Negli Stati Uniti, dal 1979, giugno è il Black Music Month (African-American Music Appreciation Month dal 2009) e per l’occasione, ogni martedì sera, siamo stati ospiti di Soul (R)Evolution su Radio Milano International, per celebrare a modo nostro la ricorrenza. Quest’anno è stato un mese meno intenso di quello del 2020, ma non meno importante o privo di avvenimenti fondamentali o, proprio allo scadere, di nuovi spunti di riflessione. È stato un bellissimo esperimento, magari da replicare in qualche altra forma nel futuro, dato che per noi, tutto questo, non si è esaurito il 30 giugno.
Bentrovati su Mookie, la newsletter che è Black Music Month tutto l’anno.
Una puntata diversa dal solito, insomma. Quelli che leggerete sono gli interventi del vostro fedelissimo su Radio Milano International nel mese di giugno, il Black Music Month, appunto, all’interno di Soul (R)Evolution, il programma ideato e condotto da Fabio Negri. Sono catalogati per ordine di uscita e chi ha seguito nelle scorse settimane tanto la newsletter quanto la radio, in diretta oppure on demand su MixCloud, può aver notato indizi qua e là che anticipavano i temi trattati poi su SLRVLTN e letti in modo impeccabile da Fabio. Perlopiù sono argomenti di cui avevamo già scritto, ma ce ne sono anche di inediti, almeno da queste parti (i testi sono stati rielaborati in alcuni passaggi per evitare ripetizioni o ridondanze).
Non mi dilungo oltre: buona lettura e buon ascolto, naturalmente.
Mookie x SLRVLTN ・ 1 giugno 2021
Raccontare il presente. Alla musica nera è sempre venuto bene. Intendiamoci: la musica in generale descrive il presente, denuncia, si oppone, è strumento di ribellione. Ma anche negli anni delle grandi contestazioni giovanili, superato l’ostacolo del momento, risolto il problema, si voltava pagina e si cercavano nuovi avversari, nuovi nemici.
Quelli, del resto, non mancano mai.
Ma così non andava ai musicisti neri. Questa libertà non era loro concessa. L’arte afroamericana, la musica, i balli e tutto il resto, erano il risultato di un passato divenuto presente, uno spazio temporale – immobile, lo potremmo definire, al di là di qualsiasi miglioramento i neri abbiano mai potuto osservare, dalla schiavitù ad oggi –, che rende quello stesso presente infinito, un moto perpetuo.
Il Black Music Month venne istituito nel 1979 dal presidente Jimmy Carter, a seguito di una lunga stagione di riforme, a sua volta frutto di proteste, violenze, disperazione. Niente che però sia riuscito a scardinare il razzismo, la sua sistematicità spesso legittimata dai decisori nei diversi angoli di America. Più di recente, Obama ha ribattezzato la ricorrenza in African-American Music Appreciation Month, rendendo finalmente omaggio a quei musicisti che hanno contribuito allo sviluppo di una cultura americana.
Is it because I'm black?, domandava Syl Johnson nel 1969. Un quesito che da solo immortala intere generazioni di dimenticati e che nel 2020 Salaam Remi fa ripetere tra gli altri a CeeLo Green, in una cover accompagnata da un video impressionante che ripercorre le tragedie degli ultimi anni: Tamir Rice, Eric Garner, Trayvon Martin, Michael Brown…
Un brano fondamentale, a pochi giorni dal primo anniversario della morte di George Floyd.
Mookie x SLRVLTN ・ 8 giugno 2021
Le donne ci sono sempre state, se pensiamo alla musica nera. Nonostante la cultura machista – che, ahinoi, di tanto in tanto ci tocca ancora osservare – abbia spesso tentato di spingerle in un angolo, non riconoscendo meriti e successi – o almeno: non nel modo adeguato –, loro, le donne, ci sono sempre state. Senza paura.
Anzi, potremmo dire addirittura che la musica nera, così come la conosciamo, esiste perché, citando Amiri Baraka, le grandi cantanti degli anni ‘20 – in particolare Ma Rainey e Bessie Smith – «portarono il blues a una compiutezza tecnica e ad un livello di spettacolo mai conosciuti prima».
Tuttavia le donne sono state per secoli vittime di stereotipi sociali, mezzi meschini per giustificare abusi o lacune altrui, degli uomini. Ma le donne, dicevamo, ci sono sempre state, impavide in prima linea. Possiamo riconoscere questa immensa forza in Billie Holiday e Nina Simone, in Beyoncé e Amanda Gorman. Epoche diverse, stessa dedizione.
