Ciao! Questa è Mookie, una newsletter che parla di America, di musica nera e hip hop, ma soprattutto di America. Mookie esiste dal 5 giugno 2020, dapprima su Medium, ora su Substack. Perché proprio “Mookie”? Beh, la risposta dovrebbe essere scontata, no?
L’archivio con tutte le puntate già pubblicate è consultabile qui, o qui volendo, dove era in origine. Un caro saluto ai vecchi iscritti – grazie di essere ancora all’ascolto – e benvenuti a tutti gli altri: vi si vuole bene.
Salutarci ci siamo salutati, cominciamo? Cominciamo.
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Nel 2014, per i 30 anni dei Robinson – che poi erano gli Huxtable e il titolo originale The Cosby Show –, Alessandro Sala scriveva sulle pagine del Corriere della Sera che questi «telefilm ci hanno insegnato inconsciamente a non essere razzisti». Ci sarebbero almeno un paio di motivi per provare ad essere d’accordo con lui, ma qualcuno in più per dissentire (soprattutto se si prosegue nella lettura dell’articolo). In ogni caso è difficile riconoscere che sia stata la famiglia Robinson a non renderci dei suprematisti bianchi, ma su una cosa potremmo dirci più sicuri: alcuni anni dopo, Willy, il principe di Bel-Air è stata la prima sitcom a portare l’hip hop nelle nostre case.
Di recente potrebbe esservi capitato di parlare con qualcuno del “principe di Bel-Air”, o di avere condiviso online gif della Carlton dance. La sitcom è presente nel catalogo di Netflix da luglio dello scorso anno – all’annuncio su Facebook i commenti entusiasti degli ex ragazzini che all’epoca andavano pazzi per Willy si sprecarono –, mentre nemmeno un mese fa, negli Stati Uniti, HBO Max ha trasmesso uno speciale con il cast al completo per festeggiare i 30 anni dal primo episodio. Willy lo svitato è perciò tornato di attualità (c’è anche un aggiornatissimo account Instagram ufficiale), in quella che è stata una sacrosanta operazione di marketing nostalgico, come spesso capita quando c’è di mezzo un anniversario importante.
Alcune cose che potevano apparirci tipo aliene, le apprendemmo da Willy. Certo, non tutti erano totalmente ignari della rivoluzione culturale che stava arrivando dagli Stati Uniti, ma come Soul Train nel 1971 – ok, allacciate le cinture di sicurezza: il paragone è forte – anche Willy, il principe di Bel-Air ha avuto il merito di introdurci in un mondo parallelo, di cui magari avevamo sentito parlare, ma che nella realtà dei fatti non conoscevamo. Soul Train – per dare un tono alla ricostruzione storiografica che stiamo azzardando – portò la musica nera nei salotti bianchi d’America. Non sempre e non ovunque, ma il programma ebbe un impatto incredibilmente innovativo. Questlove in Soul Train: The Music, Dance, and Style of a Generation (2013) sottolinea come in quel momento lo show abbia prodotto «una sorta di magia unificante in uno dei periodi più tesi e incerti della storia afroamericana, con gli omicidi di Martin Luther King Jr. e Robert Kennedy». Vivendo in una società segregata, in quegli anni i bianchi imparavano a conoscere gli stili di vita degli afroamericani più dalle immagini che i media mostravano loro che non attraverso le relazioni interpersonali. Per l’hip hop, in un modo del tutto naturale, fu più o meno lo stesso percorso, figurarsi dall’altra parte dell’oceano. Nel 1993, quando cioè vedemmo il primo episodio di Willy, il principe di Bel-Air, già si stava delineando una scena italiana, ma era soprattutto roba per appassionati b-boys e b-girls. Willy fece ascoltare il rap ai tanti, tra noi, che erano a digiuno o quasi, mentre il suo amico Jazz (DJ Jazzy Jeff) scratchava sul giradischi dello zio Phil, con le esilaranti conseguenze che ricordiamo benissimo.
Il rap era costantemente citato, diciamo così (nella prima stagione c’è anche un cameo di Heavy D). Lo zio Phil, a inizio serie, ammette in una discussione con Will che parents just don't understand, riprendendo il titolo di un famoso pezzo del 1987 non a caso di DJ Jazzy Jeff & The Fresh Prince (la traduzione in «Willy, il più delle volte i genitori non capiscono un bel niente» era poco efficace e non permetteva agli spettatori italiani di comprendere il riferimento in maniera immediata).
Inutile girarci intorno: è assai probabile che il nostro primo approccio con quest’arte estemporanea, escludendo Jovanotti for President, sia avvenuto grazie a Willy, il principe di Bel-Air.
