It’s A Matter Of Time
Mookie intervista Carlo Babando, autore di «Blackness. Storie e musiche dell’universo afroamericano»
Non che voglia disturbarvi anche a Natale, ma questa è una puntata speciale di Mookie, sebbene poco in linea con i giorni di festa (a differenza dello scorso anno quando parlammo di Christmas On Death Row e di A Soulful Christmas di James Brown, del 1968). Si tratta di un’intervista ad un autore che stimo e che avevo in mente di fare da un po’. Mettiamola così: non dovrete leggerla per forza oggi, non scadrà nel giro di pochi giorni. Anzi, potrete riaprire la mail con tutta calma tra un’abbuffata e l’altra. Anche perché sarà l’ultimo appuntamento del 2021: ci ritroveremo a gennaio, senza fretta. E sarà già 2022.
Bentrovati su Mookie, la newsletter che «se non ci vediamo prima, buon Natale e felice anno nuovo».
It’s a matter of time
Before justice will come
It’s a matter of time yeah
Before all walls will be done
It’s a matter of time
Before wrongs will be written
It’s a matter of time yeah
Before all people will be united– Matter Of Time, Sharon Jones & the Dap-Kings, 2017
«Scrivere di cultura afroamericana vuol dire riportare l’Africa, in particolare quella subsahariana, al centro delle dinamiche che hanno contribuito a plasmare l’identità nera statunitense». Il viaggio intrapreso da Carlo Babando parte da molto lontano. Parte dall’Africa, d’accordo, ma non è solo questo. Sarebbe altrimenti un modo riduttivo di descrivere il lavoro che ha prodotto l’intera stesura di Blackness, il libro che nel 2020 Babando ha pubblicato con Odoya (per quello che conta, tra i consigli non richiesti per l’estate di Mookie). La sua esplorazione prende il via nel Medioevo e coinvolge inevitabilmente noi europei – o qualsiasi cosa potesse significare “noi europei” secoli e secoli fa –, indagando sul «rapporto tra l’uomo bianco e l’uomo nero, quando quest’ultimo non era ancora stato associato per sempre al concetto di schiavo».
L’idea di scambiare due chiacchiere con Carlo è immediata, appena finito di leggere il suo libro. Eppure quel momento è stato più volte rimandato, non saprei dire bene perché. Delle tante questioni di cui vorrei discutere con lui, a una tengo soprattutto. In una fase di grande attenzione e maggiore sensibilizzazione verso alcuni temi, quanto siamo legittimati – dall’Italia – a scrivere di ciò che in effetti scriviamo? Con quale grado di credibilità? È un argomento che, partendo da una prospettiva certamente distante anni luce, un grande intellettuale di riferimento come Greg Tate ha affrontato nel corso della propria carriera, analizzando talvolta la relazione tra pubblico bianco e arte nera, compresa la seducente, già negli anni ‘80, arte del “qui e ora” – l’hip hop –, che lui ha contribuito a elevare. È specialmente di questo che voglio parlare con l’autore di Blackness e stavolta ogni tassello sembra incastrarsi alla perfezione, anche se per un crudele scherzo del destino: Tate è morto a 64 anni il 7 dicembre.
L’approccio di Babando al tema è molto accademico, e si vede. Durante la nostra conversazione, in alcuni momenti mi è sembrato di rivivere l’incontro di qualche anno fa con Ugo Rubeo, professore di Lingua e letteratura angloamericana all’Università La Sapienza, il quale in un paio di ore di colloquio, forse qualcosa meno, riuscì a demolire tutte le costruzioni mentali che nel tempo avevo edificato, facendomi uscire dalla stanza di ricevimento con un disincanto che mai avrei immaginato (di Rubeo scrissi quando la newsletter era ancora per pochi intimi su Medium, mentre il resoconto di quella intervista è rimasto nei miei archivi, perlopiù inedito, perché avrebbe dovuto essere parte di un progetto più ampio, che però si è interrotto e non ha avuto un seguito). E questo spiega in sostanza il motivo per cui l’esplorazione di Babando – giornalista per Blow Up, insegnante e scrittore – parte da lontano e non necessariamente da un punto di vista storiografico.
