Il jazz è stato definito in tanti modi. C’è chi è arrivato a considerarlo un modello di democrazia perfetta: all’interno di un gruppo ogni musicista può suonare liberamente, ma l’obiettivo di tutti i componenti sarà quello di trarre vantaggio dagli altri e dare forma ad un’unica entità armonica. Attorno al jazz è stato costruito un perimetro di elevato spessore artistico e intellettuale, ma agli albori era una musica stigmatizzata dall’America puritana, un pretesto come un altro per alimentare lo stereotipo dell’uomo nero predatore seriale e demonizzare i luoghi di perdizione dove veniva suonata. Se il blues era rimasto a lungo «inviolabile», per dirla con Amiri Baraka, il jazz è stato al contrario un punto di contatto tra le due Americhe, bianca e nera. Ma il jazz, nonostante tutto, presentava una caratteristica che a molti proprio non andava giù: infrangeva la regole. Lo storico Richard M. Weaver pubblicò nel 1948 un libro che diventerà poi abbastanza influente nel mondo conservatore dell’epoca, Ideas Have Consequences, una sorta di trattato filosofico in cui l’autore analizza il declino della civiltà occidentale, esprimendo disprezzo, tra le altre cose, per il jazz in quanto arte orientata al primitivismo.
I fenomeni musicali e artistici sono sempre una questione di contesto e relazioni sociali. Lo diceva anche Pierre Bourdieu. Va tutto bene, in teoria, almeno finché non sopraggiunge una minaccia all’ordine costituito. Solo che un’opera d’arte è per definizione il risultato di un conflitto, poco importa se interiore o collettivo. Quello che è si è visto con l’hip hop, l’accoglienza che ha ricevuto, è accaduto prima con il jazz, quando è nato.
Di jazz volevo scrivere già da un po’, ma ho sempre rimandato. Poi è arrivato McKinley Dixon con il suo nuovo album e mi sono detto: facciamolo.
Ciao! Qui Mookie, una newsletter di Fabio Germani che tratta di America in relazione al rap e alla musica nera. Per contribuire a questo umile progetto basta poco: un like, una condivisione, il passaparola. Ogni vostro piccolo gesto può essere incredibilmente utile: grazie!
I primi assaggi di Beloved! Paradise! Jazz!?, il nuovo disco di McKinley Dixon pubblicato il 2 giugno, li abbiamo avuti a inizio anno con l’uscita delle tracce più significative. Da tempo Dixon, bravissimo rapper cresciuto in Virginia, ricorre alla musica jazz per le sue produzioni, ma è in quest’ultimo lavoro che compie il salto di qualità. Non per il jazz in quanto genere musicale, di cui l’hip hop si è appropriato fin dai tempi di Guru, degli A Tribe Called Quest e dei Digable Planets, bensì per la semantica. Tanto per cominciare il titolo dell’album è un omaggio illustre: Beloved (1987), Paradise (1997) e Jazz (1992) sono tre romanzi di Toni Morrison, il cui tratto distintivo è scomporre l’esperienza nera all’interno di un quadro violento e drammatico. La scrittura di Morrison era concepita come qualcosa di molto simile al jazz, al punto da rendere la musica non il “sottofondo” dell’opera, ma l’elemento portante. Alla fine Dixon ci racconta soprattutto gli affari suoi, episodi personali di vita, e lo fa – come in un romanzo di Morrison (il disco si apre con Hanif Abdurraqib che legge un estratto da Jazz) – mettendo tutto in contesto.
