Le due Americhe sono mondi paralleli, non facili da descrivere anche quando si manifestano in musica, sebbene riunite spesso da una categoria che prova a definire generi e stili. L’idea di proporre una puntata di Mookie sul “rap bianco” era in cantiere da qualche tempo, ma ogni volta rimandata per il timore di scadere nelle consuete ovvietà. Poi a febbraio è arrivato un disco che più Black non si può e incredibilmente illuminante. Quello che segue è perciò il risultato di un ascolto a tratti ostico.
Bentrovati su Mookie, la newsletter che «vediamo un po’ cosa esce fuori da questa puntata...».
Il Popolo del Blues è un libro di Amiri Baraka (LeRoi Jones) la cui prima pubblicazione risale all’inizio degli anni ‘60. È un testo che vale la pena (ri)scoprire per comprendere meglio i rapporti e le interazioni delle due Americhe – retaggio di diverse storie: quella degli oppressi e quella degli oppressori –, nell’America post-schiavile. «Il nero come schiavo è una cosa, il nero in quanto americano un'altra ancora», chiarisce l’autore in apertura. «Se il nero rappresenta o, meglio, simboleggia qualcosa che appartiene o è relativo alla cultura americana, questo dovrebbe risultare certamente dalla sua musica caratteristica».
Quello di Amiri Baraka voleva essere un esame socioantropologico e musicale «sull'essenza di questo paese, vale a dire della società americana nel suo insieme», ma altri, in precedenza, avevano considerato lo stesso tipo di sforzo intellettuale una vera e propria rivendicazione. Già nel 1903, in The Souls of Black Folk, W.E.B. DuBois reclamava per la cultura afroamericana una riconosciuta centralità nello sviluppo di una più generica cultura americana – posizione che anticipava la risposta all’atteggiamento ritenuto arrendevole di parte consistente della nascente borghesia nera (il prodotto di nuovi fattori economici), la quale per mantenere lo status appena acquisito sembrava accettare una condizione che non contemplava più il passato schiavistico, come se fosse, cioè, una cosa del tutto “superata” –, lamentando perciò l’assenza di identità, una conseguenza della subalternità a cui i neri erano stati costretti dall’America bianca. L’emancipazione politica e sociale, secondo il pensiero di DuBois (in antitesi a quello di Booker T. Washington), sarebbe dovuta passare per un elevato grado di istruzione e per il consolidamento dell’identità culturale.
Tale identità, suggerisce però Amiri Baraka, è ascrivibile soltanto alla musica che «trae la sua forza e la sua bellezza direttamente dalle profonde radici dell’anima nera» e «perché le sue tradizioni potevano essere continuate dalle classi inferiori», mentre i contributi relativi alle altre arti, specie la letteratura, «sono difficili da separare in quanto specificamente neri», essendo in quella fase storica appannaggio quasi esclusivo della borghesia.
Chiedo scusa per il lungo preambolo, ma era utile a introdurre l’ultimo disco di Adrian Younge, pubblicato il 26 febbraio: The American Negro. Se il titolo appare alquanto esplicativo, che dire, allora, della cover? Un chiaro riferimento alle cartoline ricordo dei linciaggi: un orrore nell’orrore.
Il punto di contatto con Amiri Baraka sta proprio nel ruolo che Younge attribuisce alla musica, a suo dire portatrice della memoria collettiva e rivelatrice di un sistema che, nelle più moderne declinazioni, negli Stati Uniti ancora affligge le persone nere.
Adrian Younge è un polistrumentista che negli ultimi anni ha prodotto alcuni tra i lavori più interessanti – per un approfondimento sulla sua figura vi invito a leggere l’ottimo articolo di Fabio Negri, conduttore di SLRVLTN su Radio Milano International – e The American Negro si colloca all’interno di un ampio progetto tematico, che include un podcast – Invisible Blackness, che non a caso ricorda nel titolo Invisible Man di Ralph Waldo Ellison – e un cortometraggio in uscita su Amazon Prime Video. Per come la vede lui, The American Negro è un album che mette in connessione il Marvin Gaye di What’s Going On e James Baldwin, con un fare accademico dettato dai suoi stessi interventi parlati cui seguono le melodie che danno poi senso e forma alla riflessione.
I am the sound of America
The dissonance they created
I am a Black American
Colored by America’s ineptitude.
