Quando nel 1989 uscì 3 Feet High And Rising dei De La Soul si era da poco concluso il passaggio presidenziale da Ronald Reagan a George H. W. Bush, una transizione che più repubblicana non si poteva (oltretutto Bush era stato il vice di Reagan). Sempre nel 1989, a poca distanza dai sorprendenti tentativi di Jesse Jackson di arrivare alla Casa Bianca, un politico nero cresciuto ad Harlem di nome Ron Brown diventava per la prima volta capo del Comitato nazionale democratico (nel 1993 venne poi nominato segretario al Commercio da Bill Clinton e anche quella fu una prima volta). L’anno precedente gli N.W.A. avevano scandalizzato l’America puritana al culmine di un processo avviato all’inizio del decennio che aveva visto il rap trasformarsi da I said a-hip, hop, the hippie, the hippie / To the hip, hip hop-a and you don’t stop the rock della Sugarhill Gang a The Message di Grandmaster Flash and the Furious Five, con l’intervallo di Kurtis Blow, pioniere di un genere ora più incline alle vendite. Gli ‘80 erano stati anche gli anni delle accomodanti black sitcom – ad esempio The Jeffersons e The Cosby Show (che in Italia abbiamo conosciuto come I Robinson) –, eredi di Good Times e concettualmente lontane dallo scenario tipico della blaxploitation. Poi arrivarono Family Matters e The Fresh Prince of Bel-Air a condurci nei ‘90, ad una manciata di metri dal futuro. In questo senso i De La Soul, con il loro rap tanto riflessivo quanto ironico, si mostrarono subito per ciò che erano: il collante di vecchia e nuova scuola. O, se vogliamo, il collante tra la reaganomics e tutto quello che sarebbe successo più avanti, dal pestaggio di Rodney King a Clinton che suona il sax da Arsenio Hall.
Prima di cominciare, devo delle scuse. Si era detto, alla ripresa (peraltro tardiva) di febbraio, che ci saremmo letti ogni due venerdì come di consueto. Così non è stato: cause di forza maggiore hanno bloccato l’invio della newsletter in programma due settimane fa, o almeno questa è la scusa più immediata e paracula. La “puntata che non è stata” verrà comunque recuperata presto. Qui parleremo invece dei De La Soul: si era capito, no?
Come avrete notato dai millemila annunci sui social, la loro discografia risalente agli anni della Tommy Boy Records è finalmente approdata sulle piattaforme di streaming. I De La Soul hanno avuto diversi problemi con la Tommy Boy e questo ha impedito fino ad oggi la diffusione di ben sei album – 3 Feet High and Rising (1989), De La Soul Is Dead (1991), Buhloone Mindstate (1993), Stakes Is High (1996), Art Official Intelligence: Mosaic Thump (2000), AOI: Bionix (2001) –, escluso un sussulto a febbraio 2014 quando li resero disponibili in free download per 25 ore. Risolte le beghe legali, il ritorno sulla scena avrebbe dovuto rappresentare una sorta di rinascita artistica (meglio «reintroduzione») per il trio composto da Posdnuos, Trugoy the Dove e Maseo. Il condizionale deriva dal fatto che purtroppo, da qualche settimana, i De La Soul non sono più un trio. David Jude Jolicoeur, Trugoy the Dove, è morto il 12 febbraio all’età di 54 anni per problemi cardiaci.
Il 1989, l’anno di debutto del gruppo proveniente da Long Island, fu uno snodo fondamentale, la congiunzione di due decenni che hanno segnato cambiamenti profondi nella società statunitense, stretta tra lo sviluppo tecnologico e le crisi economiche che si pensavano ormai alle spalle, dunque persuasa che l’età dell’oro era imminente e che nessuno sarebbe più rimasto indietro. Forse tanto del recente disincanto è il risultato di quella fase storica e delle sue promesse mantenute solo in parte. O forse c’è dell’altro, ma non è il caso di starci a dilungare.
Al solito: grazie di leggere Mookie. Mookie è una newsletter che ha la stramba pretesa di raccontare pezzi sparsi di America attraverso la musica nera e il rap. Potete sostenere questo umile lavoro con un like, le condivisioni e il passaparola: più siamo, più ci divertiamo.
