Domenica 11 febbraio si giocherà all’Allegiant Stadium di Las Vegas il Super Bowl LVIII, la finale NFL tra i San Francisco 49ers e i Kansas City Chiefs di Patrick Mahomes, campioni in carica. Da quando è fidanzata con Travis Kelce, i Kansas City Chiefs sono ormai la squadra anche di Taylor Swift. La cantante è sulla bocca di tutti e suo malgrado al centro di teorie del complotto – diffuse nei soliti ambienti – che definire sopra le righe è il minimo. Ma non è di Taylor Swift che parleremo, non dell’impatto economico che sembra avere la sua presenza alle partite, né della potenziale rilevanza in termini elettorali che ricopre, ammesso che sia corretto attribuire ad un’unica persona responsabilità così grandi.
Un altro aspetto avrebbe potuto rendere ancora più interessante la finale del campionato di football: l’eventuale partecipazione dei Detroit Lions.
Molti fan dei Lions ammettono di aver visto nella loro vita più sconfitte che vittorie. Non a caso i Lions sono tra le poche franchigie NFL a non aver mai disputato un Super Bowl. Il fatto che quest’anno ci siano andati tanto vicino – all’ultimo sono usciti sconfitti dalla gara contro i 49ers – ha generato in città enorme entusiasmo e un importante giro di affari, in particolare tra le attività come i bar e i ristoranti nei pressi dello stadio. Lo ha raccontato pure il New York Times, ma nel farlo pare abbia dimenticato di citare le imprese di proprietà dei neri. Il seguitissimo giornalista Philip Lewis ha scritto che si tratta di una grossa svista per il NYT, data la composizione demografica di Detroit, dove oltre il 75% degli abitanti è nero. In effetti la distrazione del New York Times un pochino stride con la cura che invece più di recente aveva riservato a determinate questioni, attirando critiche più o meno pretestuose soprattutto da destra. Che la polemica abbia senso o no, questa è la classica punta dell’iceberg.
Ingaggiate dapprima da Donald Trump, le cosiddette guerre culturali sono diventate prioritarie a livello locale, specialmente negli Stati a guida repubblicana. Il governatore della Florida, Ron DeSantis, le ha rese una battaglia personale, poi sfociata nella sgangherata campagna elettorale per la nomination a candidato presidente, finché ha potuto. Di solito sono un cavicchio per litigare e fare rumore, altre volte celano ragioni profonde, comunque sono un elemento da non trascurare nell’America – perdonerete l’abusata espressione – “polarizzata”.
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Erykah Badu ha voluto mettere le cose in chiaro, un anno fa: la parola woke «non ci appartiene più» e troppo spesso viene utilizzata in maniera strumentale. Era logico sentirlo dire da lei, che alla vigilia degli anni ‘10 del Duemila “rispolverò” un antico concetto maltrattato dalla retorica corrente.
Even if your baby ain’t got no money
To support ya baby, you
(I stay woke)
Even when the preacher tell you some lies
And cheatin’ on your mama, you stay woke
(I stay woke)
Even though you go through struggle and strife
To keep a healthy life, I stay woke
(I stay woke)
Everybody knows a black or white, there’s c
Creatures in every shape and size
(I stay woke)– Erykah Badu, Master Teacher, 2008
L’idea di stare svegli risale alla stagione dei diritti civili, anche se c’è chi ritiene che sia addirittura precedente. Con woke si voleva indicare la consapevolezza politica e sociale, quasi fosse un’esortazione a restare “vigili”, condizione indispensabile in una società segregata e permeata dal razzismo. Oggi il suo significato viene adottato in modo più ampio e trasversale per descrivere la lotta alle disuguaglianze sistemiche – legate alle minoranze, ma anche al genere, all’orientamento sessuale e agli altri aspetti dell’identità – e la promozione di un cambiamento attraverso l’attivismo. Tornato quindi di moda, ci è voluto poco per associarlo ad una distinta parte politica, ritenuta eccessivamente dogmatica, a tratti intollerante. Le grandi questioni aperte degli Stati Uniti sono perciò diventate un terreno di scontro violento su politicamente corretto, cancel culture, free speech, trasformando la rinominata ideologia woke in un mostro da abbattere: una missione per molti.