Procedendo per tropi narrativi, celebriamo allora le Regine della musica nera. Regine come Hatshepsut, che regina, dell’Egitto, lo fu per davvero: un concept che Rapsody racchiude in un disco necessario – Eve del 2019 –, che è la sua «lettera d’amore» alle donne nere. Un po’ come già fece Queen Latifah, che guarda caso l’accompagna in questo brano e che fu tra le prime a ridisegnare i confini di un ambiente, quello dell’hip hop, per troppo tempo a trazione machista.
E che sussurra, al termine della propria strofa:
Just call us Queens.
Mookie x SLRVLTN ・ 15 giugno 2021
È una vicenda di cui dovreste aver sentito parlare, nei giorni scorsi. Nello specifico, a un certo punto, dovreste aver sentito di Biden che si è recato in Oklahoma per commemorare il centenario del massacro di Tulsa.
Tra il 31 maggio e il primo giugno del 1921, il quartiere di Greenwood, a Tulsa, chiamato Black Wall Street, una specie di mecca degli affari per le famiglie nere che l’abitavano, venne – letteralmente – raso al suolo. Era un’isola felice, Greenwood. Segregato, era segregato, ma a differenza di altre realtà più disagiate era autosufficiente: c’erano attività commerciali che prosperavano, alberghi, cinema, ristoranti, biblioteche e tutti i servizi essenziali. Una rarità per l’America delle leggi Jim Crow, soprattutto nel “profondo Sud”. E infatti qualcuno era deciso a fargliela pagare, ai neri di Greenwood. Serviva solo un pretesto.
Il pretesto arrivò. Anzi, arrivò il più facile dei pretesti. Una delle paure più grandi degli uomini razzisti bianchi, da The Birth Of A Nation in poi, che si materializzava davanti ai loro occhi: uomini neri che importunano (o peggio) donne bianche, poco importa se è vero o no. Basta il sospetto. Uno stereotipo che servì in un primo momento a “condannare” il jazz e che giustificherà nel 1955, per così dire, il brutale omicidio di Emmett Till, in Mississippi.
Ecco, anche stavolta andò allo stesso modo: un ragazzo afroamericano che importuna una ragazza bianca in un edificio – una versione poi smentita dalle successive ricostruzioni dei fatti –; alcuni giornali locali che esagerano nei resoconti e incitano alla violenza; la popolazione bianca decisa a linciare l’accusato; la popolazione nera di Greenwood decisa a difendere il giovane. Quello che in seguito è accaduto, ancora oggi non è chiarissimo. L’America ha preferito voltarsi dall’altra parte e insabbiare questa tragedia, troppa la vergogna. Ma adesso sappiamo che molte persone nere persero la vita – secondo le stime furono centinaia le vittime –, che le case e i negozi di Greenwood vennero dati alle fiamme e che mai più il quartiere tornò agli antichi fasti.
C’è voluta una serie tv, Watchmen, per recuperare di recente questo atroce pezzo di storia americana. E ora anche un disco, Fire In Little Africa, uscito il 28 maggio per l’iconica Motown. Un mega-collettivo che riunisce, proprio in occasione del centenario del massacro di Tulsa, alcuni tra i migliori rapper, cantanti, musicisti e artisti visivi dell’Oklahoma. Progetto ambizioso, senza dubbio, che include anche un documentario e un podcast settimanale. Sarebbero tante le cose da raccontare attorno a questo album, ma è il momento di lasciare spazio alla musica.
Questa è North Tulsa Got Something to Say.
Mookie x SLRVLTN ・ 22 giugno 2021
Esiste un “amore nero”?
L’amore dovrebbe essere un tema universale per definizione. E lo è. Ma c’è un tratto distintivo, che è il risultato di tanti elementi che la Storia ha incastonato con precisione chirurgica, per cui possono emergere idee o concetti di difficile comprensione. Assistiamo spesso – in letteratura come nel cinema e nelle arti in generale – ad una doppia narrazione dell’amore, che non si limita, come potrebbe essere per chiunque, all’amore di coppia. È oltre: esiste un amore nero perché esiste un’eccellenza nera da celebrare, e viceversa. L’amore, che sia per il partner o per un figlio, assume perciò un significato profondo, che si fa portatore di esperienze, eredità culturali e orgoglio collettivo.
Non sono necessariamente storie complesse, ma quella distinzione tra l’amore nero e tutto il resto viene spesso rimarcata. Lo fa Teedra Moses in Black Love di Salaam Remi, e lo fa Masego, per citare due esempi recenti.