Il 2 novembre 1983 il presidente Reagan firmò la legge che istituiva il MLK Day, festività che si cominciò a celebrare a partire dal 1986 in un percorso a tappe culminato soltanto nel 2000, quando la osservarono tutti e 50 gli Stati. Ma tortuoso (e lungo) fu anche il percorso che precedette quella firma, con lo stesso Reagan dubbioso circa i sentimenti verso una festa federale dedicata a Martin Luther King e protagonista di spiacevoli polemiche al riguardo. In più, nel 2019, è emersa una vecchia registrazione di una conversazione telefonica avvenuta nel 1971 tra Reagan – già governatore della California – e l’allora inquilino della Casa Bianca, Richard Nixon. Durante il colloquio, Reagan si lasciò scappare un commento razzista ai danni dei delegati di diversi paesi africani che il giorno prima avevano votato a favore del riconoscimento all’ONU della Repubblica popolare cinese contro il parere degli Stati Uniti che invece erano sostenitori del governo della Repubblica di Cina a Taiwan. Ma oltre il razzismo più o meno dichiarato – del resto era un problema frequente per la classe politica, repubblicana e democratica, di quel periodo: anche uno come Jimmy Carter, che pure ottenne un larghissimo consenso proprio tra gli elettori neri, aveva saputo destreggiarsi tra le vecchie conoscenze del Sud segregazionista –, il conto aperto di Reagan con i neri americani ha a lungo riguardato l’impatto delle misure economiche varate dalla sua amministrazione e ribattezzate nel loro insieme reaganomics, ancora oggi argomento di dibattito pubblico e di studio.
I’m drivin’ on E with no license or registration
Heart racin’, racing past Johnny because he’s racist
1987, the children of Ronald Reagan
Rake the leaves off your front porch with a machine blowtorch– Kendrick Lamar, Ronald Reagan Era, 2011
La visione reaganiana sulla scia del motto let’s make America great again era una risposta indiretta alle crisi petrolifere degli anni ‘70 (con gravi conseguenze su inflazione e mercato del lavoro) e al discorso sul malessere di Carter del 1979. C’era da ricostruire il sogno americano e l’amministrazione Reagan approvò nell’arco dei due mandati una serie di provvedimenti sommariamente volti a ridurre la spesa, abbassare l’inflazione attraverso politiche monetarie mirate, tagliare le tasse e promuovere la deregolamentazione («Government is not the solution to our problem, government is the problem»). L’obiettivo era creare nuovi posti di lavoro e aumentare la crescita economica: peccato che mentre qualcuno giovò di tali accorgimenti, altri rimasero ai margini di quella che nelle intenzioni sarebbe dovuta essere, giustappunto, una risalita corale. I divari tra famiglie bianche e nere rimasero ampi. Come riportò il New York Times alcuni anni dopo, sulla base del censimento del 1990, il reddito medio nel 1989 si attestava a 31.435 dollari per le prime e a 19.758 dollari per le seconde, ma in generale, a livello locale, le disparità erano talvolta risultate più elevate dei valori nazionali. Tutto questo si associò ad un deterioramento della qualità dell’istruzione e dei servizi essenziali per i segmenti demografici più vulnerabili e, per tanti lavoratori, a prolungati cicli di sottoccupazione. Infine a complicare le cose, nonostante la cosiddetta guerra alla droga iniziata da Nixon e per giunta inasprita da Reagan dopo la più conciliante parentesi Carter, fu l’impennata dell’uso di crack, un’epidemia in piena regola che lasciò agonizzanti i quartieri a maggioranza nera delle grandi metropoli.
Nah, no my brother, no my sister
Try to get hip to this
Word, word to the mother
I’ll tell the truth so bear my witness
Fly like birds of a feather, drugs are like pleather
You don’t wanna wear it
No need to ask that question, just don’t mention
You know what the answer is
Now I never fancied Nancy but the statement she made
Held a plate of weight, I even stressed it to Wade
Did he take any heed? Nah, the boy was hooked
You could’ve phrased the word “Base” and the kid just shook– De La Soul, Say No Go, 1989
La realtà di fatto era alquanto diversa dalla rappresentazione in chiave sitcom della crescente, seppure esigua, classe borghese afroamericana. Di contro, in Do the Right Thing, Spike Lee proiettava in scala, collocandola a Brooklyn, la frattura sociale dell’America (per non sbagliarsi: era il 1989). Ad accompagnarlo nella raffigurazione più spietata di quegli anni c’erano i Public Enemy.