I am an African-American
Struggling with my allegiance to the Motherland
I am an evolving light living under the shade of our ancestors
I am your American Negro– Adrian Younge, The American Negro (2021)
Un momento particolarmente significativo dell’album si ha quando Younge afferma che qualsiasi analisi sulla musica nera è in verità un’analisi sulla relazione tra l’America bianca e nera (America Is Listening). È un momento importante perché riprende un concetto che troviamo spesso in Il popolo del Blues. La più espressiva musica nera di qualsiasi periodo, afferma infatti Amiri Baraka, è il ritratto dei neri in quello stesso periodo, l’adattamento di ciò che è loro concesso o che possono conquistarsi.
Vivendo in una società segregata, i bianchi conoscevano solo in superficie gli stili di vita dei neri (mentre questi ultimi erano, come dire, “tenuti” a capire le intenzioni dei bianchi in un dato momento). In questo senso, la musica era un elemento catalizzatore. Se il blues – escluso il “blues classico”, quello di Ma Rainey, di Bessie Smith e delle grandi cantanti degli anni Venti che lo resero accessibile ad un pubblico non necessariamente nero – è rimasto a lungo «inviolabile», una delle sue prime derivazioni, il jazz, al contrario è stato un punto di contatto tra le due culture. «Ma il senso vero di questo “cedimento” – torna in soccorso Amiri Baraka – è che esso riflette non tanto una comprensione maggiore dell’America bianca nei confronti del nero americano, quanto il fatto che i neri avevano creato una musica che rifletteva così da vicino la realtà americana da poter sollecitare i bianchi a suonarla e ascoltarla».
Durante la stagione dei diritti civili, il soul e il funk, veicolati dalle immagini televisive e da Soul Train, contribuirono a cambiare gradualmente i gusti musicali della vasta platea bianca. Poi è arrivato l’hip hop e a quel punto, per davvero, abbiamo assistito ad una trasformazione.
Ok, ok, ora è il caso di rifiatare un momento. Abbiamo fatto un salto di circa 20 anni e abbiamo tralasciato un pezzo fondamentale di storia musicale statunitense, ma le alternative non erano molte, avremmo corso il rischio di non terminarla più, questa puntata. Allacciamo allora le cinture e ripartiamo.
All’inizio l’hip hop non è stato granché inclusivo. Per certi versi era come un Club con tanto di ingresso riservato ai soli soci. Dopodiché, negli anni ‘80, sono arrivati i primi soldi, qualcuno ha iniziato a registrare dischi, le radio passavano i pezzi più suggestivi e i ragazzini bianchi – contagiati dal linguaggio sboccato che a casa non era loro permesso, dai collanoni d’oro e dai toni ribelli – se ne appassionavano quanto i coetanei neri, che però continuavano ad abitare nei quartieri più poveri. Ma l’hip hop si stava rivelando un ponte tra due mondi che per generazioni si erano sfiorati a malapena, talvolta addirittura ignorati. Follow the money: collaborando con gli Aerosmith, i quali a loro volta erano in debito con il rhythm & blues, i Run DMC aggiunsero un ulteriore tassello al lento processo di desegregazione.
Subito dopo fu la volta dei Beastie Boys, forse il gruppo che in assoluto è riuscito a coniugare meglio di tutti le anime musicali delle due Americhe, seppure da una prospettiva che in principio era distante anni luce dall’hip hop delle origini. Soprattutto furono i primi a dimostrare che in fondo, quella roba lì, potevano farla anche dei benestanti ragazzi bianchi. Come però osservarono David Foster Wallace e Mark Costello nel 1989, quello dei Run DMC era «rap nero per le masse di ascoltatori bianchi» e quello dei Beastie Boys era «rap bianco per le masse bianche», dunque scelte commerciali mirate – non a caso della medesima etichetta discografica, la Def Jam –, qualcosa che anticipò nuove e complesse divisioni anziché unire.
Nel 2005, interrogato da GQ sull’argomento, JAY-Z rispondeva che la provenienza, il retaggio culturale, le frequentazioni e tutto il resto, rendevano Eminem un personaggio credibile in ambito hip hop, ma aggiungeva anche che il colore della pelle stava evidentemente incidendo non poco sui dati di vendita dei suoi dischi. Del resto era stato lo stesso Eminem a riconoscerlo in White America, un paio di anni prima: «Se fossi nero, venderei la metà».