Sarebbe ora impossibile ripercorrere per intero l’evoluzione di un movimento che è tanto più frammentato di quanto non si dica – non c’è alcunché di organizzato, non ci sono leader, niente di niente –, ma è bene sapere che alcuni esponenti della parte politica presa per l’occasione di mira dai suoi detrattori sono (o sono stati) critici nei confronti della cultura woke. Famoso, in questo senso, è un intervento di Barack Obama del 2019. Di motivi per dibattere sull’intransigenza che talvolta la “dottrina” ha prodotto ce ne sarebbero – interessante, ad esempio, è l’opera di John McWhorter, professore alla Columbia University, già “vecchia conoscenza” di Mookie –, ma la verità è che la discussione è approdata in una lunga serie di fraintendimenti e di scappatoie utili a promuovere misure controverse.
Molto è accaduto l’indomani delle proteste di Black Lives Matter del 2020 (breve nota a margine: fu BLM a dare ulteriore spinta alla rappresentazione woke, nel 2014, dopo l’omicidio di Michael Brown), quando alcune istanze reputate estreme – si pensi alla causa defund the police – hanno restituito aspri confronti sulle materie contestate. Riducendo il tema a Black Lives Matter v. All Lives Matter (o nella declinazione Blue Lives Matter), è cresciuta la frangia di chi rifiuta il pensiero, di nuovo in voga negli ultimi anni, che l’America è per sua stessa natura un paese razzista, che le colpe dell’epoca schiavile non possono ricadere sulle generazioni successive, eccetera eccetera. Campione di questo posizionamento è senza dubbio il governatore della Florida, Ron DeSantis (a fargli compagnia Marco Rubio, Ted Cruz, Vivek Ramaswamy e altri…), il quale, prima di buttarsi nella fallimentare mischia elettorale con vista sulla Casa Bianca, si è messo a litigare con la Disney e ha avanzato proposte come il divieto di aborto dopo sei settimane, la messa al bando nelle scuole di libri, autori o corsi di studi giudicati inclini alla Critical Race Theory, ma anche quelli relativi alle questioni di genere o intersezionalità. Alla fine la commistione di fattori ha coinvolto politica, media, satira, tutto. Potete immaginare il casino.
Ad ogni modo quell’antico concetto maltrattato dalla retorica corrente è ricomparso più volte. Childish Gambino lo ha traslato in un progetto come “Awaken, My Love!” del 2016 («But stay woke», ripete una decina di volte in Redbone, brano che però parla di paranoie amorose), mentre più avanti Meek Mill lo ha reso decisamente più esplicito:
In a world where Black is wrong and white right, it’s like a combat
We go to war for our freedom, they say we equal– Meek Mill feat. Miguel, Stay Woke, 2018
Non è necessario soffermarsi sulla parola, o sul titolo di una canzone. Il legame con la musica contemporanea di un linguaggio che è proprio della comunità nera si è manifestato in diverse combinazioni. Lo ritroviamo, daccapo, nel Childish Gambino di “Awaken, My Love!”, stavolta in Boogieman (If you point a gun at my rising sun / Though we’re not the one / But in the bounds of your mind / We have done the crime), in Georgia Anne Muldrow (Seeds; A Thoughtiverse Unmarred), in Solange (A Seat at the Table), in Beyoncé (Lemonade), in Jamila Woods (Heavn), in D’Angelo (Black Messiah), in Common (Black America Again), o nel fresco The Legend of ABM degli Angry Blackmen. L’elenco potrebbe essere infinito.
Va da sé, insomma, che qualsiasi creazione musicale, letteraria, visiva, o produzione cinematografica, al cui interno sono evidenti riferimenti al razzismo sistemico e alle disuguaglianze di ogni tipo, sia agli occhi di tanti avvolta nel peccato originale della wokeness: nell’America di oggi le tensioni sono crescenti, il dialogo difficoltoso.