Tutto ha avuto inizio all’università, dove ha studiato lettere moderne e storia medievale. In prossimità della laurea, dovendo scegliere l’oggetto della tesi, a Babando – che all’epoca già scriveva per Il Mucchio Selvaggio e lavorava in un negozio di dischi – venne l’idea di collegare in qualche modo la storia alla musica afroamericana, la sua preferita, soprattutto nelle declinazioni soul e funk. C’era un problema: lui doveva laurearsi in storia medievale, dunque escogitò, insieme ai suoi relatori, un modo per far coincidere una vicenda condivisa di “europei” e “africani”, retrodatando – mi spiega – le relazioni tra le due entità a un periodo precedente la tratta atlantica, quando, appunto, «l’uomo nero non era assimilato alla condizione di schiavo per natura». A distanza di tempo, Blackness è perciò diventato un’estensione di quel primo lavoro. «Negli anni a cavallo tra Medioevo e Rinascimento – osserva Babando, peraltro già autore di Marvin Gaye. Il sogno spezzato per la collana Soul Books – esistono figure di rilevante portata storica provenienti dall’Africa che non venivano per niente accostate all’idea di schiavitù, così come nell’antica Roma essere neri non significava in maniera automatica essere schiavi. Non dico che in passato non esistessero pregiudizi, ma erano diversi i requisiti che determinavano lo status di una persona. Ciò su cui spesso ho riflettutto è che gli stessi afroamericani, gli afrocaraibici e gli afrobritannici si sono come abituati all’idea dei neri associati alla schiavitù, ma prima di questo terribile capitolo c’è stato molto altro. Con Blackness ho provato a scardinare la convinzione secondo cui la storia nera è principalmente una storia di schiavi».
Arrivo dritto al punto. Seppure con modalità differenti, entrambi ci occupiamo di questioni legate a vicende americane e, nello specifico, a vicende afroamericane, semplificando molto il concetto. Partendo dalla musica, ci spingiamo in riflessioni che sono parecchio distanti dalle nostre realtà. Ammetto di essermi chiesto di recente, alla luce degli infiniti dibattiti al riguardo, con quale legittimità. Tu come la vedi?
Devo confessare che la domanda me la sono posta anche io, qualche volta. Al tempo stesso, però, la mia formazione mi spinge ad avere un approccio più da storico che non da giornalista, di conseguenza al momento opportuno non mi pongo troppo il problema dell’essere o meno legittimato, perché, banalmente, è come se pretendessi in quanto originario della Sicilia di poter scrivere solo io di cose siciliane. La storia deve essere condivisa, diventa un problema quando la visione si rivela egocentrica. Ma se andiamo oltre l’egocentrismo – e nel caso di cui stiamo discutendo anche oltre l’afrocentrismo, cioè se dell’Africa devono parlarne solo gli africani o solo gli europei che fanno entrare l’Africa nella storia europea nel momento in cui inizia la tratta atlantica degli schiavi –, il castello di carte è destinato a cadere. Un conto è combattere una battaglia culturale, un altro conto è osservare questi fenomeni e interrogarsi sulla storia che si vuole studiare e al limite raccontare, cercando di mettere nero su bianco dei dati, mettere insieme delle vicende, non le opinioni personali. Qui sta la differenza: non siamo opinionisti, siamo studiosi. Non affidiamo le nostre riflessioni a poche righe sui social. Quest’ultimo, se ci pensi, è un atteggiamento troppo leggero che talvolta coinvolge persino i diretti interessati. Se io fossi un afroamericano, non è scontato che un determinato tema debba interessarmi per forza o che sia in grado di spiegarlo in modo accurato. Essere nero non mi restituirebbe in maniera innata delle informazioni che se invece fossi islandese non potrei avere. Altrimenti, torniamo a noi, non potremmo parlare di storia egizia, forse nemmeno di quella greca, al massimo di storia romana. Ma poi dovremmo chiederci: siamo sicuri che la storia romana sia solo dei bianchi? Roma, in epoca repubblicana e imperiale, era tante cose, era tanti colori, tante razze, tante culture…
Le accuse di “appropriazione culturale” sono un altro tasto, infatti…
Di esempi se ne potrebbero fare tanti. In Black Is King, Beyoncé ha dipinto l’Africa in un modo che non è piaciuto a molti africani. Ma il rapporto tra afroamericani e Africa, di cui ad esempio hanno argomentato personaggi come Sun Ra – in particolare durante una bellissima lecture che tenne a Berkeley nel 1971 – e Amiri Baraka, è una faccenda tanto più complessa di come a volte è stata descritta. Un afroamericano che decidesse di vivere in Africa potrebbe incontrare non poche difficoltà. In fondo non sa cosa sia l’Africa, non conosce le culture africane. Dall’altro lato, un africano potrebbe accogliere con diffidenza un afroamericano nella propria terra, in quanto è “solo” un discendente di qualcuno che qualche secolo prima fu deportato in America. Le dinamiche sono tutt’altro che semplici.
