Quando Donald Trump è stato formalmente incriminato a New York per il caso dei pagamenti a Stormy Daniels, molti esperti di cose americane si sono affrettati ad annunciare l’inizio della campagna per le presidenziali del 2024. In cosa l’incriminazione, di per sé, potrà tradursi, è ancora presto per stabilirlo, ma l’inchiesta della procura di Manhattan neppure è il peggiore dei guai giudiziari che a breve potrebbero interessare l’ex presidente. Alla vigilia dell’incriminazione, Alina Habba, 39enne avvocata di Trump, intervenendo al podcast The Benny Show, uno dei tanti che costellano la galassia dell’ultradestra statunitense, ha paragonato il suo importante cliente – non ridete – a Tupac. Poi ha corretto il tiro, dicendo che è più simile a The Notorious B.I.G., visto che lei viene dalla East Coast e quindi adora Biggie (bentornati anni ‘90); comunque il senso del ragionamento era che le vicende giudiziarie in cui Trump è impelagato lo rafforzano e lo rendono più popolare, proprio come avvenne a Tupac nel periodo trascorso in carcere. Comprensibilmente, alla sorella di Pac non è piaciuto granché il parallelismo, ma sembra che Alina Habba non sia nuova a faccende controverse legate all’hip hop: se non altro possiamo dedurre che sia un’appassionata del genere. Dal suo Instagram scopriamo che anche lei, come Trump, era presente all’UFC 287 che si è tenuto a Miami un paio di settimane fa, pochi giorni dopo l’incriminazione. Immortalato in prima fila al Kaseya Center al fianco di Mike Tyson e altri amici, Trump ha rubato la scena al suo solito: del resto giocava in casa. Anche DJ Akademiks ha postato la sua bella fotina con l’ex inquilino della Casa Bianca.
Always do your best, don’t let this pressure make you panic
And when you get stranded
And things don’t go the way you planned it
Dreamin’ of riches, in a position of makin’ a difference
Politicians are hypocrites, they don’t wanna listen
If I’m insane, it’s the fame made a brother change
It wasn’t nothin’ like the game
It’s just me against the world– 2Pac, Me Against The World, 1995
Nel 2016, circa un mese prima del voto di novembre, l’allora portavoce della campagna presidenziale di Trump, Katrina Pierson, si arrampicò sugli specchi per discolpare il suo datore di lavoro nel pieno delle polemiche innescate dalle rivelazioni dei media riguardo alcuni commenti sulle donne – risalenti al 2005 – dal contenuto vietato ai minori. Allora Pierson giustificò il linguaggio osceno utilizzato da Trump mettendolo sullo stesso piano di quello che propina l’industria dell’intrattenimento e in particolare la musica hip hop che «puoi ascoltare nelle stazioni radio locali».
Dunque, alla luce di quanto appena descritto, finirà che i repubblicani, partito ed elettori, si ricompatteranno attorno alla corrente MAGA o al contrario che la spunterà un qualche contendente alla nomination tipo Ron DeSantis, ammesso che quest’ultimo in effetti si candidi? Per il momento possiamo constatare che i primi accenni di confronto in vista della sfida presidenziale girano al largo delle cosiddette guerre culturali. È normale in questa fase, dopodiché, una volta che il puzzle delle candidature sarà finalmente composto, saranno i temi più consueti – economia in primis – a indirizzare le elezioni in programma il 5 novembre 2024, anche se è lecito aspettarsi che le divisioni avranno un peso addirittura maggiore rispetto al passato. La polarizzazione negli Stati Uniti è un fenomeno ormai endemico e il sentimento negativo che avvolge le leadership di entrambi gli schieramenti politici inasprisce gli animi.
Ciao! Questa è Mookie, una newsletter di Fabio Germani che tratta di America in relazione al rap e alla musica nera. Riprendiamo dopo una settimana di pausa, anticipando alcune delle cose che potrebbero interessarci nel prossimo futuro. Per contribuire a questo umile progetto basta poco: un like, una condivisione, il passaparola. Ogni vostro piccolo gesto può essere incredibilmente utile, perciò grazie!
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Domanda: c’è qualcosa di più politicamente scorretto del rap?