Tra il 2015 e il 2016 Paul Beatty divenne un caso letterario per il suo romanzo Lo schiavista. Il protagonista – Bonbon, intenzionato a sperimentare forme di ri-segregazione nel dimenticato agglomerato periferico di Dickens, vicino Los Angeles, iniziativa che lo porterà fino alla Corte Suprema – ribalta la collaudata formula dell’invisibiltà dei neri: «So che detto da un nero è difficile da credere – dice Bonbon nel prologo –, ma non ho mai rubato niente. Non ho mai evaso le tasse, non ho mai barato a carte. Non sono mai entrato al cinema a scrocco, non ho mai mancato di ridare indietro il resto in eccesso a un cassiere di supermercato». All’uscita il romanzo fu etichettato in tanti modi (“post-soul”, “hip hop postmoderno”: cercando online ci si perde nelle innumerevoli classificazioni), ma quale che sia la collocazione più appropriata, il merito principale di Beatty1 fu quello, secondo la critica, di affrontare temi sensibili senza fare sconti a nessuna delle parti chiamate in causa. Succedeva – anche se ancora non potevamo saperlo – nella fase di transizione da Obama a Trump, un passaggio che avrebbe esacerbato il terreno di scontro, già bell’e pronto, così come adesso siamo in grado di osservare.
Da un sondaggio USA Today/Ipsos dello scorso anno emergeva che il 40% degli americani ritiene “woke” un insulto, mentre poco più del 30% la vede esattamente al contrario (il 56% considera “wokeness” l’essere informati e consapevoli delle ingiustizie sociali; il 39% collega questa tendenza al politicamente corretto). Le percentuali cambiano, al solito, al cambiare delle convinzioni politiche e dell’età degli intervistati. Ma al momento opportuno, hanno suggerito altre rilevazioni (e i risultati delle primarie lo hanno persino confermato), agli elettori non importa poi molto delle crociate anti-woke dei candidati.
Provate a chiedere cosa sia l’ideologia woke. Ognuno vi dirà la sua.
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Se nel 2023 abbiamo potuto celebrare i 50 anni della cultura hip hop è anche perché l’industria dell’intrattenimento ha avuto il pregio di proiettare un gruppo ristretto di persone del South Bronx in un movimento globale. In ogni caso Andre Gee e Timmhotep Aku si chiedono su Rolling Stone se «la stagione del rap politicizzato è davvero finita».
Le mosse del ticket presidenziale Biden-Harris per coinvolgere di più i media neri.
Forse ne avrete letto in giro, fatto sta che Megan Thee Stallion e Nicki Minaj si sono scambiate diverse frecciatine nelle ultime settimane. Ma la prima, nel singolo Hiss, ha creato un certo scalpore per i seguenti versi: These hoes don’t be mad at Megan, these hoes mad at Megan’s Law / I don’t really know what the problem is, but I guarantee y’all don’t want me to start. La Megan’s Law è una legge federale che permette di rendere pubbliche le informazioni sugli autori di reati a sfondo sessuale, già noti alle autorità per crimini che rientrano in questa categoria. Prende il nome da Megan Kanka, una bambina di sette anni uccisa nel 1994 da un predatore sessuale nel New Jersey. La famiglia della vittima non ha gradito il riferimento alla legge nella canzone di Megan The Stallion.
Killer Mike – pensate un po’ – si è aggiudicato il Grammy per il miglior disco rap dell’anno. Killer Mike su Spotify:
La famiglia Carter ha un problema con la Recording Academy, anche se a parlare è il solo JAY-Z. Sul Washington Post, Karen Attiah auspica un passo in avanti di Beyoncé.
Mentre la campagna elettorale si infiamma su più fronti, proseguiamo il nostro “viaggio” tra musica e società statunitensi in vista dell’appuntamento di novembre. Grazie come sempre di aver letto Mookie fino in fondo.
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Ci leggiamo tra due settimane, ciao!
Che poi Beatty è uno che, anche a ragione, le etichette le ha sempre rifiutate, come quando negli anni ‘90 lo chiamavano “poeta hip hop” e a lui non piaceva.
Sempre perfetto Fabio, ma come fai? ❤️