A New York c’è un problema con gli alberghi. È un problema soprattutto per i turisti o per chi deve soggiornare in città anche per un periodo breve, perché i prezzi delle camere sono nel complesso aumentati ovunque, poco importa quali siano le tipologie di alloggio o i quartieri. I motivi sono davvero tanti e uno di questi ha a che fare con l’arrivo di migliaia di migranti. Alcune proprietà di alberghi, per sopravvivere alle difficoltà derivanti dalle chiusure e dalle restrizioni della pandemia, hanno siglato accordi con l’amministrazione cittadina per ospitare i richiedenti asilo. Il fenomeno si è sviluppato nel quadro della “sfida” che qualche Stato del Sud a guida repubblicana ha deciso di lanciare alle cosiddette città santuario, inviando perciò altrove le persone che riescono a superare il confine.
Verso la fine del 2020 annunciò la chiusura anche il Roosevelt Hotel. In quasi 100 anni – l’albergo occupava un grosso edificio sulla 45esima, trafficatissimo snodo di Midtown Manhattan a pochi isolati da Times Square e a due passi da Grand Central Terminal – è stato un incredibile pezzo di storia a New York. Per di lì sono passati presidenti degli Stati Uniti, presidenti mancati (fu la base del candidato repubblicano Thomas Dewey, che nel 1948 annunciò la vittoria mai avvenuta su Harry Truman, scommettendo su un titolo affrettato del Chicago Daily Tribune), presidenti a caccia di conferme (Barack Obama partecipò ad una raccolta fondi dei democratici per le elezioni di metà mandato del 2010) e innumerevoli personaggi. Dall’anno scorso, il Roosevelt Hotel – più di mille stanze a disposizione – è diventato uno dei luoghi simbolo in città dell’accoglienza ai migranti.
Nel suo glorioso passato, l’albergo è stato la location prediletta di molti registi per i loro film, da Wall Street di Oliver Stone a Malcolm X di “nostro padre” Spike Lee, 1408 tratto dall’omonimo racconto di Stephen King e The Irishman di Martin Scorsese. Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90 fu anche la sede di rassegne dedicate a libri, fumetti e dischi. Queste convention venivano prese d’assalto dai produttori hip hop più famosi dell’area metropolitana: Pete Rock, Dj Premier, Q-Tip, Large Professor, Salaam Remi, Lord Finesse, Kid Capri. Ogni volta era una gara a chi accaparrava per primo il vinile più ricercato, le rarità, qualsiasi cosa potesse aiutarli a creare beat sofisticati. La leggenda vuole che solo allora la scena di New York riuscì a recuperare la centralità smarrita dopo il successo del gangsta rap che si faceva sull’altro lato dell’America, nella soleggiata California1. Tutto questo, però, rimane ora nei ricordi di chi c’era e nella tradizione (perlopiù) orale.
La questione migratoria è tra le più rilevanti di questa campagna elettorale. È convinzione diffusa che sia l’economia l’argomento in grado di condizionare il voto delle presidenziali negli Stati Uniti, lo abbiamo ripetuto spesso negli ultimi mesi. Si tratta di una verità assodata, ma i flussi migratori, a loro volta, hanno un riflesso di tipo socioeconomico sulle percezioni di vita dei cittadini: il tema viene oggi indicato tra le priorità che la politica deve affrontare ed è stato oggetto di discussione nel surreale dibattito di giovedì notte. L’America è un paese che da un lato è progredito grazie all’accettazione del prossimo, facendosi vanto della mescolanza e delle diversità; dall’altro ha invece promosso, con consapevolezza o meno, politiche discriminatorie, barriere e contraddizioni. Barriere e contraddizioni che la musica ha saputo certamente cogliere, sennò non ci avremmo scritto un’intera puntata.
Ciao! Qui Mookie, una newsletter di Fabio Germani che racconta pezzi sparsi di America attraverso il rap e la musica nera. Per contribuire al progetto, basta poco: un like, una condivisione, il passaparola, un caffè. Ogni vostro piccolo gesto può fare la differenza: grazie!
Blitz The Ambassador (nome d’arte di Samuel “Blitz” Bazawule) è nato ad Accra, in Ghana, nel 1982. Nei primi anni Duemila si è trasferito negli Stati Uniti, in Ohio, dove si è laureato. Più avanti si è stabilizzato a New York e si è dato al rap, sfoggiando il suo hip hop afrocentrico, descrizione minuziosa delle insidie che può incontrare una persona arrivata da lontano. La carriera di artista hip hop è poi sfociata nel cinema, con la recente direzione del film Il colore viola, cui va aggiunta la partecipazione al visual album del 2020 di Beyoncé, Black Is King (l’esordio alla macchina da presa risale invece al 2018, in Ghana, con The Burial Of Kojo).
