Il 20 aprile 2020, mentre un pezzo di mondo era alle prese con lockdown più o meno rigidi a causa della pandemia, usciva (finalmente) su tutte le piattaforme di streaming The Chronic, storico album di Dr. Dre del 1992. Per gli amanti del rap quel momento è stato particolarmente significativo, paragonabile, con le dovute proporzioni, a dieci anni prima, quando i Beatles “sbarcarono” su iTunes. E la scelta della data – 4/20 per dirla con gli americani, una specie di celebrazione della cannabis – non era certo casuale.
Bentrovati su Mookie, la newsletter che ancora non riesce a pronunciare «Smoke weed everyday» a tempo.
Il mercato della cannabis legale negli Stati Uniti è attualmente tra i più redditizi. Come si vede nella mappa, solo in una manciata di Stati (Idaho, Wyoming, Kansas, Tennessee, Alabama, South Carolina) la marijuana è ancora del tutto illegale. In tutti gli altri, l’uso è almeno depenalizzato. Di recente anche lo Stato di New York ha adottato una legge che consente l’uso di marijuana a scopo ricreativo, spianando la strada a un'industria che potrebbe valere fino a 4,2 miliardi dollari nel giro di pochi anni. In Texas, a quanto pare, si sta invece procedendo verso una graduale depenalizzazione.
Sono lontani i tempi di How High (in Italia Due sballati al college), film del 2001 con Redman e Method Man che univa due mondi – quello della weed culture e quello dell’hip hop –, in verità già molto legati tra loro. Alcuni dei più grandi successi rap parlano di erba e legalizzazione. Nell’hip hop, dove spesso si fa un uso smodato di tropi narrativi, brani apparentemente “vegani” (ad esempio Broccoli di E-40, o, anni dopo, di Shelley FKA DRAM e Lil Yachty) si riferiscono alla marijuana.
L’iconico disco di Dr. Dre, The Chronic, presenta fin dal titolo un chiaro riferimento ad uno specifico tipo di erba, peraltro molto in voga in quel periodo (leggenda vuole che a suggerirgli il nome fu Snoop Dogg: «La cronica è la roba delle strade e il tuo album sarà la roba delle strade». O almeno questa è la versione che Snoop dà a Fab 5 Freddy nel documentario Netflix, Grass Is Greener). Diversi artisti provenienti dalla West Coast, i Cypress Hill e B-Real in particolare, hanno condotto battaglie politiche e culturali a favore della legalizzazione. L’approccio dell’America al tema è cominciato a cambiare, davvero, con il referendum del Colorado del 2012, che diede il via libera al consumo, alla coltivazione e alla vendita della marijuana a scopo ricreativo.
Per anni, negli Stati Uniti, la marijuana è stata al centro della famigerata war on drugs, che ha prodotto risultati contrari agli obiettivi teorici, a partire dal fenomeno dell’incarcerazione di massa, con conseguenze negative soprattutto per i segmenti di popolazione più fragili e le minoranze. Il quadro è perciò collocabile, nel complesso, all’interno di una sovrastruttura, per così dire, che da sempre alimenta il razzismo sistemico americano.
Oggi sappiamo che in molti Stati le attività riguardanti la vendita legale di marijuana sono in espansione, offrono lavoro, generano entrate per le casse statali, contrastano, seppure in maniera indiretta, la criminalità (ovunque non si sono registrati aumenti di reati in qualche modo riconducibili allo spaccio illegale). Ma quella che osserviamo è la punta dell’iceberg ed è, a suo modo, l’ennesima questione razziale che l’America ha dovuto affrontare.
Molti anni prima dell’hip hop, era il jazz l’ambiente della marijuana. Louis Armstrong, Duke Ellington e tantissimi altri erano consumatori abituali. Brani come All The Jive Is Gone di Andy Kirk and his Twelve Clouds of Joy, o Reefer Man di Cab Calloway, erano quasi degli inni. Finita l’era del proibizionismo, era giunto il momento di nuove cacce alle streghe. La guerra alla marijuana, in particolare, risponde al nome di Harry Anslinger, direttore del Bureau of Narcotics dal 1931. La sua – accettata da una porzione importante di America bianca – fu una propaganda che presentava fondamenti razzisti, per di più connessi al jazz.
