You Make Me Feel (Mighty Real)
La strana relazione tra complottismo e hip hop nell’America polarizzata
Quell’anno i Chicago White Sox non stavano andando granché bene. Allora Michael Veeck, figlio del proprietario della squadra, Bill Veeck, decise di “ingaggiare” Steve Dahl con l’obiettivo di promuovere le partite di baseball nel proprio stadio con i Detroit Tigers, che altrimenti rischiavano di essere un fiasco in termini di pubblico a causa della stagione per nulla esaltante. Dahl era un noto dj di musica rock che alcuni mesi prima era stato licenziato dalla radio in cui lavorava perché nel frattempo, con la disco music che scalava le classifiche, l’emittente aveva cambiato genere e palinsesti. Così il 12 luglio 1979, al Comiskey Park di Chicago (l’impianto fu poi demolito all’inizio degli anni ‘90), venne organizzata la Disco Demolition Night. In pratica fu concesso l’ingresso ad un prezzo ridotto – 98 centesimi – agli spettatori che avrebbero portato con sé un vinile di disco music da distruggere. L’iniziativa funzionò. Anzi, superò le attese: si presentarono in 50 mila circa, quando gli organizzatori contavano di attrarre al massimo 20 mila persone. All’intervallo Dahl prese una pila di vinili e la fece esplodere, decine di persone fecero invasione di campo – tutto questo al grido di disco sucks! –, intervenne la polizia, qualcuno fu arrestato, altri rimasero feriti. Quanto alla partita, inevitabilmente fu sospesa, dopodiché i White Sox persero di fatto a tavolino.
In seguito Dahl ridimensionerà la portata dell’evento, ma la Disco Demolition Night ebbe un reale impatto a cui ora possiamo associare almeno tre considerazioni. La prima è che, dopo quella sera, davvero la disco music cominciò a registrare una fase di declino. La seconda, sotto una lente di ciclica attualità, è che la vicenda può sembrare di per sé insignificante, ma è l’ennesima dimostrazione di quanto la polarizzazione sia una componente endemica dell’America, al netto di tutti gli sforzi volti a capire il come, il quando e il perché tale fenomeno abbia avuto inizio. La terza, infine, è strettamente legata alla precedente. Quando si occupa una posizione di rendita ormai consolidata, è più alto il rischio di applicare formule conservative che possano danneggiare gli altri, anche se è in ambienti in linea di principio progressisti che ciò avviene. Un giorno è disco sucks, un nuovo giorno è rap is crap: insomma, ci siamo capiti.
Ciao, sono Fabio Germani e questa è Mookie, una newsletter che ha la stramba pretesa di parlare di America attraverso il rap e la musica nera. In questa puntata azzarderemo un volo pindarico niente male, dalla polarizzazione negli Stati Uniti – era abbastanza chiaro, no? – ai complottismi (che affascinano anche gli artisti hip hop). Per qualsiasi suggerimento, potete rispondere alla mail. Un like è sempre ben accetto, ma lo sono a maggior ragione una condivisione di qua o di là e il passaparola: più siamo, meglio è.
La disco music occupa un capitolo importante nella storia della musica, statunitense e non. Con soul e funk divenne un’unica espressione, ma soprattutto, a cavallo tra i ‘70 e gli ‘80, è stata una rivoluzione culturale che ha permesso, tra le altre cose, di sdoganare luoghi e ritrovi per le comunità LGBTQ+, minoranze e le persone emarginate dai dogmatismi della società in generale. Non a caso è stato uno dei movimenti da cui è derivato l’hip hop, benché più avanti quest’ultimo prenderà una piega decisamente diversa. Ci è voluto un po’ prima di comprendere la rilevanza della disco music, solo che a quel punto era già troppo tardi. Nel frattempo, avvertita la presunta minaccia, chi supponeva di detenere il potere si era organizzato. Pensiamoci: non è anche la storia degli ultimi anni?
Continuiamo!
Parlando per sommi capi, gli americani vivono in modo quasi ossessivo ideali quali libertà e fiducia, concetti interpretati come un’esclusiva, qualcosa che altrove non puoi trovare allo stesso modo. Per dirla con la giornalista Anna Bressanin in What’s up America, la libertà «la mettono dappertutto» negli Stati Uniti: «La libertà – scrive – di non portare le mascherine, di non vaccinarsi, di andare al ristorante durante una pandemia, di comprare pistole al supermercato. Ma anche la libertà di fuggire da qualsiasi tipo di regime. E soprattutto, forse la più bella, la più importante: la libertà di reinventarsi, di diventare chi vuoi tu, come Don Draper in Mad Men e Jay Gatsby ne Il grande Gatsby, che si creano entrambi un'identità completamente nuova». Ma la libertà – e tutto il mondo è paese – spesso è anche una questione perimetrale, fatta di nimby e/o not in my name al bisogno. Perciò è qui che possiamo collocare la Disco Demolition Night del ‘79. Qualcuno paragonò il rogo di vinili a quello dei libri in momenti bui del passato. Esagerata o no, l’affermazione – roba che pure la cancel culture non è esattamente un’invenzione dei giorni nostri – restituisce comunque un’immagine veritiera in quanto oltreoceano la musica ha rappresentato da subito una dimensione totalizzante, un detonatore di rivoluzioni e cambiamenti.