Nell’ottica del rap di protesta, schiacciati tra Fuck tha Police, Fight the Power e i Boogie Down Productions, i De La Soul apparvero tipo alieni. Il portamento da bravi ragazzi («i fratelli neri della porta accanto», semicit. David Foster Wallace e Mark Costello in Il rap spiegato ai bianchi) e i testi votati all’amore e alla pace permisero al gruppo – quasi un quartetto con la presenza fissa nei primi dischi del produttore Prince Paul – di attrarre su di sé la simpatia trasversale del pubblico. Se da un lato i puritani erano turbati dalle invettive degli N.W.A. o dalla militanza politica dei Public Enemy, dall’altro i fan bianchi dell’hip hop erano sempre più numerosi grazie alle trovate rockettare dei Run DMC e dei Beastie Boys. Dunque i De La Soul furono catapultati con abilità dalla loro etichetta, la Tommy Boy Records, all’interno di un mercato discografico non confinato ai soli quartieri neri e, specie tra i giovani, rap addicted. Tuttavia, ricordano Wallace e Costello, i De La Soul non mancavano di fare «parodie sorridenti dei coglioncelli bianchi», evidentemente presi troppo sul serio per comprenderne il grado d’ironia che si celava dietro un affresco che conoscevano bene, venendo da una cittadina suburbana dello Stato di New York come Amityville. Per i De La Soul fu però un’arma a doppio taglio che li introdusse in un vortice perpetuo di interpretazioni di convenienza. Il linguaggio nuovo di zecca (in pratica uno slang che era marchio di fabbrica), l’estetica sgargiante con i fiori, i simboli della pace, D.A.I.S.Y. Age e tutto il resto, contribuirono, infatti, a cucire loro addosso quest’immagine patinata neo-hippy, da cui proveranno a distanziarsi nel successivo album, De La Soul Is Dead del 1991.
Now you tease my Plug One style
And my Plug One spectacles
You say Plug One and Two are hippies
No we’re not, thats pure plug bull
Always pushing that we formed an image
There's no need to lie
When it comes to being Plug One
It’s just me myself and I– De La Soul, Me Myself and I, 1989
Di sicuro il liricismo del trio si discostava dalla mascolinità nera del rap contemporaneo. Ma il contenuto afrocentrico dei testi e la condivisione di valori con gruppi quali Jungle Brothers e A Tribe Called Quest – che insieme formeranno la Native Tongues –, nonché la capacità di sviluppare un racconto indifferente agli stereotipi più diffusi, erano un lavoro in prospettiva e la dimostrazione della miopia che caratterizzò i primi passi della loro esistenza artistica. Ghetto Thang è a tutt’oggi una preziosa testimonianza delle percezioni al di fuori del rinnovato ed elitario sogno americano di fine anni ‘80.
Standing in the rain is nothing felt
When problems hold more value, but never dealt
With buildings crumbling to the ground
Impact noise is solid sound
But who’s the one to say this life is wrong
When ghetto life is chosen strong
We seem to be misled about our dreams
But dreams ain’t what it seems
When it’s just the ghetto thang– De La Soul, Ghetto Thang, 1989
Nel 1999 il Pew Research Center intervistò i cittadini americani sui progressi, le tendenze e i ricordi relativi al XX secolo. Colpisce il dato sugli anni ‘80, che all’epoca della rilevazione non suscitarono particolare nostalgia in termini di riferimenti culturali o politici. In effetti gli ‘80 sono stati un periodo rivalutato solo di recente e anche l’industria musicale li ha riscoperti da poco. Non si può certo negare, ad ogni modo, che quel decennio non abbia avuto un impatto notevole, non per forza in una direzione positiva, sulle vite di molte persone. Sono stati anni spartiacque – le ragioni sarebbero innumerevoli da elencare, perciò consideriamolo fatto –, un momento di ripresa economica, gonfiata da vizi e stravaganze in grado di illudere l’umanità che tutto è possibile, tutto è alla nostra portata (Millennial all’ascolto, unitevi!). Gli ‘80 determinarono inoltre il transito da una cosa nascosta e immatura, che si faceva in strada, nei parchi o negli edifici abbandonati, ad un movimento globale. La generazione hip hop era cresciuta e i De La Soul spalancarono la porta al futuro. Il resto è storia.
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Immagino lo abbiate già saputo, ma io sono qui apposta per i ritardatari: Kendrick Lamar si esibirà all’Arena di Verona il 17 luglio, unica data italiana. Occhio ai prezzi.
Una notizia importante che arriva da Chicago, dove martedì si è votato il primo turno delle elezioni municipali. La sindaca uscente Lori Lightfoot è arrivata terza e non potrà accedere al ballottaggio. Qualcosa del genere non capitava – indovinate? – dal 1989. Qui per approfondire.
È morto a 89 anni Wayne Shorter, innovatore del jazz.
Ammetto di avere scritto questa puntata con un doppio stato d’animo: 1) la speranza che i De La Soul possano essere finalmente scoperti dai più giovani che ancora non li conoscono e 2) l’amarezza per la morte di Trugoy, nel più crudele dei destini. La playlist su Spotify è pronta e ricca di canzoni, un concentrato di storia del rap anni ‘80: a voi non resta che premere il tasto play. E per concludere, le care, vecchie abitudini: domande? Suggerimenti? Potete rispondere alla mail, oppure scrivermi su Instagram, su Twitter o su Mastodon. Se Mookie vi piace, mandate il link alle amiche e agli amici!
Allora, riproviamo? Stavolta niente scherzi! Ci leggiamo tra due venerdì, a presto!
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