Mentre il blues – abbiamo già visto citando Amiri Baraka – è rimasto a lungo «inviolabile», il jazz è stato al contrario un punto di contatto tra le due culture, bianca e nera. La marijuana, dunque, usata dagli artisti neri era un rischio per gli artisti bianchi che li accompagnavano, o per i fruitori bianchi della musica, nonché habitué dei locali. Il punto era che fumare erba era considerato un affare losco, da bassifondi, una roba da minoranze. La paura più grande? I rapporti sessuali tra uomini neri e donne bianche per colpa della marijuana, o peggio – con i media che sobillavano tali convinzioni – i neri che violentano le donne bianche sotto gli effetti della marijuana. Uno stereotipo, nell’America razzista di quegli anni, che troppi linciaggi e troppi corpi straziati ha provocato da The Birth of a Nation in poi.
Un primo inasprimento delle pene per reati legati all’uso di marijuana – un’anticipazione di quello che sarebbe stato poi – avvenne con il Boggs Act del 1951. Per vedere la situazione migliorare – attenzione: migliorare –, il salto temporale non può che essere ampio, arrivando, appunto, ai giorni nostri. Anche perché, per decenni, la “guerra alla droga” avviata da Nixon ha devastato strade, quartieri, metropoli. Ultimamente JAY-Z è entrato nel mercato della cannabis legale, lanciando il suo prodotto di fascia alta, Monogram (la cui campagna di marketing è stata affidata a Hype Williams, il “regista dei video hip hop”), in collaborazione con la società californiana Caliva. In precedenza era stato nominato Chief Visionary Officer di TPCO, una holding che opera proprio nel settore. La cosa è interessante perché, come ha notato alcune settimane fa Dan Runcie nella sua newsletter Trapital, mentre un numero elevatissimo di neri risulta ancora dietro le sbarre per vicende di marijuana, coloro che hanno finora tratto maggiormente profitto dalla legalizzazione della cannabis non sono neri.
Mentre gli Stati cominciavano a incassare ingenti somme in tasse dalle vendite legali, migliaia di persone venivano arrestate o stavano scontando pene per possesso di cannabis, con la possibilità di stare dentro a lungo a causa di una stortura, derivante dal Violent Crime Control and Law Enforcement Act del 1994, nota come “legge dei tre colpi” che – dove applicata – prevede fino all’ergastolo per chi abbia già ricevuto tre condanne (incluse quelle per reati di piccola entità). Secondo i dati dell’ACLU (American Civil Liberties Union) per ragioni di questo tipo si sono verificati più di sei milioni di arresti tra il 2010 e il 2018 e i neri hanno ancora oggi maggiori probabilità di essere arrestati per possesso di marijuana rispetto ai bianchi, anche negli Stati che l’hanno legalizzata. La marijuana è stata inoltre utilizzata come pretesto – nei casi più gravi come un rigurgito razzista – per “giustificare”, in qualche modo, le morti di Trayvon Martin, Michael Brown, Sandra Bland e Philando Castile.
Comunque, dicevamo, da alcuni anni il business è in crescita. Diversi rapper hanno investito nel settore: Rick Ross, Snoop Dogg (che per la ricorrenza del 20 aprile ha fatto uscire un disco “tematico”, From Tha Streets 2 Tha Suites), Wiz Khalifa, naturalmente B-Real, naturalmente Method Man e Redman, The Game. Tuttavia non sono molti gli imprenditori neri. Talvolta chi vuole intraprendere una carriera del genere incontra difficoltà nell’ottenimento delle licenze, oppure, in generale, vedono sfumare opportunità di altro tipo, per vecchi conti con la giustizia o fatti riguardanti pochi grammi di erba. JAY-Z ha istituito un fondo per le startup, così da aiutare chi intende fare il suo ingresso nel mercato della cannabis legale. Come fosse una sorta di riparazione.
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Uscirà il 12 maggio Educazione rap, il nuovo libro di Amir Issaa edito da add editore, con prefazione di Paola Zukar e contributi esclusivi di Flavia Trupia e Angelica Pesarini.
Qui, invece, è possibile leggere la sua intervista a Mookie.
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