Los Angeles ha la memoria corta. Non impara mai niente. Ed è questo che la distruggerà. Sta’ a vedere. Ci saranno altre rivolte razziali nel 2022. O anche prima, non so.
Si potrebbe quasi azzardare che la profezia di Lil’ Creeper – personaggio di fantasia del romanzo di Ryan Gattis, All Involved (2015), che ripercorre gli aspetti più nascosti dei “sei giorni di fuoco” a Los Angeles, dal 29 aprile al 4 maggio 1992, quando le gang, soprattutto latine, approfittarono dei disordini per agire indisturbate, svaligiare gli esercizi commerciali, appiccare incendi e regolare i conti – si sia avverata con una puntualità disarmante. Solo che non si è trattata di una rivolta in strada, di quelle proteste rumorose che abbiamo assistito di nuovo su larga scala soltanto un paio di anni fa. È stata più una culture war, se vogliamo.
It’s the city of angels and constant danger
South Central L.A. can’t get no stranger
Full of drama like a soap opera
On the curb watchin’ the ghetto bird helicopters
I observe so many n***** gettin’ three strikes, tossed in jail– Tupac, To Live And Die In L.A., 1996
A ottobre la presidente del consiglio municipale di Los Angeles, Nury Martinez – la prima di origini latine a ricoprire l’incarico –, si è dimessa perché “pizzicata” in una registrazione audio pubblicata online e poi ripresa dal Los Angeles Times mentre si lasciava andare, insieme ai consiglieri Gil Cedillo, Kevin de León e al presidente della Federazione del lavoro della contea di LA, Ron Herrera, ad alcuni commenti razzisti. Tra le varie, nello specifico, Martinez si era rivolta in modo irrispettoso nei confronti del figlio nero di un altro consigliere (bianco), Mike Bonin. Il fatto è avvenuto un anno prima della sua rivelazione, a ottobre 2021. Invece non è chiaro il perché della registrazione – di cui i protagonisti non erano a conoscenza – e chi l’abbia fatta trapelare. Ma in questa storia c’è molto altro.
Durante la conversazione i consiglieri stavano discutendo del processo di riorganizzazione dei distretti elettorali, ma – emerge sempre dall’audio diffuso nelle scorse settimane – allo scopo di immaginare uno stratagemma utile a favorire i politici latinoamericani. Los Angeles ha evidenziato profondi cambiamenti demografici negli ultimi anni. In città la componente latina rappresenta ormai circa la metà della popolazione, eppure a livello consiliare non è ancora adeguatamente rappresentata. I dialoghi compromettenti dei consiglieri si collocano, dunque, in un quadro di insofferenza – se non altro questa è la sensazione suscitata – verso i leader democratici bianchi e neri che occupano un maggior numero di seggi. Messa sotto la lente d’ingrandimento, la vicenda dimostra che il raggiungimento di una società post-razziale non si esaurisce in una volta sola – il primo presidente nero, la prima rappresentante latina, la prima nativa americana nominata nel governo, il primo governatore nero del Maryland e così via – perché, specie tra quanti ricoprono cariche elettive locali, è più ampio il grado di interesse nei riguardi della comunità di appartenenza che non verso l’intera collettività. Certo: il presidente deve per forza di cose allargare l’orizzonte, uguale un governatore, mentre è abbastanza normale che un consigliere municipale si preoccupi di più del proprio bacino elettorale, ma la successione di eventi, piccoli e grandi, osservata grossomodo in tre decenni, induce a pensare che la situazione si sia nel frattempo evoluta. Non più questione razziale, bensì questioni razziali.