We’re taking it back to the real, ‘01 till infinity
Original immigrant, never facsimile
From Flatbush to Marcy, Bushwick, Canarsie
My Africans are running things
Catch us on Canal Street
Selling fake, Gucci fake, Prada fake, Louis V
Some of us got bachelor degrees
Between you and me, we still push the dollar cab
Where ever the dollars at
We wire that Western Union, Money Gram without a doubt
Speaking with our native tongues and I ain’t talking Tribe and them– Blitz The Ambassador, African in New York, 2013
Al contrario, nel 1999, la vita di un giovane guineano residente a New York per motivi di studio, venne interrotta in maniera brutale. Si chiamava Amadou Diallo.
Quando oggi si parla di immigrazione negli Stati Uniti, l’attenzione è rivolta soprattutto al confine con il Messico, dove la situazione è da tempo considerata fuori controllo. Alla fine di febbraio, Joe Biden e Donald Trump sono volati in Texas per due visite separate in programma lo stesso giorno: il primo a Brownsville; il secondo a Eagle Pass, raggiunto dal governatore repubblicano dello Stato, Greg Abbott. Nelle rispettive perlustrazioni, entrambi hanno constatato la difficoltosa gestione degli attraversamenti dei migranti, ma hanno anche offerto visioni contrapposte su come affrontare l’emergenza. Più votato al compromesso politico con la controparte repubblicana (finora senza successo), Biden. Più incline a mostrarsi come una specie di Mr. Wolf se eletto a novembre, Trump.
I migranti arrivano stremati al confine soprattutto dal Sud America, ma spesso anche dall’Africa e dall’Asia. Secondo una rilevazione Gallup, ad aprile l’immigrazione è stata indicata dagli intervistati, per il terzo mese consecutivo, come il principale problema degli Stati Uniti. Si tratta di una faccenda alquanto polarizzante, data la discrepanza di vedute tra elettori repubblicani (48%) e democratici (8%), cui va aggiunta la robusta quota di indipendenti (25%) che la mette in cima alla lista delle questioni più importanti. Vista l’impossibilità di una collaborazione bipartisan al Congresso, di recente il presidente Biden ha firmato un ordine esecutivo che irrigidisce le norme in materia, limitando l’esame delle richieste di asilo al confine: se più di 2.500 al giorno in una settimana, si chiude la frontiera e chi riesce a passare viene rispedito indietro. Qualcuno ha accusato l’amministrazione dem di muoversi nella direzione di Trump durante il suo precedente mandato alla Casa Bianca, quando alcune delle decisioni prese furono dichiarate illegittime da diversi tribunali e le immagini delle famiglie separate, i bambini rinchiusi in gabbie e tutto il resto, scatenarono numerose critiche, dentro e fuori gli Stati Uniti. Erano gli anni della retorica del muro.
You keep askin’ me where I’m from
About the borders and, “Did I run?”
Keep askin’ how I feel ‘bout guns
There’s a light and dark army, which side you choose?
If not now, then when?
And if not me, then who?
Don’t drink the Kool-Aid, my friends
I tried to tell y’all about this dude– N.E.R.D. feat. Rihanna, Lemon, 2017
Il provvedimento firmato da Biden – a vederla con l’occhio cinico dell’osservatore che adesso proietta qualsiasi cosa alle presidenziali di novembre – è una mossa che ricorda l’atteggiamento dei democratici negli anni ‘90, i quali, sofferenti per l’accusa che veniva loro rivolta dagli avversari di essere troppo morbidi, inasprirono le misure contro il crimine in un modo ancora oggi ampiamente dibattuto, nello sforzo, cioè, di intercettare il voto degli indecisi che sul tema hanno posizioni più vicine a quelle dei repubblicani. Continuando a vestire i panni dell’osservatore cinico, non stupisce che pochi giorni fa il presidente abbia annunciato anche una riforma che avrà l’obiettivo di regolarizzare lo status delle persone – secondo le stime circa 500 mila – che vivono illegalmente nel paese da più di dieci anni, ma che sono sposate con un cittadino o una cittadina statunitense e soddisfano requisiti aggiuntivi. L’iniziativa è stata lanciata nel bel mezzo di una cerimonia per il 12esimo anniversario del programma DACA dell’amministrazione Obama – una serie di tutele per chi è arrivato nel paese da bambino –, che ha subito molti tentativi di sabotaggio.