Tempo fa girava una battuta negli ambienti hip hop statunitensi, che più o meno faceva così: Eminem è l’unico rapper a passare per le radio country. Non era una frase innocua. Se l’hip hop era ormai sdoganato, piaceva ai neri e ai bianchi (escluso qualche politico di Capitol Hill), nei primi anni duemila Eminem era oltre l’hip hop. Ce ne siamo accorti anche in Europa: potevamo non essere fan dell’hip hop, ma tutti conoscevamo Eminem. Solo che Eminem, cresciuto al centro di una cultura perlopiù afroamericana, ha rappresentato a lungo una rabbia che aveva poco a che fare con il messaggio dei Public Enemy, semmai quella dei cosiddetti white trash, «una voce – scrive il giornalista Cesare Alemanni in Rap. Una storia, due Americhe – in cui potevano riconoscersi milioni di giovani bianchi abbandonati alla periferia del sogno americano».
I'm tired of bein' white trash, broke and always poor
Tired of takin' pop bottles back to the party store
I'm tired of not havin' a phone
Tired of not havin' a home to have one in if I did have one on
Tired of not drivin' a BM
Tired of not workin' at GM, tired of wantin' to be him– Eminem, If I Had (1999)
Quello relativo alla “povertà bianca” è un tema essenziale per capire l’America di oggi. Ne parla ad esempio La McMusa nell’ultimo episodio del suo podcast Black Coffe Sounds Good, illustrando il romanzo di Sarah Smarsh, Heartland (Edizioni Black Coffe), che è un viaggio «al cuore della povertà nel paese più ricco del mondo»:
Proprio nelle prime pagine del libro l'autrice mette a fuoco per noi una certezza tipicamente americana: i poveri bianchi sono un insulto al sogno americano. Se la povertà dei neri e degli immigrati è in qualche modo normalizzato dal loro colore della pelle, dunque da un pervasivo razzismo che li giudica automaticamente esclusi dai principi di quel sogno, per i bianchi accettare la povertà di altri bianchi è inconcepibile: è colpa loro, ti diranno.
È questo il malcontento di cui si è nutrito Eminem in una Detroit decadente (specie nella versione di Slim Shady), è questo il rimpianto – fatto di speranze disattese, di cambiamenti sociali che hanno aggiunto frustrazione, creato “nuovi avversari” ed esacerbato gli scontri di tipo razziale – che Alemanni definisce «uno dei principali serbatoi del successo politico di Trump».
Quando Eminem si scaglia contro Trump – è successo ad esempio in un freestyle del 2017, The Storm –, si rivolge con piena consapevolezza ai fan che, in molti casi, sono anche elettori dell’ex inquilino della Casa Bianca. Più o meno lo stesso schema osservato a inizio 2020, con l’uscita del singolo Darkness, a proposito di possesso e uso delle armi da fuoco negli Stati Uniti.
La rabbia che adesso cambia obiettivi, non più da white trash insomma, è però una contraddizione in termini per uno come Eminem. Che conferma, anzi, la dualità musicale dell’America, dal “post-blues” descritto da Amiri Baraka alle disamine di Adrian Younge. È la storia che ci gira intorno, che restituisce quella fastidiosa sensazione di essere sempre al punto di partenza e che alimenta stereotipi a non finire. In un paese, è bene ricordare, che proprio ora sta attraversando una lunga fase di cambiamenti radicali e che a breve vedrà i bianchi non rappresentare più la maggioranza assoluta dei cittadini.
Ci siamo dilungati abbastanza, pur dovendo rinunciare a molti aspetti che invece sarebbe stato opportuno approfondire: un motivo in più per tornare sull’argomento in futuro. Dubbi? Domande? Suggerimenti? Potete rispondere alla mail, se vi va, oppure commentare o scrivermi su Twitter, Instagram, Facebook. Se Mookie vi piace, iscrivetevi e fate iscrivere gli amici e le amiche alla newsletter.
A quanto pare, ci aspettano giornate difficili, da zona rossa. Teniamo duro ancora un po’ e nel mentre, per quello che può contare, proviamo a farci compagnia con la buona musica. Noi ci si legge la prossima settimana, come sempre. A presto!