Run home if you’re scared of problems, can’t dodge em, we angels
Evitando la muerte, esperando el cielo
We ain’t frownin’ we black and brown and we crowned with that yellow– Terrace Martin feat. D Smoke & Leon Bridges, Sick of Cryin’, 2021
Alle elezioni di metà mandato di martedì 8 novembre, i trend dei comportamenti di voto sono stati tutti più o meno confermati: lievi le variazioni nell’elettorato nero (pure stavolta la stragrande maggioranza si è espressa a favore dei dem), più marcate in quello latino, dove tra gli uomini, ad esempio, il sostegno ai democratici è passato dal 63% del 2018 al 55% del 2022. Qua e là, però, sono anche emerse dinamiche particolari che, di elezione in elezione, sconfessano invece le costruzioni mentali su chi vota chi e perché. Non esistono regole che non possano essere disattese. Esistono le persone e le loro sfumature.
Questa è Mookie, la vostra newsletter di fiducia che racconta cose americane in relazione alla musica nera.
La questione razziale è sempre stata centrale nella storia degli Stati Uniti. Non che servano spiegazioni in questo senso, no? Lo è diventata anche di più con Barack Obama – il valore simbolico del suo ingresso alla Casa Bianca, primo inquilino ad avere spalancato le porte del potere all’hip hop, viene troppo spesso sottovalutato – con l’ex presidente costantemente impegnato in situazioni scomode (il summit della birra con il professore Henry Louis Gates e l’agente che lo aveva arrestato “per errore” davanti la sua casa), o pretestuose (il caso Trayvon Martin), o con velleità di pacificazione sociale (il solenne discorso durante le celebrazioni per i 50 anni della marcia di Selma o il momento Amazing Grace).
Come ha scritto Abdurraqib Hanif (Finché non ci ammazzano, Edizioni Black Coffee) «che Barack Obama abbia accolto JAY-Z e Beyoncé è incoraggiante, ma era prevedibile». In realtà la cosa più incoraggiante «è che Barack Obama abbia continuato ad accogliere o citare rapper, gente come Kendrick Lamar e Pusha T, i cui testi causano tuttora il panico nei damerini inamidati di Washington. E che l’abbia fatto pur sapendo che si sarebbe ritrovato con il fianco scoperto dinanzi al genere più prevedibile, e peggiore, di critiche: considerazioni vetuste sui testi rap fatte da opinionisti conservatori, che vogliono screditare sia l’impegno del presidente verso la politica sia quello nei confronti della cultura americana così come se la immaginano loro». Prima, però, l’autore ammette in modo implicito, pur non rivolgendo accuse analoghe, l’equivoco per cui non tutti lo hanno sostenuto, non allo stesso modo almeno: [...] «Il legame di Barack Obama con la musica e gli artisti rap ha sempre avuto una sua logica. Non necessariamente per questioni razziali, ma per il modo in cui lui si è sempre posto, ossia con il carisma e la presenza scenica di un vero MC». Un’immagine patinata, secondo alcuni, da mettere in bella mostra per convenienza, svestiti i panni, di tanto in tanto, del politico irreprensibile, ma che alla comunità non restituiva granché. Un sentimento rintracciabile nelle versioni artistiche più radicali, come nelle “poetiche invettive” di Georgia Anne Muldrow:
Everybody knows that US ain’t right
The way they take funny stances and chances out of spite
It’s unrighteous to invite yourself to what you ain’t welcome
It’s in spite to bring out a mere stream of war
Nuclear bombs, they just belong to Osama
They’ll soon belong to Obama
Prayer to Sama– Georgia Anne Muldrow, Caracas, 2009
Il punto è che l’America è la somma dei suoi gruppi sociali, non più solo la contrapposizione bianchi-neri. Un gruppo sociale – senza scomodare Robert Merton, naturalmente – è un insieme di individualità che interagiscono mediante esperienze e valori condivisi, tratti che ne definiscono i contorni anche al di fuori. L’occupazione simultanea degli spazi vitali ha permesso a gruppi di estrazione diversa di espandere la propria rete di contatti, ma questo non è avvenuto sempre in maniera pacifica. I conflitti sono stati piuttosto frequenti, anche se l’hip hop – rammenta Fat Joe nel suo libro in uscita – è stato un collante per i tanti latini cresciuti nei quartieri a maggioranza nera. Un copione già visto, dai Cypress Hill a Los Angeles fino ai Beatnuts a New York.