Awaken, My Love! di Childish Gambino – Donald Glover per tutti gli altri – è un disco del 2016 che riscopre gli anni rivoluzionari dei Funkadelic ed esplora l’amore in tutte le sue sfaccettature, non ultima la genitorialità nera, forse perché il mondo là fuori è percepito come qualcosa di troppo duro da affrontare. Ha scritto Ta-Nehisi Coates: «L’amore che i neri provano per i propri figli è quasi un’ossessione. Voi siete tutto ciò che abbiamo e arrivate a noi già in stato di minaccia. Credo che preferiremmo uccidervi con le nostre mani piuttosto che vedervi ammazzati da quelle strade che l’America ha costruito».
Redbone, il brano che Mookie ha scelto per questo appuntamento, in realtà non parla di genitori e figli, bensì di infedeltà e di un amore forse in crisi, ma per cui vale la pena lottare. E non è un caso che i termini utilizzati – in un’atmosfera à la Bootsy Collins – richiamino il risveglio politico e sociale, un elemento anch’esso imprescindibile dell’esperienza nera.
Mookie x SLRVLTN ・ 29 giugno 2021
Ci sono storie di seconde opportunità che vale la pena raccontare. Ad esempio, quella di Robert Finley, bluesman di 67 anni proveniente dalla Louisiana.
Il nome potrebbe dirvi poco. Il suo primo disco ufficiale risale infatti al 2016, e all’epoca aveva già più di 60 anni. La notorietà arrivò ancora dopo, tra un progetto e l’altro, grazie ad una partecipazione ad America’s Got Talent.
Nel 2015 Robert Finley era stato scoperto, mentre suonava in strada, da qualcuno della Music Maker Relief Foundation, un’organizzazione senza scopo di lucro che sostiene i vecchi, dimenticati musicisti blues, pionieri della musica nera del Sud nonché custodi di preziose memorie.
La sua vicenda non è troppo diversa da quelle di altri musicisti di indiscusso valore, ma che, per qualche ragione, sono rimasti a lungo nel sottobosco dell’industria discografica, o conosciuti tardi dal grande pubblico o riapparsi dopo periodi di quasi oblio: Charles Bradley, Sharon Jones, Lee Fields, per citarne alcuni, accomunati peraltro dalla stessa etichetta, la mitica Daptone Records. E come loro, anche Robert Finley è cresciuto ispirato dai più grandi, come James Brown e B.B. King, che lui suonava nelle basi statunitensi in Europa quando si arruolò negli anni ‘70. Dopo l’esperienza nell’esercito fece ritorno a casa, ma le circostanze lo portarono ad abbandonare gradualmente la musica e a lavorare come falegname. Di recente, i problemi di salute legati alla vista che ormai stava perdendo, lo hanno spinto a riprendere in mano la chitarra. E così arriviamo ai giorni nostri.
Ottenuta una vetrina che per una vita intera non gli era appartenuta, nel mese di maggio è uscito il nuovo disco, il terzo della sua carriera, Sharecropper’s Son, un album – prodotto da Dan Auerbach dei Black Keys con il quale aveva già lavorato – che è lo specchio di uno scenario evolutivo tipicamente americano. Ci siamo fermati spesso a narrare il marcio, ma per fortuna la storia americana è fatta anche di successi e riscatti, di prime e seconde opportunità.
Nel disco, Finley racconta la sua vita di figlio di mezzadro, in Louisiana, in un’epoca che era ancora quella di Jim Crow. Non se la passava male, ma le alternative alla raccolta di cotone di qualcun altro non erano poi molte. È un album che racchiude il suono di un’America che, vista da quaggiù, definiremmo pigramente «rurale», un’atmosfera riconoscibile già in Souled Out On You, la traccia di apertura che Mookie ha selezionato per questa settimana, al culmine di un viaggio in cui si è voluto rendere omaggio alla Black Music in tutti i suoi aspetti.
Altre cose interessanti
Dj Jazzy Jeff e MICK hanno annunciato sui rispettivi canali social che quest’anno non uscirà il loro mixtape Summertime, una serie iniziata nel 2010. Devo ammettere di provare un po’ di tristezza, il progetto era uno dei più attesi nel periodo estivo, una di quelle cose che dai per scontate (finché ci sono). Ci hanno fatto compagnia a lungo, anche nell’estate della pandemia, mentre ora finisce un ciclo. O forse è solo un arrivederci. Per riascoltarli tutti, qui o qui.
Lo scopo dell’esperimento con SLRVLTN è stato esplorare tutti i formati di un universo musicale che, per dirla quasi con Adrian Younge, rappresenta un documento imprescindibile dell’evoluzione di un paese sconfinato e delle sue innumerevoli barriere. Speriamo di esserci riusciti. Inutile ricordare che il suono di Radio Milano International prosegue – anche senza Mookie – e l’appuntamento con Fabio Negri (che ringrazio per questa bellissima opportunità) e la crew di Soul (R)Evolution rimane ogni martedì alle 21.30.
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