Braids for the summer, I’m less likely to falter
Gold finger tips rusted, now the color has altered
Deny food from the hand, matriarch is insulted
The house is crumbling, hurry out the back door bolting
The rubble recently, reset my bones
Black skinned concrete, within it I feel at home– McKinley Dixon feat. Ms. Jaylin Brown, Beloved! Paradise! Jazz!?, 2023
L’altro aspetto curioso è che il romanzo Beloved di Toni Morrison è stato motivo di scontro in Virginia, una locale “guerra culturale” quando etichettare così ogni aspetto controverso non era ancora di moda. Beloved rappresenta la descrizione di un conflitto generazionale, che Dixon, a suo modo, prova a far emergere. Non a caso il linguaggio grezzo dell’hip hop trova nel jazz il contenitore ideale. Il pezzo hip hop che suona jazz, ma anche il jazz moderno che si mescola all’hip hop, sono la conclusione di un percorso, la fusione di parametri estetici “neri” ed elementi culturali “dominanti”, euroamericani, dunque, nella visione novecentesca, identificabili come tipici statunitensi. Ammesso che esistessero sul serio, degli elementi culturali “tipici statunitensi”, il contributo dell’arte nera allo sviluppo di una più generica cultura americana era, per W. E. B. Du Bois, un dato di fatto. Du Bois “misurava” il progresso in termini, appunto, generazionali e l’evoluzione jazzistica, quella pulsione di libertà e di improvvisazione, era in definitiva l’espressione più caratteristica della “doppia coscienza”, dell’essere neri e americani.
Il jazz anticipò il mix di suoni popolari e modernismo, poi sfociato nell’Harlem Renaissance, che diede sostanza al crescente contesto urbano, distanziandosi dall’immaginario della mezzadria e dei campi di cotone del Sud. Allora l’élite intellettuale afroamericana era proiettata a ridisegnare i confini della propria esistenza, non senza qualche ostacolo o contraddizione. Diciamo che il jazz non piaceva a tutti, c’era del pregiudizio più o meno diffuso (ad esempio la relazione di Alain Locke con il jazz era ambigua), ma la prospettiva di una riconosciuta centralità culturale arrivò dapprima con la musica. Niente che potesse essere scalfito da alcuna contaminazione, fosse anche la più virtuosa. Lo stesso schema, anni più tardi, sarebbe tornato alla ribalta con la nascita dell’hip hop.
Quando il giornalista Alex Pappademas, nella seconda stagione del podcast Big Hit Show, gli domanda «perché proprio il jazz? perché non l’hip hop?», Terrace Martin risponde che se cresci in un posto come Los Angeles, tra le gang, non hai tempo di pensare a «cosa è cosa», ma solo a muoverti verso ciò che ti farà stare bene. In pochi istanti Terrace Martin è riuscito a ricollocare il jazz esattamente dov’è che deve stare, nella sua dimensione. Martin ha lavorato all’instant classic del 2015 di Kendrick Lamar, To Pimp A Butterfly, con gli amici Kamasi Washington e il polistrumentista Thundercat, una sublime commistione di suoni e liriche a cui ha preso parte anche Robert Glasper, tra i nomi più influenti della scena di ultima generazione. Durante la conversazione con Pappademas viene citato Mo’ Better Blues, un film di Spike Lee del 1990 con Denzel Washington e Wesley Snipes sul jazz, ma con una spruzzata gangsta, di cui Martin e Lamar sono fan. Ora la caratteristica di questo film è che è uscito un anno dopo Do The Right Thing, che invece aveva dentro un sacco di hip hop, quasi, cioè, a rimarcare l’alfa e l’omega, però al contrario.
Nel 2015 è successo qualcosa di analogo. A una manciata di mesi dall’uscita di To Pimp A Butterfly – inutile ricordare cosa abbia significato in quel periodo, no? – Kamasi Washington ha pubblicato The Epic, un album imponente (quasi tre ore di musica) in grado di restituire consapevolezza politica al jazz in un momento in cui se ne sentiva davvero il bisogno. Come John Coltrane all’inizio degli anni ‘60. The Epic ha quindi messo L.A. sulla mappa, quando il jazz era sempre stato appannaggio di altre città, New Orleans su tutte, New York al massimo. Washington, Martin e Thundercat provengono dalla scuola di Reggie Andrews, che a Los Angeles è stato mentore di un esercito di artisti, da Patrice Rushen ai Pharcyde, da Tyrese Gibson a Syd. Erano ragazzi che si frequentavano e insieme suonavano jazz, ma che sono cresciuti con l’hip hop, preparandosi «a fare – vale la pena citare Pappademas – un disco come To Pimp a Butterfly».