Patiently taking all day waiting for the confrontations to cease
and the nations to do as we’ve done
replacement killers LOVE a good fight
a goodnight kiss takes the queen but protects the king’s life
while worldwide peace is just a figment and now is where we’re livin’
we can hold on to the vision, do our ancestors right
by our decisions, thanks givin’ to the most
for the host of believers and this ghetto child’s achievements
to all the berevements we are...– Visionaries, If You Can’t Say Love, 2004
Le rivolte di Baltimora del 2015 – che devastarono la città a seguito della morte di un giovane nero, Freddie Gray, avvenuta in ospedale una settimana dopo l’arresto a causa delle lesioni alla spina dorsale riportate durante i 45 minuti passati nel blindato della polizia (il 25enne era scappato dinanzi a un controllo) – hanno riacceso i riflettori sulle ataviche tensioni tra neri e asiatici. Il precedente più famoso è quello del 1992, a Los Angeles, nei “sei giorni di fuoco” innescati dall’assoluzione degli agenti al processo per il pestaggio di Rodney King. La comunità asiatica americana, con la sua recente impennata demografica (è anche il gruppo di elettori che ha fatto segnare il più elevato ritmo di crescita negli ultimi due decenni, sottolinea il Pew Research Center), è stata presa parecchio di mira nel periodo della pandemia. Dal 19 marzo 2020 al 31 dicembre 2021, secondo Stop AAPI Hate, sono stati denunciati 10.905 episodi di odio razziale ai danni di persone di origine asiatica e delle isole del Pacifico (4.632 nel 2020, 42,5%; 6.273 nel 2021, 57,5%). I dati sono scollegati dalla rivalità, principalmente economica, che si poteva respirare nella Los Angeles del 1992, con i commercianti coreani in difesa delle loro proprietà mentre i negozi venivano saccheggiati e distrutti – scenario che qualche anno prima Spike Lee aveva esplorato in una dimensione più piccola, con un esito alla fine conciliante, nel suo capolavoro Do The Right Thing, fonte inesauribile d’ispirazione per questa umile newsletter –, ma il quadro d’insieme delinea l’ennesima frattura sociale dell’America, sebbene poco raccontata e incline alle facili stereotipizzazioni.
And it was only 1 score and 7 years ago
My folks came to the bay searching for vehicles
They had the drive to drive towards the scenic view
Flat broke where hopes and dreams were feasible
Coming from Asia, things were barely readable
Burgers and fries, things were barely eatable
But opportune, this place was unbelievable– Kero One, Welcome To The Bay, 2009
Le elezioni midterm di quest’anno hanno registrato un numero notevole – notevole per gli standard, si intende – di candidati latini, neri, asiatici o che si identificano come multirazziali tra le file del Partito repubblicano. Di per sé non è una novità, anche se, guarda caso dall’elezione di Obama, l’operazione è diventata più frequente, così da scrollarsi di dosso l’appiccicosa etichetta di “partito dei bianchi votato dai bianchi” e chissenefrega dei numeri che continuano a suggerire ‘sta cosa. Però è in linea con i cambiamenti politici che in effetti riconoscono l’esistenza di un corpo elettorale più eterogeneo e, in misura maggiore, con gli sviluppi socio-demografici – i bianchi diminuiscono, le minoranze crescono – che danno vita a quartieri misti, stravolgendo i comportamenti di voto tipici di questa o quella contea. Escluse le Hawaii, dove al contrario c’è stata una flessione, il fenomeno ha riguardato tutti gli Stati americani: percentuale più, percentuale meno. L’estesa convivenza simula la conclusione delle ostilità, la cui tenuta è in perenne bilico a causa delle culture wars. C’è distanza ideologica su qualsiasi