Seguendo il tuo lavoro, ho potuto constatare come nel 2021 abbiamo studiato con particolare attenzione Adrian Younge e il suo The American Negro. Younge afferma che qualsiasi analisi sulla musica nera è un’analisi sulla relazione tra l’America bianca e nera. A mio avviso è un momento importante perché riprende un concetto che troviamo spesso in Amiri Baraka, che abbiamo citato poco fa. E nel tuo libro, guarda caso, si scoprono vicende di artisti o produttori neri e bianchi che si intrecciano, spesso con grande fortuna.
Anche lì ho seguito un approccio simile. Ero perfettamente cosciente del fatto che Blackness potesse avere un’impostazione non del tutto univoca, anche perché ritengo quasi impossibile coniugare storia, musica e parole in una trattazione davvero organica. Il coraggio dell’editore è stato quello di far uscire un libro “strano”, nel senso che è volutamente diviso e sta al lettore cogliere i legami tra storia e musica. Passare dall’Africa subsahariana alla Stax, insomma, è stato un rischio che ho voluto correre. Nella mia visione era chiaro che per una Motown retta da Berry Gordy, un afroamericano che però ragionava anche e soprattutto per il pubblico pop bianco, c’era una Stax Records che invece, guidata da due bianchi, risultava per molti più genuinamente “afroamericana” della prima. Per arrivare a situazioni più recenti, quasi tutto il retro soul ha, ai suoi vertici, un’idea che parte da appassionati di musica afroamericana bianchi – penso alla Daptone Records e alla Colemine Records – che fanno ricerca e scovano artisti formidabili, i quali o non avevano mai avuto successo e l’ottengono in età più avanzata, oppure gente che era stata un po’ dimenticata e adesso è tornata alla ribalta, o ancora qualcuno che credeva di aver perso il treno, come Sharon Jones, ma che alla fine ce l’ha fatta. In queste storie c’è sempre un meraviglioso mescolarsi di bianchi e neri.
La musica, l’arte in generale, sono mezzi di denuncia o in alternativa utili a descrivere battaglie sociali che oggi raggiungono ogni angolo di mondo. Eppure il timore che tutto si riduca ad un vessillo o poco più è abbastanza ricorrente…
Se in Blackness avessi solo enfatizzato la bellezza nera senza pormi domande, pur ammettendo tutti i miei limiti oggettivi di uomo bianco, italiano, nato nel 1986, avrei condotto la solita discussione, fine a se stessa. Se parliamo di razzismo e di Black Lives Matter e lo facciamo alzando il pugno non capendo cosa c’è dietro il gesto, in realtà non abbiamo fatto niente. E circostanze analoghe si verificano anche con i prodotti culturali. Su tutti mi viene in mente Black Panther, ma potrei citare anche il personaggio di Luke Cage. Se non si è a conoscenza di cosa c’era nel fumetto, cosa c’è nel film, cosa rappresenta Wakanda, restano parole vuote, mentre sono tante le domande che andrebbero poste. Si avverte la necessità di un pensiero critico che dia il via ad un confronto più ampio. Non credo che sia un obbligo e che dovremmo farlo tutti, ma se qualcuno si informa, studia, poi ne scrive e altri leggono, direi che abbiamo realizzato una cosa che ha senso anche se si è bianchi e italiani. La differenza la fa l’attualità, ciò che rende gli argomenti più spinosi: il razzismo non può essere raccontato come l’assolutismo in Francia, che ovviamente non esiste più.
Alcuni giorni fa si è tenuto a Los Angeles un concerto organizzato da Kanye West per sostenere la causa di Larry Hoover e per l’occasione è stato invitato anche Drake, di fatto sancendo la pace tra i due dopo i recenti dissapori. I media in Italia, ma in definitiva anche quelli statunitensi, hanno parlato quasi esclusivamente di questo, perdendo forse un po’ troppo di vista la finalità dell’evento. Non trovi che l’hype superi, talvolta eccessivamente, il pensiero critico cui accennavi prima?