Il jazz ha ricoperto un ruolo fondamentale nella prima metà del ‘900 in quanto “colonna sonora” dell’emergente classe borghese nera, accompagnando la stagione dei diritti civili e il lento ingresso alla partecipazione politica. Anche il rapporto di Malcolm X con la musica è abbastanza documentato. Cosa rimane oggi? L’eredità in termini intellettuali e politici è vastissima, ma molti degli ultimi eroi del jazz non ci sono più: Wayne Shorter, Ahmad Jamal, Pharoah Sanders, Freddy Cole, Bill Lee, Redd Holt, solo per citarne alcuni, ci hanno lasciati proprio di recente. Nel frattempo la nuova scuola – Esperanza Spalding, Lakecia Benjamin, Marquis Hill, Trombone Shorty, Braxton Cook, Makaya McCraven, Keyon Harrold, Theo Croker, Samara Joy, Christian Scott, Jon Batiste, poi Adrian Younge e Ali Shaheed Muhammad degli A Tribe Called Quest con il loro progetto Jazz Is Dead (i nomi li ho inseriti a casaccio, non sono tutti e in realtà alcuni di loro sono nel giro da molto) – si presenta altrettanto impegnata e capace di coniugare tradizione e sonorità moderne, un percorso che i puristi hanno sempre un po’ avversato, ma che oggi ci permette di apprezzare di più l’intersezione di jazz e rap in Miles Davis ad opera di Easy Mo Bee, nei primi anni ‘90.
Jazz e hip hop, del resto, sono generati dalla stessa matrice. Scrisse Amiri Baraka:
La musica afroamericana trae la sua forma e il suo contenuto dalle vite e dalla storia della gente afroamericana [...]. La cultura, in quanto musica, comincia africana e poi viene trasformata dall’esperienza occidentale dell’essere schiavi, e quindi beni mobili. Il suo sviluppo, in un certo senso, è l’espressione del livello delle forze produttive del popolo afroamericano: il suo sviluppo sociale, l’istruzione, la sofisticazione degli strumenti di produzione ecc. [...].
New Orleans porta i primi cantanti classici e le prime jazz band. I piccoli combo. Però questo è già post-schiavismo. Accesso a un ambiente urbano sofisticato, strumenti moderni, maggiore libertà di movimento, di scelte di vita ed espressione creano il jazz, e alla fine ci portano Fletcher Henderson e Duke Ellington [...]. Mentre gli africani diventavano afroamericani, e il separatismo della schiavitù e la feroce segregazione del neoschiavismo, arrivato dopo la devastazione della Reconstruction, venivano mitigati con le lotte, la gente nera ha avuto maggiore accesso a un’offerta più completa delle risorse della società. La musica classica americana è alla sua base musica classica afroamericana [...]1.
It’s optimistical
It can make you sad
It’s so lyrical
Music is my Sanctuary, Music is my life– Gary Bartz, Music Is My Sanctuary, 1977
Altre cose interessanti
Hit Boy, quotato produttore e responsabile degli ultimi successi di Nas, ha un padre (Big Hit) che è uscito di prigione da poco. Una volta fuori si è chiuso in studio con il figlio e insieme hanno pubblicato un album, che è il seguito di SURF OR DROWN. Credo sia la prima volta nell’hip hop di un intero disco collaborativo padre-figlio.
Un video (non nuovissimo, a dire il vero) dei Paris Texas.
Questa puntata arriva con una settimana di ritardo, ma manca poco alla consueta pausa estiva. Quindi sono giustificato, vero? Mi concedo un piccolo spazio personale. Voglio ringraziare Fabio Negri per tutto quello che ha fatto con SLRVLTN: lui sa.
Per il resto la playlist di Mookie è pronta: a voi non resta che premere il tasto play. Domande? Suggerimenti? Potete rispondere alla mail, oppure scrivermi su Instagram, su Twitter o su Notes. Se Mookie vi piace, mandate il link alle amiche e agli amici!
Appuntamento a tra due venerdì, o forse dopo. Comunque a presto!
Il brano è tratto da Black Music. I maestri del jazz a cura di Marcello Lorrai, ShaKe Edizioni, 2012.
Sempre puntuale e geniale con i collegamenti. Leggerti apre universi, grazie!