argomento e quando non c’è si creano spauracchi al bisogno, o in alternativa si portano agli estremi faccende per cui varrebbe la pena soffermarsi in analisi più accurate. Gli studi sul razzismo sistemico e la critical race theory alzano l’asticella dello scontro: i detrattori li ritengono strumenti manipolatori che imprimono nei bianchi il fardello del “peccato originale” di una società costruita per innalzare barriere razziali. Ma ci sono anche l’aborto o le identità di genere, volendo. Chi sta cavalcando l’onda delle guerre culturali è il confermato governatore della Florida, Ron DeSantis, possibile sfidante nel campo repubblicano in vista delle presidenziali 2024 di Donald Trump: siamo ancora in una fase ipotetica, ma in questi giorni è un gran mormorio attorno al GOP. Di DeSantis – che nel Sunshine State può vantare una folta schiera di sostenitori latini di origine cubana – si è parlato molto a settembre quando, nel pieno della campagna per la rielezione, ha spedito in aereo – davvero “spedito”: tipo pacchi postali – alcune decine di migranti, provenienti perlopiù dal Venezuela, a Martha’s Vineyard, rinomata località «liberal-chic» del Massachusetts, con la falsa promessa di un lavoro e di una sistemazione ad attenderli. DeSantis non è stato il solo: anche il governatore del Texas, Greg Abbott, ha riempito di migranti un paio di bus diretti a Washington, con fermata vicino alla casa della vicepresidente, Kamala Harris. La particolarità di DeSantis è che i migranti non sono partiti dalla Florida – al massimo qui hanno sostato temporaneamente in un secondo momento –, ma da San Antonio, Texas, quasi a mettersi in competizione con quelli che lo avevano preceduto nella trovata propagandistica contro le politiche migratorie ritenute troppo accomodanti dell’amministrazione Biden (alla lista dei buontemponi va aggiunto inoltre il governatore dell’Arizona, Doug Ducey). Non si fatica a collocare le provocazioni dei governatori repubblicani – la pratica ha ricordato quelle degli anni ‘60 negli Stati del Sud segregazionista, dove si organizzavano bus per i neri da trasferire più a nord, convincendoli delle migliori opportunità che avrebbero trovato altrove (le chiamavano Reverse Freedom Rides in contrapposizione ai Freedom Riders) – appresso alla retorica del muro al confine con il Messico, che dal 2016 ha accompagnato per diverso tempo la permanent campaign di Trump. Le questioni razziali in America sono come catene che sembrano impossibili da spezzare nonostante i progressi. E puntualmente ogni tornata elettorale, compresa l’ultima, sbatte in faccia una realtà dura da mandare giù.
All you Black folks, you must go
All you Mexicans, you must go
And all you poor folks, you must go
Muslims and gays, boy, we hate your ways
So all you bad folks, you must go– A Tribe Called Quest, We the People...., 2016
Altre cose interessanti
Ok, ok, non tutto è perduto: arriva pure qualcosa di inedito e interessante dalle elezioni di metà mandato, in attesa dei risultati definitivi.
Dove era in programma un referendum sul tema, ha vinto il diritto all’aborto.
Si è votato anche sull’abolizione della schiavitù. Sì, avete capito bene. Lo spiega, tra gli altri, Il Post.
Notti insonni per le midterm e altro, ma ce l’abbiamo fatta. La playlist ufficiale di Mookie è pronta: non resta che premere il tasto play. Dopodiché: domande? Suggerimenti? Potete rispondere alla mail, oppure scrivermi su Instagram, su Twitter o su Mastodon (che sto provando da qualche giorno, ma no, non sono in fuga da Twitter, almeno finché resisterà). Se Mookie vi piace, mandate il link alle amiche e agli amici: più siamo, più ci divertiamo!
Ci leggiamo tra due venerdì, a presto!