The Fresh Prince of Bel-Air è arrivata in Italia con circa tre anni di ritardo rispetto all’esordio americano nel 1990, un po’ prima di quello che anche qui da noi sarebbe divenuto uno dei processi più seguiti all’epoca – il caso O. J. Simpson – e un po’ dopo le immagini di guerriglia urbana a Los Angeles, che ci fecero aprire gli occhi sulle tensioni razziali negli Stati Uniti. Willy fu perciò il ponte tra alcune delle vicende più drammatiche in America, forse le prime che osservammo con un certo grado di interesse. All’incirca, prendendo in prestito le parole di David Foster Wallace e Mark Costello in Il rap spiegato ai bianchi, con questo stato d’animo qui: «Ogni pubblico ha in effetti due facce: quella incantata perché finalmente sente che qualcuno gli racconta la sua storia, quella incantata perché finalmente sente una storia così assolutamente scissa dalla propria da sembrare assurda».
Nel 1990 tutto questo non era ancora successo, ma The Fresh Prince of Bel-Air presentava qualcosa di diverso rispetto alla maggior parte delle black sitcom che l’avevano preceduta. Dai Jefferson a Otto sotto un tetto (Family Matters), tutte proponevano il medesimo filo conduttore: c’era la volontà di rappresentare in chiave comica una crescente, seppure esigua, classe borghese afroamericana, una presa di distanza dagli anti-eroi della blaxploitation, un’esibizione di “altro” che fosse distante anni luce dai cliché droga, violenza e papponi. Erano storie più innocenti di quelle cui siamo abituati oggi sulla brutalità poliziesca, il razzismo sistemico e la gentrificazione. Non erano Atlanta, per capirci, dove pure non manca un’ironica interpretazione narrativa, né celavano particolari elementi simbolici come avviene anche in Marvel’s Luke Cage (ad esempio il cappuccio della felpa che Luke tiene sopra la testa prima di passare all’azione: un tributo a Trayvon Martin). In definitiva la serie prodotta da Quincy Jones ricalcava il solito schema della famiglia nera benestante, mettendo però a nudo un contesto sociale che continuava a mostrare delle crepe.
Poco tempo prima gli Stati Uniti avevano sperimentato, con risultati alterni, il cosiddetto busing. A lungo la faccenda è rimasta ai margini del dibattito pubblico, ma nell’estate del 2019 è tornata improvvisamente al centro dell’agenda politica. Durante un confronto televisivo tra candidati in vista delle primarie democratiche, Kamala Harris attaccò duramente Joe Biden – esatto: il futuro ticket presidenziale – per essere stato in passato contrario al desegregation busing. Biden tentò una difesa, ma è vero che sul provvedimento espresse dei dubbi e prese delle decisioni in direzione opposta, diversi anni fa. Ma cosa era questo busing? Si trattava di una pratica adottata all’inizio su base volontaria e in seguito, negli anni ‘70-‘80, stabilita dai tribunali federali il cui obiettivo era il recepimento della Brown v. Board of Education del 1954, una sentenza della Corte Suprema volta ad eliminare la segregazione di fatto. Consisteva nel rafforzamento del servizio bus per gli studenti al di fuori dei propri distretti, in modo da favorire una composizione più equa nelle scuole. Nei giorni della polemica, Nikole Hannah-Jones ricordò sul New York Times Magazine che in verità, nonostante una retorica avversa, il busing contribuì, eccome, a migliorare l’integrazione scolastica dei bambini afroamericani negli Stati del Sud. Tuttavia, negli Stati e nelle città in cui il busing era in vigore, le famiglie bianche manifestarono la loro contrarietà, trincerandosi dietro alla scusa delle scuole di quartiere – perché i figli avrebbero dovuto allontanarsi così tanto da casa? – e alimentando nuove forme di segregazione (le scuole nei quartieri prettamente bianchi erano/sono *nella norma* di qualità superiore, quindi un riflesso della segregazione residenziale). A Boston, una delle città più riluttanti alla pratica, il busing andò avanti almeno fino al 1989. Secondo Matthew Delmont, autore del libro Why Busing Failed: Race, Media And The National Resistance To School Desegregation (2016), basterebbe ridisegnare i distretti scolastici nelle città per superare gli ostacoli che oggi persistono, ma la scarsa volontà politica e la paura del cambiamento sono il principale freno allo sviluppo di un sistema più inclusivo.
Quelli, inoltre, erano ancora gli anni della war on drugs senza quartiere, una campagna federale avviata esplicitamente dal presidente Nixon, i cui effetti, per molti versi devastanti, hanno contribuito a creare ulteriori diseguaglianze nel paese. Viene da sé che il tema dell’integrazione era una specie di hidden track all’interno di Willy, il principe di Bel-Air. Nella sitcom, infatti, emergeva spesso una dicotomia tra i personaggi, in particolare Willy e suo cugino Carlton: il primo, il ragazzo che viene dai playground di Philadelphia; il secondo, l’ingenuo rampollo che frequenta le migliori scuole di Bel-Air. Una contrapposizione visibile già al sesto episodio della prima stagione. I due ragazzi vengono arrestati, senza alcuna accusa formale, ma semplicemente perché alla guida, lontano da casa, di una Mercedes che non era la loro, ma di un collega dello zio Phil. Gli agenti, temendo un caso di furto d’auto, decidono di prendere in custodia Willy e Carlton, i quali passeranno le ore successive in cella, tra gag e incontri improbabili. Dopo il rilascio, di nuovo a casa, i cugini hanno un acceso confronto. Carlton è convinto che in fondo gli agenti abbiano solo svolto il loro dovere, mentre Willy, più scafato, non accetta questa versione.