Il problema è reale, ma non so fino a che punto sia una questione contemporanea o se, più semplicemente, sia un fatto cresciuto a causa dei social e della nostra smania di dover comunicare sempre qualcosa. Di sicuro ormai la tendenza è quella di mettere nello stesso pentolone quante più cose possibili per attirare platee sempre più vaste e il caso del concerto Kanye West-Drake mi sembra emblematico. Non sempre, però, dobbiamo vederci una mente diabolica dietro a tutto questo quando accade, a volte è solo capitalismo. Nelle piattaforme come Netflix o Disney+, ad esempio, siamo intasati di consigli su prodotti relativi alla storia afroamericana. Se in questo momento andasse per la maggiore il problema del rapporto tra asiatici e bianchi in America, allora avremmo una rivalutazione incredibile di Bruce Lee, dell’identità politica dei suoi film girati a Hong Kong e di quelli girati negli Stati Uniti, avremmo stagioni su stagioni di documentari e serie tv. Spesso si cavalcano le onde. Lo stanno facendo i bianchi, ma lo stanno facendo anche i neri ai vertici. Diverso è il discorso “in strada” e qui mi riferisco alle persone comuni. In “strada” arrivano dei messaggi che possono essere recepiti in modo sbagliato, non tutti hanno gli strumenti culturali per sviluppare un pensiero critico. A 16 anni può essere molto difficile quando sei “bombardato” da slogan o concetti decontestualizzati. Il pericolo è che ad arrivare sia l’evento mediatico, non il discorso in profondità.
Per concludere, quale dovrebbe essere, a tuo avviso, l’obiettivo di chi si occupa di informazione su temi particolari e comunque importanti, come quelli che a noi capita di trattare?
L’obiettivo deve essere sempre quello di potersi confrontare serenamente, se non c’è questa possibilità è la morte del dialogo. Il dialogo tra “convertiti” è un’idea reazionaria, qualcosa che non rientra nelle mie corde. Io insegno nelle scuole e vedo ragazzi che, sebbene nelle loro classi il razzismo non esista perché sono abituati a confrontarsi con colori e culture di ogni tipo, quando invece vanno in centro o entrano in un negozio devono fare i conti con i pregiudizi. In quei momenti subentra una questione che non è più solo culturale. Manca perciò una coscienza sociale che se non aiuti a sviluppare nei ragazzi, tu che hai studiato determinati fenomeni, anche se sei bianco, chi deve farlo?
Altre cose interessanti
Purtroppo chiudiamo l’anno con una notizia triste, che con ogni probabilità avrete appreso nei giorni scorsi. È morto Drakeo the Ruler, deceduto dopo essere stato accoltellato a Los Angeles, nel backstage del festival Once Upon A Time In LA il 19 dicembre. Drakeo si sarebbe dovuto esibire sul palco, l’evento è stato poi interrotto. La sua è una storia tormentata, fatta di avanti e dietro le sbarre per faccende talvolta pretestuose e poco chiare che avevamo raccontato a inizio 2021, parlando dell’annosa questione dell’incarcerazione di massa negli Stati Uniti. Nel 2020 era uscito Thank You For Using GTL (il GTL è uno dei principali servizi per la gestione delle chiamate dalle prigioni statunitensi), disco registrato interamente dal carcere e tra i più interessanti in ambito rap, almeno date le circostanze, dello scorso anno.
È stata condannata per omicidio l’ex agente di polizia Kimberly Potter che ad aprile aveva ucciso il giovane Daunte Wright vicino Minneapolis, durante un fermo, scambiando – si è sempre giustificata – la pistola per il taser.
Siamo così giunti all’ultimo appuntamento dell’anno. Da parte mia non posso che ringraziarvi tutte e tutti. Siamo cresciuti tanto, si sono instaurate nuove amicizie e nuove conoscenze preziose. Non potevo pretendere di meglio da questo (piccolo) progetto. Adesso ci prendiamo una pausa, meritata non so, ma opportuna di sicuro! Non c’è una data stabilita per il ritorno, ma sarà entro il mese di gennaio, vi terrò aggiornati sui social o tramite la stessa nl. Chiudiamo come di consueto: domande? Suggerimenti? Potete rispondere alla mail, oppure scrivermi su Instagram o su Twitter. Se Mookie vi piace, iscrivetevi e fate iscrivere le amiche e gli amici!
Godetevi al meglio questi giorni di feste, ci leggiamo nel 2022! A presto!