La storia degli Stati Uniti è una storia innanzitutto di emancipazione dal Vecchio continente – “vecchio” in tutti i sensi nella prospettiva dei coloni –, ma anche di profonde divisioni interne, la somma delle diverse sensibilità e dei segmenti sociali che via via hanno plasmato “un’entità statunitense” per come la intendiamo oggi. In questo senso le questioni razziali o di genere sono il risultato di dinamiche definite, situazioni ostili e ampie porzioni di popolazione refrattarie allo scombussolamento delle proprie comfort zone. Ancora agli inizi del ‘900 – ben prima, cioè, che i metallari più incalliti iniziassero a giocare con la simbologia satanista o con altre macabre figure – il blues era chiamato musica del diavolo. In piena deriva mitopoietica, Robert Johnson fu un catalizzatore di credenze mistiche e dicerie assurde, ma in realtà l’equazione blues-musica-del-diavolo era un prodotto dell’epoca schiavile, quando – ricorda Amiri Baraka in Il Popolo del Blues del 1963 – gli schiavi neri erano considerati nient’altro che corpi privi di anima. Il blues si trascinava dietro il peccato originale di essere (stata), appunto, la musica degli schiavi, che poi a sua volta è un modo semplicistico di inquadrare il contesto, ma così era più o meno.
Early this mornin’
When you knocked upon my door
Early this mornin’ whoooo
When you knocked upon my door
And I said “hello Satan”
I believe it’s time to go– Robert Johnson, Me and the Devil Blues (Take 1), 1938
Dunque, una società votata alla polarizzazione fin dai suoi esordi, poteva non essere un concentrato di miti, false convinzioni e teorie del complotto?
Quello legato al complottismo è un tema che sta riemergendo a poche settimane dalle elezioni midterm di novembre. Lo vediamo nei rally di Donald Trump, dove partecipano seguaci – per meglio dire: persone che non hanno scrupoli a mostrarsi come seguaci – di QAnon, mentre è lo stesso ex presidente ad alzare l’asticella delle aspettative tra i fanatici irremovibili del variegato sottobosco dell’alt-right. La tendenza è derubricare il complottismo ad elemento folcloristico, a tratti persino divertente, ma è innegabile che di recente sia stato motivo di ulteriori fratture, aggravando la polarizzazione e costituendo le basi per episodi di insensata violenza. Un aspetto che non può essere trascurato, tanto più che moltissimi candidati repubblicani alle elezioni di metà mandato sono non solo trumpiani di ferro – una corrente a parte e apparentemente maggioritaria all’interno del partito –, ma anche, quasi tutti, sostenitori della teoria Stop the Steal (che già diversi guai ha provocato), secondo cui Trump nel 2020 sarebbe stato vittima di frode elettorale. La musica assume un ruolo centrale in scenari come questi.
Se da un lato esistono improvvisati MAGA rapper che mirano al Congresso, dall’altro c’è da osservare che il complottismo esercita spesso una fascinazione trasversale e negli anni ha coinvolto l’universo hip hop. Forse è opportuno usare il plurale complottismi, almeno per provare a capire la presa di alcune teorie in determinati ambienti, come nel caso dei Five Percenters negli anni ‘60. Oppure i sospetti e la diffidenza, duri a sparire, verso il sistema sanitario, quello educativo e le politiche residenziali.
Restando invece nell’ambito del complottismo più autentico, nel 1995 Prodigy dei Mobb Deep se ne uscì in questo modo nel remix di I Shot Ya di LL Cool J:
I conversate with many men (What), it’s time to begin again
Forgot what I already knew, ayo, you hear me friend?