Ora ho capito, ci hanno fermato perché guidavamo troppo piano. Abbiamo superato il “limite di lentezza”. Strano, non l’avevo mai sentito prima. Invece conosco un’altra regola: «Se vedi un nero a bordo di qualcosa che non sia un’auto scassata, fermalo, perché l’avrà sicuramente rubata». Sì, ne ho sentito parlare. Ma vedi, pensavo fosse la legge dell’uomo nero, mentre si trattava della legge del “limite di lentezza”. Grazie, è tutto più chiaro.
Sono passati 30 anni, eppure sembra di essere inchiodati allo stesso punto. Le testimonianze – anche di più estreme – raccolte dal giornalista Wesley Lowery in They Can't Kill Us All: The Story of Black Lives Matter (2016) durante le proteste di Ferguson del 2014, scoppiate a seguito dell’uccisione di Michael Brown, confermano a distanza di tempo la percezione diffusa di una polizia che si comporta in modo ingiusto nei confronti di afroamericani e altre minoranze. Non va dimenticato, poi, che nel 1990 poteva capitare di ascoltare agli angoli delle strade statunitensi un grido di ribellione – in qualche misura legittimato dagli atteggiamenti ritenuti sproporzionati – che da più di un anno stava suscitando parecchio nervosismo nella polizia, a scapito specialmente di giovani afroamericani.
A Boston i veri poliziotti bianchi confiscano illegalmente i pezzi degli N.W.A. che parlano di quanto sono stronzi i poliziotti bianchi. In alcune grandi città è ormai procedura standard per la polizia fermare e perquisire ogni macchina con un nero alla guida dal cui stereo provengono brani degli N.W.A.
–David Foster Wallace, Mark Costello, Signifying Rappers: Rap and Race in the Urban Present (1990)
Infine, in The Fresh Prince of Bel-Air merita una menzione anche la politica. Ma detto tra noi, un po’ come sopra, il momento più iconico è rappresentato dalla spiegazione a quella strana sensazione di déjà vu che abbiamo provato negli ultimi quattro anni.
Non vi pare?
Georgia On My Mind/2 e mezzo
Dunque, lunedì 7 dicembre la Georgia ha confermato – dopo l’ennesimo riconteggio – la vittoria di Joe Biden su Trump alle presidenziali di novembre. Lo stesso giorno, nello Stato, si sono chiuse le operazioni di registrazione alle liste elettorali per votare ai ballottaggi del 5 gennaio: in palio ci sono i due seggi che determineranno la maggioranza al Senato. Perché la Georgia è tanto importante? Qui potete rileggere la puntata della scorsa settimana in cui proviamo a spiegarlo.
Altre cose interessanti
JAY-Z è ufficialmente entrato nel mercato della cannabis legale, lanciando il suo prodotto di fascia alta, Monogram, in collaborazione con la società californiana Caliva. Inoltre è stato nominato Chief Visionary Officer di TPCO, una holding che opera nel settore. La vicenda è interessante perché, come notava Dan Rucie un paio di settimane fa nella sua newsletter Trapital, mentre milioni di neri sono ancora dietro le sbarre per questioni legate alla marijuana, le persone che finora hanno maggiormente tratto profitto dalla legalizzazione della cannabis non sono nere. Il tema è fondamentale e ne racchiude molti altri, che affronteremo in futuro.
La triste storia di Brandon Bernard è, purtroppo, una storia drammaticamente americana.
Prima di lasciarci, un’informazione a questo punto di vitale importanza. A quanto pare Willy, il principe di Bel-Air sarà disponibile su Netflix fino al 30 dicembre, perciò affrettatevi se avete intenzione di recuperare qualche episodio. Comunque, per qualsiasi suggerimento o critica, sono qui. Potete rispondere direttamente a questa mail, se vi va. Ah, abbiamo anche un profilo Instagram da alcuni giorni. Poi, che bello, sotto c’è il tasto per la condivisione (di là mica c’era). Se tutto questo è stato (ed è) di vostro gradimento, consigliate Mookie ad amici, fidanzate e fidanzati, mogli, mariti, lontani parenti, chiunque.
Passate un buon weekend, ma senza abbassare la guardia, mi raccomando, che non è ancora il caso. Noi ci ritroviamo la prossima settimana, a presto!