Su Rolling Stone, André Gee ha scritto che «l’hip-hop è più conservatore di quanto molti fan vorrebbero ammettere». È vero. Ma lo è non solo per situazioni come l’accordo di Akademics con la piattaforma video Rumble – amata da un pubblico che perlopiù si definisce “repubblicano”, osserva Gee nel suo articolo – o per la deriva appunto conservatrice (e remunerativa, a quanto pare) di tanti personaggi che nell’hip hop ci sguazzano, bensì per antica attitudine. Nel 2014 Lord Jamar dei Brand Nubian apostrofò – male – Kanye West (!) per essere stato – a suo dire – il pioniere di uno stile «queer» che proprio non riusciva a comprendere applicato all’hip hop, con il rischio – ancora a suo dire – di vedere scippata l’identità culturale «alle persone che l’hanno creata». Ora, Lord Jamar e altri dello stesso avviso, sono gocce nell’oceano: infatti, mentre la società progrediva in tanti modi diversi, anche l’hip hop progrediva. Solo che ad ogni cambiamento sociale si è sviluppata una controparte reazionaria, aggiungendo confusione e sollecitando, spesso in maniera pretestuosa, le cultural wars. Nel mezzo, l’hip hop, la più influente subcultura della nostra epoca, ha vissuto dinamiche analoghe, diventando lo strumento perfetto per chiunque necessiti di tirare l’acqua al proprio mulino, come Katrina Pierson nel 2016, o di fornire una chiave di lettura dei fenomeni contemporanei, come un insospettabile Barack Obama nel 2020.
L’avvocata di Trump lo paragona a Tupac e già Chris Rock, prima di lei, aveva espresso un pensiero del genere.
Trump : Tupac = Alina Habba : Chris Rock. Curioso, no?
In nessun altro posto d’America le cultural wars sono centrali quanto in Florida. Dimora preferita di arzilli pensionati, da sempre luogo di eccessi e feste sfarzose, con spiagge tra le migliori del paese e alligatori che ti spuntano in giardino, il Sunshine State sta però ricordando di essere anche un luogo di improvvise restrizioni o larghe concessioni (a seconda dell’argomento), possibilmente più di Stati come Texas e Virginia, che negli ultimi anni hanno riservato non poche sorprese e contribuito ad alimentare il dibattito in materia su scala nazionale. Merito soprattutto del suo governatore e possibile candidato alla presidenza, Ron DeSantis, il quale dal profilo (più o meno) moderato di un tempo è passato a cavalcare l’onda del sentimento anti-woke, con l’ambizione di mettersi alla testa del movimento. Da qui nascono i litigi con Disney, le provocazioni estreme, il divieto di aborto dopo sei settimane mentre vengono garantiti ulteriori permessi in fatto di armi, la messa al bando di specifici libri – persino di matematica –, di autori e corsi di studi afroamericani nel quadro di una più ampia crociata contro la Critical Race Theory, ma anche di studi di genere o intersezionalità.
Brain disorder, blame this for the pain in Florida
– Denzel Curry, SWITCH IT UP | ZWITCH 1T UP, 2018
Denzel Curry è tra gli artisti hip hop provenienti dalla Florida più maturi della sua generazione. Frequentò la stessa scuola di Trayvon Martin, la Carol City High School a Miami Gardens (i due, infatti, si conoscevano) e quando nel 2012, a Sanford, successe quello che successe, di certo non rimase indifferente alla cosa - e come lui tantissimi giovani americani. Inoltre, nel 2014, Denzel Curry perse il fratello, morto dopo essere stato colpito con il taser dalla polizia. Di storie così, nel sud della Florida, se ne sentono parecchie. In generale lo Stato non ha mai smesso di mostrare la sua versione antinomica, dove vale tutto e il contrario di tutto. La battaglia ideologica di DeSantis ai danni di ciò che ritiene essere «indottrinamento woke» avviene in un’area geografica che, per crudele ironia della sorte, ha rappresentato il principio, almeno in parte, delle attuali contrapposizioni. Black Lives Matter, ad esempio, nacque dieci anni fa a seguito dell’assoluzione di George Zimmerman per l’omicidio di Trayvon Martin. La sentenza di non colpevolezza arrivò sulla base della legge Stand Your Ground, che tutela l’autodifesa in modo smisurato, secondo i critici. Nel giro di poco l’organizzazione, da semplice hashtag sui social, diventò qualcosa di più grande e più strutturato, con ramificazioni sparse anche fuori dagli Stati Uniti.