Sappiamo anche cosa intenderà fare Trump in caso di vittoria alle elezioni. Secondo una ricostruzione del New York Times, potrebbero aumentare le deportazioni e il numero degli agenti federali (U.S. Immigration and Customs Enforcement, ICE); una nuova amministrazione Trump potrebbe inoltre realizzare campi di detenzione per migranti in attesa di espulsione; promuovere accordi con altri paesi (non solo nel continente americano) per accogliere i richiedenti asilo; vietare, di nuovo, l’ingresso a persone provenienti da luoghi a maggioranza musulmana; provare a mettere fine alla cittadinanza per diritto di nascita.
All you Black folks, you must go
All you Mexicans, you must go
And all you poor folks, you must go
Muslims and gays, boy, we hate your ways
So all you bad folks, you must go– A Tribe Called Quest, We The People…., 2016
Da subito l’America ha conosciuto migrazioni di tutti i tipi, volontarie o forzate, che hanno contribuito, non senza dolore e sangue, a realizzare il progetto di nazione per come lo conosciamo oggi. Prima dell’abolizione della schiavitù – nei giorni scorsi si è celebrata la ricorrenza del Juneteenth, divenuta festa federale nel 2021 –, molti schiavi fuggitivi ambivano a raggiungere i territori canadesi, dove l’odiosa pratica era stata già cancellata. Parecchio più avanti, tra il 1916 e il 1970, circa sei-sette milioni di afroamericani abbandonarono gli Stati del Sud per spezzare le catene di Jim Crow e raggiungere quelli del Nord, dell’Ovest e del Midwest, fenomeno conosciuto come grande migrazione. Le commistioni culturali hanno facilitato l’incontro di realtà diverse, ma il processo è tanto più antico: i primi schiavi africani introdussero i canti e gli strumenti come il banjo (dice qualcosa?), modellando la cultura americana al pari o più degli europei (il tardivo riconoscimento è un altro paio di maniche, persino “normale” in un paese che fatica a mettere un punto definitivo sugli orrori del passato). Dopodiché sono cominciate ad arrivare persone da ogni angolo di mondo, e siamo così ai giorni nostri.
I’mma wade, I’mma wave through the waters
Tell the tide, “Don't move”
I’mma riot, I’mma riot through your borders
Call me bulletproof
Lord forgive me, I’ve been runnin’
Runnin’ blind in truth
I’mma wade, I’mma wave through your shallow love
Tell the deep I’m new– Beyoncé, Freedom, 2016
Beyoncé a parte, ormai il Texas sembra il fulcro di tutto e non solo per la vicinanza con il Messico. Le ragioni per cui molte persone si stanno trasferendo lì sono le più disparate. La relazione del Texas con l’hip hop è più intensa di quanto non si dica, oggi è la “casa” di volti nuovi e tra i più interessanti della scena. That Mexican OT è nato e cresciuto a Bay City, chiare le origini messicane. La sua è una tipica storia di difficoltà familiari, il padre che finisce in prigione, la madre che deve darsi da fare (spacciare droga) e che morirà giovanissima nel 2007, investita da un guidatore ubriaco. Più avanti lui stesso passerà dei guai con la droga, ma a salvarlo arriveranno la musica e il look da cowboy, i mixtape e gli album: ora è uno dei più promettenti rapper texani (anche se i giudizi sul disco uscito quest’anno a marzo, Texas Technician, sono stati abbastanza tiepidi).
Chi gode di un’immagine ultra-positiva tra gli addetti ai lavori è Tobe Nwigwe, rapper di Houston e figlio di immigrati nigeriani. Si fece conoscere anni fa online, entrando presto – almeno così hanno raccontato a lungo le cronache – nelle grazie degli Obama2.
