 – libro fondamentale sulle origini e sullo sviluppo dell’hip hop, rispolverato in questo periodo di anniversari e celebrazioni – una parte considerevole di repubblicani, anche tra coloro più vicini al presidente Bush, i problemi derivavano dal malcontento che le “mance” elargite dai programmi della great society – poco importava, evidentemente, che molti di quegli accorgimenti erano stati già ridimensionati, se non addirittura azzerati – non erano state in grado di contenere nelle aree più disagiate del paese, distribuendo “contentini” e non tangibili opportunità di progresso. Clinton, dal canto suo, ebbe uno scontro dialettico a distanza con la rapper Sister Souljah, la quale in un’intervista aveva “giustificato” le violenze avvenute a LA. Mettiamola così: lei provò a illustrare uno stato emotivo delle persone piuttosto compromesso, ma non lo descrisse al meglio delle possibilità e l’argomento divenne l’unico pretesto di convergenza tra Bush e Clinton.
Con ogni probabilità, l’errore più grande commesso dai leader politici all’epoca fu quello di “nazionalizzare” vicende che invece presentavano una dimensione ben radicata nei territori interessati. Non a caso, in Doggystyle, non c’era traccia delle risposte in politichese pervenute l’indomani dei casini. I provvedimenti presi a livello federale hanno un chiaro impatto sulle comunità, ma non va dimenticato quanto l’America sia vasta e quanto una decisione possa determinare effetti diversi in contesti diversi, complice talvolta il modo in cui un singolo Stato recepisce le leggi, oppure si dota di regole proprie. Nel 1993, quando uscì Doggystyle, l’hip hop aveva appena compiuto 20 anni, ma non era un aspetto cui allora si dava peso. Snoop Dogg – agli esordi Snoop Doggy Dogg – apparteneva ad una generazione segnata dalla cesura della struggle, «lotta», ora decentralizzata e distante da quella che aveva contraddistinto il movimento per i diritti civili. Non si osservavano in lui pretese ideologiche in stile Sleeping With The Enemy di Paris, un album politico e militante, inequivocabilmente contro Bush, la cui pubblicazione venne ostacolata alla vigilia delle presidenziali del 1992.
Anche Tupac – che all’inizio del 1993 era uscito con Strictly 4 My N.I.G.G.A.Z. – e Ice Cube (Lethal Injection arriverà a dicembre dello stesso anno) avevano prestato attenzione all’attualità e alla «guerra tra poveri» che includeva più gruppi sociali, in particolare neri e coreani, protagonisti dei sei giorni di fuoco a LA. Snoop Dogg, al contrario, introduceva l’ascoltatore nel suo «gangsta party», non curandosi troppo in apparenza delle cose che gli ruotavano attorno. In realtà, tra una scorribanda e l’altra, tutto ciò era il riflesso di un periodo che era stato caratterizzato dal sincero tentativo di pacificazione tra le gang losangeline, con il coinvolgimento di personalità di spicco dell’élite intellettuale nera, non andato a pieno compimento per via degli antichi dissapori che tornarono a galla subito dopo le rivolte del ‘92 e, forse soprattutto, a causa delle promesse mancate in termini di ricostruzione, di convivenza e di sviluppo di ampio respiro da parte della politica locale.
Al lato opposto d’America, New York non se la passava meglio. Nonostante nella seconda metà del 1992 la soleggiata California avesse occupato i palinsesti, la metropoli della costa est aveva i suoi bei guai in vetrina. Nell’agosto del 1991 c’erano stati i disordini di Crown Heights, a Brooklyn, ennesimo esempio di come le difficoltà nelle città statunitensi potessero mettere le comunità nere – tradizionalmente le prime destinatarie di misure repressive – e le varie minoranze le une contro le altre. A Crown Heights le relazioni complicate erano con la folta comunità ebraica: una serie di incidenti innescò la miccia e due anni più tardi quegli eventi condizionarono le elezioni per il nuovo sindaco. David Dinkins venne eletto nel 1989 a scapito di un certo Rudy Giuliani, sulla scia del famigerato caso dei Central Park Five (di cui abbiamo accennato qui, a settembre). Tuttavia nel 1993 non riuscì a ottenere un secondo mandato, tra le altre ragioni perché ritenuto debole nella gestione dei disordini di Crown Heights. Perciò Giuliani ebbe la sua rivincita, incentrando la campagna elettorale sul tema della sicurezza e sulla «teoria delle finestre rotte». Ma non fu solo questo: Giuliani poté contare su un plebiscito a Staten Island, promettendo agli abitanti di risolvere i problemi rimasti a lungo inascoltati dalle precedenti amministrazioni cittadine. In questo modo riuscì a disinnescare il referendum (non vincolante) in ottica “secessionista” del distretto.