Nello Stato in cui una scuola asseconda la richiesta di interrompere la proiezione del film Disney del 1998 su Ruby Bridges perché un genitore è preoccupato che possa insegnare ai bambini che «i bianchi odiano i neri», o dove alcuni si scandalizzano perché agli alunni di un’altra scuola è stato mostrato il David di Michelangelo, il rap ha spesso controbilanciato tali istanze da Bible Belt, rendendo i confini del politicamente corretto e della cancel culture piuttosto labili. In definitiva non stiamo attraversando un territorio inesplorato. Tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio dei ‘90, i 2 Live Crew, esponenti di spicco del Miami Bass, subirono un processo per oscenità a causa dei loro testi, in particolare nell’album As Nasty As They Wanna Be del 1989. Anche allora c’era un governatore, Bob Martinez, per nulla incline ad accettare che determinati contenuti potessero girare senza alcuna censura. Ad ogni modo si trattò di un caso complicato, che sollevava questioni più profonde oltre l’indole scandalosa del gruppo e che meriterebbe una puntata a parte di Mookie. Limitiamoci adesso a prenderlo per quello che è stato: un primo assaggio di “guerre culturali”, perlomeno per come le intendiamo oggi, che sarebbe potuto emergere ovunque e che invece ha trovato nei cortocircuiti valoriali della Florida il proprio habitat naturale.
In Liberation 2, nuovo disco di Talib Kweli e Madlib (in esclusiva su Luminary), la quarta traccia – dal titolo evocativo Nat Turner (che vede la collaborazione di Cassper Nyovest e Seun Kuti) – viene introdotta dalla registrazione di un intervento pubblico di Paul Congemi, un tizio che nel 2017 era in corsa per la carica di sindaco a St. Petersburg, Florida. Rivolgendosi a Jesse Nevel, candidato dell’Uhuru Movement (in queste ore al centro di una vicenda di tutt’altro carattere), Congemi sostenne che le riparazioni si erano già materializzate «sotto forma di un uomo di nome Barack Obama». Per poi concludere: «Il mio consiglio per te, se non ti piace qui in America, gli aerei partono ogni ora dall’aeroporto di Tampa. Torna in Africa!». Il fatto che un aneddoto così poco edificante venga inserito all’interno di un album hip hop, pur politicamente impegnato, è l’ennesima dimostrazione di quanto il tessuto sociale statunitense sia ancora compromesso. Quello delle riparazioni è un argomento divenuto “mainstream” nel 2014, con la pubblicazione sull’Atlantic del saggio The Case for Reparations di Ta-Nehisi Coates, tra gli autori rimossi dal College Board per effetto delle iniziative di Ron DeSantis. È come stare nella ruota del criceto. Resta da capire se la sensazione ci accompagnerà per l’intera durata della campagna presidenziale.
I talk to God on the daily
Told him that the Reaper can’t take me
In this land designed to hate me
Of all things, my mental suffers greatly
They draw guns so how could lead erase me? I’m baffled
An epic battle where evil and the will to evolve is what I’m involved in
Hey God, is Earth gon’ keep revolvin’?– Denzel Curry, Worst Comes To Worst, 2022
Altre cose interessanti
Dagli Stati Uniti continuano ad arrivare notizie spesso fuori dalla portata di una normale comprensione da parte di noi europei. Non che in casa nostra manchino i problemi, chiaro.
Erykah Badu – chi meglio di lei? –ha di recente analizzato il significato di “woke”. In estate Badu sarà in tour insieme a Yasiin Bey, ma a quanto sembra non passeranno di qui.
Pras, quello dei Fugees, è il protagonista di un’incredibile spy story internazionale per la quale ora è sotto processo. La vicenda riguarda il suo legame con il finanziere malese Jho Low e alcune operazioni che avrebbe condotto per il governo cinese senza l’autorizzazione degli Stati Uniti. Se condannato, rischia 22 anni di carcere.
Nel 2013, dopo l’assoluzione di Zimmerman, Stevie Wonder annunciò il "boicottaggio" della Florida e degli Stati in cui era in vigore la Stand Your Ground. Cosa è cambiato da allora? Quasi nulla. In compenso Stevie Wonder è tornato ad esibirsi in Stati con leggi simili a quella della Florida. «Sento che parlando direttamente ai cittadini, posso avere un impatto maggiore sulla spinta al cambiamento», spiegò.
Altra nota di rilievo. Tra gli avvocati che rappresentano Trump nel caso di New York c’è Joe Tacopina, conosciuto in Italia per il suo decennale interesse nel mondo del calcio (oggi è presidente della Spal), ma oltreoceano è famoso per essere stato anche il legale, tra i vari, di Michael Jackson e di Meek Mill. Tacopina compare nella docuserie Free Meek.
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