Illuminati want my mind, soul and my body
Secret society, trying to keep they eye on me (Nah, nah)
But I’ma stay incogni’, in places they can’t find me– LL Cool J feat. Keith Murray, Prodigy, Fat Joe & Foxy Brown, I Shot Ya (Remix), 1995
Il passaggio sugli Illuminati di Prodigy – una questione su cui il rapper morto nel 2017 non ha mai smesso di argomentare – piacque talmente a JAY-Z che l’anno successivo lo inserì in D’Evils, traccia prodotta da DJ Premier, dando il via ad una lunga serie di congetture sul suo conto, tipo l’essere un esponente di spicco della società segreta fondata nel ‘700 in Germania e che alcuni ritengono ancora operativa con ambizioni di dominio attraverso l’instaurazione di un nuovo ordine mondiale. Chiaramente, a un certo punto, la cosa ha riguardato anche Beyoncé, finché i due non hanno rifiutato pubblicamente le etichette appioppate loro (con scarsi risultati, va detto…):
Go to Hell, this is God engineering
This is a Hail Mary pass, y’all interfering
He without sin shall cast the first stone
So y’all look in the mirror, double-check your appearance
Bitch, I said I was amazing
Not that I’m a Mason
It’s amazing that I made it through the maze that I was in
Lord forgive me, I never would’ve made it without sin
Holy water, my face in the basin
Diamonds in my Rosary shows He forgave him– Rick Ross feat. JAY-Z, Free Mason, 2010
Y’all haters corny with that Illuminati mess
Paparazzi, catch my fly and my cocky fresh
I’m so reckless when I rock my Givenchy dress (Stylin’)
I’m so possessive so I rock his Roc necklaces– Beyoncé, Formation, 2016
Anche il disco postumo di Tupac, The Don Killuminati: The 7 Day Theory, ha suscitato non poche elucubrazioni sui possibili significati, al di là dei “misteri” che fan e complottisti continuano a far ruotare attorno alla sua morte.
In un paper del 2011 intitolato Counterknowledge, Racial Paranoia, and the Cultic Milieu: Decoding Hip-Hop Conspiracy Theory, Travis L. Gosa della Cornell University propone un’interessante chiave di lettura: le idee cospirative di tanto in tanto rintracciabili nella cultura hip hop celerebbero piuttosto una sfida alla disuguaglianza. L’hip hop, sostiene, è per sua stessa natura uno strumento alternativo al sistema dei media tradizionali, che al pensiero cospiratorio, quando evidente, lega la sua funzione di denuncia in un più esteso quadro di emarginazione e svantaggi razziali. Ciò che nell’eccezionalità è vero sempre, qualsiasi sia lo strato sociale di provenienza, nell’hip hop è talvolta una condizione addirittura normale.
It’s the New World Order, the theories was right
Killuminati, it’s the new Illuminati [...]Killuminati, and fuck Bill O’Reilly and Rudy Giuliani
Nigga we the new illuminati– Jay Electronica, New Illuminati, 2020
Quella di Gosa può sembrare una conclusione indulgente, ma non è troppo dissimile dalle osservazioni di Imani Perry, professoressa di Studi afroamericani alla Princeton University, nel suo testo del 2004, Prophets of the Hood, dove, citando altri studiosi, afferma che la vita criminale messa in scena nell’hip hop è una risposta individualista all’esperienza afroamericana, che include il senso di opposizione a norme che colpiscono indistintamente le comunità nere e l’insieme di scelte compiute nella creazione di valori alternativi a quelli abbracciati dalla società statunitense.
Una questione di “noi” e loro”, al solito, nell’America polarizzata.
Beware, but prepare for the polarization, it’s the globalization
Warn all the clergymen and notify Satan
I been waiting, this the notarization, I been patient– Jay Electronica feat. JAY-Z, Road To Perdition, 2016
Altre cose interessanti
A proposito di Illuminati – si scherza ovviamente –, Rihanna si esibirà all’Halftime Show del Super Bowl 2023.
E a proposito – stavolta sul serio – di Super Bowl, un consiglio (non richiesto) di lettura: il Washington Post ha pubblicato un’inchiesta sulla scarsissima presenza di allenatori neri nella NFL nonostante l’impegno della lega in una direzione più inclusiva.
È morto a 59 anni il rapper Coolio. Non uno dei più grandi, ma ha avuto tanti meriti. Con la sua hit Gangsta’s Paradise (e già prima con Fantastic Voyage) contribuì nei ‘90 alla diffusione su larga scala del rap, ed è un peccato che in definitiva sia ricordato soprattutto per questo. Nel 2006 pubblicò un album con un’etichetta italiana, la Subside Records. Il ritratto del New York Times. Qui una sua intervista del 1998 al Los Angeles Times.
Hip hop e disco music secondo Coolio:
Newsletter lunga, spero non noiosa. Se state leggendo queste ultime righe, congratulazioni! No, non c’erano premi in palio, solo tanta, tanta gratitudine. Intanto su Spotify trovate la playlist ufficiale di Mookie, pronta con gli aggiornamenti della puntata. Per il resto, sapete già com’è che funziona: domande? Suggerimenti? Potete rispondere alla mail, oppure scrivermi su Instagram o su Twitter. Se Mookie vi piace, mandate il link alle amiche e agli amici!
Ci leggiamo tra due venerdì, a presto!