Ora non sappiamo se per ironia della sorte, ma alcuni giorni dopo le elezioni, il Wu-Tang Clan si fece definitivamente conoscere al grande pubblico con l’uscita di Enter the Wu-Tang (36 Chambers), loro debutto discografico. L’aspetto “ironico” della vicenda è che il Wu-Tang si era formato proprio a Staten Island, sebbene molti dei suoi componenti avessero radici in altre zone di New York. Questo fatto li rendeva a loro modo autentici e rappresentativi di tutta l’area metropolitana. Comunque, fino a quel momento, Staten Island non aveva dato prova di grandi rivoluzioni in materia di hip hop. A dirla tutta, l’isola ha sempre sofferto gli altri boroughs, anche per via di una posizione che la rende un luogo quasi sperduto in una delle città più visitate al mondo. Insomma, può apparire addirittura normale non ricordarsi della sua esistenza, se non per situazioni “strane” che di tanto in tanto si apprendono mentre si scrollano le notizie online – come l’omicidio del boss mafioso Frank Calì nel 2019 –, o episodi drammatici – come la morte di Eric Garner, soffocato da un agente di polizia nel 2014.
Representin’ Brooklyn, Queens
Long Island, Manhattan, Bronx
The Rugged Lands of Shaolin
N***** from Virginia, Atlanta, our boys in Ohio– Wu-Tang Clan, Wu-Tang Clan Ain’t Nuthing Ta Fuck Wit, 1993
La peculiarità del Wu-Tang, al di là delle capacità dei singoli (RZA, Method Man, Raekwon, Ghostface Killah, Ol’ Dirty Bastard e GZA avranno un’importante carriera solista, un po’ meno il pur talentuoso Inspectah Deck, mentre U-God e Masta Killa rimarranno nelle retrovie) era quella di fondere elementi che tra loro non c’entravano alcunché. Passavano dalle cazzate di strada sul modello del mafioso rap alla fissa per i vecchi film sul kung fu e alla filosofia dei Five-Percenter senza soluzione di continuità. Il 9 novembre 1993 venne pubblicato un altro album storico, Midnight Marauders degli A Tribe Called Quest, eppure è a Enter the Wu-Tang (36 Chambers) che New York ha riservato un posto d’onore in occasione del trentennale.
Gli ATCQ, come già i De La Soul e la Native Tongues al completo, ebbero il merito di proiettare l’hip hop nel futuro, ma forse – forse – l’orizzonte artistico e la produzione musicale di RZA furono la risposta perfetta alle creazioni di Dr. Dre, il quale stava dando nuovo impulso al sound californiano con il g-funk, evoluzione del gangsta rap e cifra stilistica del proprio album The Chronic del 1992, oltre che del disco “gemello” Doggystyle dell’anno successivo. Le differenze territoriali, in questo senso, apparivano cristalline non solo nei rispettivi problemi sociali, pur tenuto conto dei tratti comuni, ma anche nella musica hip hop. A ovest c’era George Clinton a fare da padre nobile di Snoop Dogg e soci – Atomic Dog era ovunque nel 1993, da Kam a Tupac –; a est RZA “pescava” direttamente dal soul e dall’R&B degli anni ‘60 e ‘70, mescolandoli a ingredienti culturali di tutt’altra provenienza e tenore.