Mi padre, Yahweh, you could see he hydrate my wave
Drive straight through my old hood, was forced to migrate
Intense crime rate had bodies sittin’ sideways– Tobe Nwigwe, From The Swat, 2017
Ma se non si nasce sul suolo americano, il sistema può allora rivelarsi piuttosto severo. La vicenda di Shyne l’avevamo raccontata qui, mentre quella di 21 Savage anni dopo – nel frattempo abbiamo abbandonato il Texas – è più complicata. Nel 2019 il rapper venne preso in custodia dall’ICE, con l’accusa di non essere originario di Atlanta – come si era creduto fino a quel momento –, bensì un cittadino britannico, con il visto scaduto dal 2006. L’episodio fece scalpore, inutile sottolinearlo, tanto più che rappresentò l’ennesima occasione per discutere delle storture e delle procedure farraginose per accedere ai permessi di soggiorno. Addirittura ci fu chi ritenne possibile che 21 Savage – da 19 anni negli Stati Uniti all’epoca dei fatti – era stato preso di mira dalle autorità a causa della pubblicazione, pochi giorni prima dell’arresto, della seconda versione di un suo brano contenente versi critici nei riguardi delle politiche migratorie dell’amministrazione Trump.
Been through some things
But I couldn’t imagine my kids stuck at the border (Straight up)
Flint still need water (Straight up)
N***** was innocent, couldn’t get lawyers (On God)– 21 Savage feat. J. Cole, a lot, 2019
Il pensiero di 21 Savage in a lot faceva, qua e là, il paio con quello espresso da Chuck D in un pezzo di Logic del 2017, America:
Gotta to go to ban the whole
Refugee population from the land they stole
In the name of the government
Rich white man while the rest be suffering
Run from the locked down borders
Ain’t like Flint3 ain’t got clean water
Dirty politics never come clean
Can ya’ll believe this shit in 2017?– Logic, America, 2017
Aggiornata la biografia, 21 Savage ha regolarizzato la propria posizione nel 2023. In fondo l’unico desiderio è stato quello di poter vivere il sogno americano, come afferma sua madre nell’intro di american dream.
My choices wеre not in vain
Locations and situations constantly change
But my unwavering hеart remains
For all the trials and all the pain
The mission is as it’s always been
For my son to become a man and live free in his American dream– 21 Savage, american dream, 2024
Altre cose interessanti
Un po’ di cose politiche, prima. Come è andato il dibattito, tra Biden e Trump? Non serve aggiungere granché: molto male per il presidente. Trump è Trump, da qui non si scappa, ma date le circostanze non è la cosa che conta di più adesso (e questo è incredibile già di suo, ma dà la misura del disastro dei democratici). I giornalisti Stephens Collinson e Shelby Rose hanno definito quella di Biden, nella newsletter Meanwhile in America della CNN, «la performance più debole da quando John F. Kennedy e Richard Nixon diedero inizio alla tradizione dei dibattiti televisivi nel 1960». Non ci si può aggrappare a molto altro, visto che agli americani sembra neppure pesare più di tanto il fatto che l’ex presidente sia stato recentemente condannato a New York.
Ad ogni modo Fat Joe e E-40 saranno al fianco di Biden ad un evento in North Carolina (salvo che i programmi non cambino a causa del dibattito, vai a sapere).
Siccome ne abbiamo scritto la volta scorsa (in realtà per settimane), questo servizio di ABC News mette bene in luce i punti di vista e le contraddizioni di tanti uomini neri alle prese con la difficile scelta di voto (o non voto) alle presidenziali. L’occasione è stata una battle rap organizzata ad Atlanta dal Black Male Voter Project, cui è seguito un tavolo di discussione sull’impegno politico, nella speranza di coinvolgere soprattutto chi è più sfiduciato e non vuole sapere di recarsi alle urne.
Cambierà tutto? Biden si ritirerà dalla competizione elettorale (perché ricordiamolo: è una decisione che in definitiva può prendere soltanto lui)? E se sì, con quali conseguenze? Queste elezioni americane sono più incasinate di quanto potessimo temere all’inizio.
La playlist della newsletter è pronta: non resta che premere il tasto play. Domande? Suggerimenti? Potete rispondere alla mail, scrivermi su Instagram, su Threads o su Notes. Se Mookie vi piace, mandate il link alle amiche e agli amici!
Ci leggiamo tra due venerdì, a presto!
Del Roosevelt Hotel parlammo una prima volta nel novembre 2020, a seguito dell’annuncio della sua chiusura. Poi ne ho scritto di nuovo in un contributo sui 50 anni dell’hip hop per Mac&Cheese, il programma di membership de LaMcMusa. Nell’intro di questa newsletter, per convenienza, ho rieditato parti dell’articolo.
La figura di Tobe Nwigwe esplose nel 2020 dopo l’uscita di un brano di appena 44 – potentissimi – secondi in cui affermava: «Arrestate i killer di Breonna Taylor».