Entrambe le storie avrebbero ancora una circostanza da registrare, il collante con i giorni nostri. Sempre nel 1993, qualche mese prima di Enter the Wu-Tang (36 Chambers) e Doggystyle, il reverendo Calvin Butts, famoso per predicare un rigorismo finalizzato all’innalzamento morale delle comunità nere, si scagliò contro il rap, trovando stavolta sulla sua strada un nutrito manipolo di fan dell’hip hop contrari a qualsiasi forma di censura applicata all’arte. C’è tanto dell’America del 1993 a ricordare l’America del 2023, per quanto possa non risultare immediato. Di sicuro ci sono i divari osservabili a ogni angolo di paese, ma anche il ritorno talvolta prepotente di uno specifico modo di esprimere idee – chi ha detto guerre culturali? –, nonché le “innovative” formule reazionarie viste negli ultimi anni (non ci siamo annoiati, suvvia). Ma siccome non si può pretendere di avere tutto e subito, queste riflessioni le rimandiamo ad un prossimo capitolo. Nel frattempo, vale la pena riscoprire i due classici dell’hip hop.
Altre cose interessanti
Intanto…
AGGIORNAMENTO. Ok, ok, ci siamo cascati:
Per i più curiosi, su Disney+ c’è la serie Wu-Tang: An American Saga.
Tra sondaggi che dovrebbero spaventare Biden, il voto della scorsa settimana che invece sorride ai democratici (a livello locale), compromessi raggiunti al Congresso e candidati repubblicani che si ritirano, si apre la stagione di analisi e commenti in vista delle presidenziali 2024. Il punto fermo, banalmente, è che manca poco meno di un anno alle elezioni e tutto – altrettanto banalmente – può ancora succedere. Calma e gesso.
Nel numero del 5 novembre di Americana, la newsletter sugli Stati Uniti di Alessio Marchionna di Internazionale, si osserva come oltreoceano sia cambiato nel tempo il sostegno a Israele da parte dei cittadini statunitensi e molto c’entrano le questioni generazionali, gli scontri ideologici cui abbiamo assistito di recente, eccetera eccetera. È un tema, tra i vari a portata di mano, che nei prossimi mesi dirà parecchio della direzione in cui sta andando la società americana. Sull’argomento, poiché ne avevamo scritto la puntata precedente, alla fine Drake ha preso posizione, firmando un appello insieme ad altri artisti per il cessate il fuoco a Gaza (sul profilo Instagram di Mookie qualche dettaglio in più).
Vi devo un aggiornamento e, anzi, spero sarò perdonato per la dimenticanza della volta scorsa. Cornel West sta proseguendo la sua campagna elettorale, ma dopo aver lasciato il People’s Party, ha finito per abbandonare anche il Green Party. Da indipendente si riducono ulteriormente le possibilità di racimolare voti qua e là, soprattutto si riduce l’opportunità di provare a dettare l’agenda politica almeno su alcuni spunti. La sua campagna sembra alquanto improvvisata, infatti dalla cosa hip hop è passato alla cosa jazz. Sarà Jill Stein la candidata dei Verdi.
Consiglio di lettura: Il suo nome è George Floyd di Robert Samuels e Toluse Olorunnipa, vincitori Pulitzer 2023. Dalla storia di Floyd e della sua famiglia emerge uno spaccato di America deprimente che spesso, nel nostro piccolissimo, proviamo a raccontare anche in questa umile newsletter.
André 3000 se ne è uscito con questo disco strumentale, tra jazz e new age, in cui suona il flauto. Difficile da capire, ma dietro la sua scelta c’è un pensiero che andrebbe analizzato proprio in relazione al rap dopo i 45 anni, magari lo faremo con calma. Visto che ci siamo, segnaliamo anche Quaranta di Danny Brown.
Siamo ai saluti. La playlist ufficiale della newsletter è pronta: a voi non resta che premere il tasto play. Domande? Suggerimenti? Potete rispondere alla mail, scrivermi su Instagram, su X/Twitter o su Notes. Volendo mi trovate anche su Bluesky e su Mastodon. Se Mookie vi piace, mandate il link alle amiche e agli amici!
Ci rileggiamo tra qualche settimana. Ciao!
Ho letto tutto con grande interesse, complimenti, scrivi benissimo!