La puntata di questa settimana è un esperimento. È la prima intervista per Mookie. Con Amir Issaa, rapper romano di lungo corso, oggi impegnato in innumerevoli progetti che hanno a che fare con gli Stati Uniti, abbiamo parlato di tantissime cose. Abbiamo parlato di George Floyd, di razzismo in America e in Italia, del suo secondo libro in uscita. E di rap, naturalmente.
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Ci incontriamo a pochi giorni dalla zona rossa. Ma soprattutto ci incontriamo nella settimana in cui, dall’altra parte dell’oceano, a Minneapolis, si sta per aprire il processo contro Derek Chauvin, l’ex poliziotto accusato dell’omicidio di George Floyd. Nel frattempo è uscito fusion a metà, disco di Davide Shorty, fresco vincitore del Premio Lucio Dalla a Sanremo. La traccia che chiude l’album, Non respiro, è un pezzo con Amir Issaa e David Blank, pubblicato la scorsa estate e ispirato alla vicenda di Floyd. La nostra conversazione comincia proprio da qui.
Amir mi ha dato appuntamento nel suo quartiere, Torpignattara, un pezzo di Roma che mescola culture e colori. Sembra di stare a Brooklyn. Tra l’altro, in questo posto sono custoditi alcuni ricordi preziosi della mia infanzia. È una bella giornata.
Mamma non respiro se ho un ginocchio sulla faccia
Vivo al centro del mirino da quando sto nella pancia
La mia gente stanca vittima della sua rabbia
Ostaggi della fame angeli in cielo come Abba
Mamma non respiro è ghiaccio freddo questo asfalto
Ti stringo mentre prego pensando a Soumaila Sacko
La coscienza chiama stai sicuro che rispondo
Porto sulle spalle il peso dell'odio del mondo– Amir Issaa, Non respiro (2020)
La tua strofa in Non respiro comincia con un’immagine eloquente, quella del mirino puntato addosso, perpetuo.
Parlo di tutte le persone che da sempre subiscono discriminazioni. Floyd, purtroppo, è stato per me un pretesto per dire quello che penso su un tema. Quando è successo l’episodio di Floyd sono stato male, in qualche modo l’ho sentito su me stesso. Se sei non bianco e vivi in Italia puoi avere dei problemi di discriminazione. E spesso li hai dalla polizia, quando ti ferma per strada e ti tratta in modo diverso. La società non si è ancora abituata al fatto che ci sono persone italiane che non sono bianche, quelli come me vivono ogni giorno, sulla propria pelle, questo tipo di sospetto. Poi, certo, in Italia la polizia non si spinge fino a quel punto. Ci sono stati dei casi isolati, che sappiamo, ma non mi sento di fare un paragone con gli Stati Uniti. In quel momento, però, volevo rappresentare: il rap è soprattutto questo.
Allora ti chiedo: cosa significa, per te, rappresentare?
Se fai rap parlando di te, in realtà stai rappresentando tante persone che vivono o condividono la tua stessa situazione. È una cosa che ho sempre riscontrato, già dalle prime canzoni in cui raccontavo della ricerca di un’identità. Nel 2006-2007, con il mio primo album solista, Uomo di prestigio, uscito con la Virgin, cominciai a descrivere la realtà di chi vive in Italia e ha genitori stranieri, ha un nome diverso e viene discriminato. In quel periodo c’erano ragazzi che mi contattavano su MySpace, dicendomi: «Hai raccontato una cosa tua, ma è come se avessi raccontato la mia vita, perché anche io ho vissuto la medesima situazione». Da lì ho capito che fare rap è sì farlo per me, ma anche rappresentare le persone come me. Quindi in Non respiro volevo parlare di chi viene discriminato, non solo di me e non solo di Floyd.
Come siete arrivati alla produzione di Non respiro?
Come ti ho accennato, quando è successo l’episodio di Floyd sono rimasto colpito e dopo un po’ di giorni avevo notato che le persone intorno a me, o non si esprimevano – gli artisti soprattutto e anche tanti rapper italiani – oppure i pochi che erano intervenuti lo avevano fatto scrivendo due righe su un post. Perciò ho avvertito una responsabilità. Con la mia storia alle spalle – ho avuto un papà immigrato egiziano in carcere per anni, ho conosciuto la discriminazione, faccio rap da tanto, conosco anche la situazione degli Stati Uniti perché ci vado spesso per lavoro –, non potevo limitarmi ad un post sui social, così ho pubblicato un freestyle, George Floyd Freestyle. In principio è stato lo sfogo di una domenica mattina, pochi giorni dopo l’uccisione di Floyd: mi sono svegliato e ho avuto un vero e proprio impeto.
È stato bello perché a quel punto Davide Shorty, tra i pochi ad aver fatto qualcosa di simile alla mia, mi ha proposto un pezzo insieme. All’inizio eravamo noi due. Lui ha prodotto la prima bozza della base, me l’ha mandata, io ho scritto la mia strofa, gliel’ho fatta ascoltare, ci siamo detti «figo» e poi, ancora lui, ha avuto l’idea di inserire nel progetto David Blank. Nei giorni che lavoravamo alla canzone, Blank aveva denunciato sui social di aver subito a Milano una perquisizione da parte delle forze dell’ordine in cui era stato trattato piuttosto male, tra l’altro mentre rientrava dalla manifestazione di Black Lives Matter. Apro una parentesi: David Blank è corista di Laura Pausini, è di un livello professionale molto alto, il suo è stato un caso di autentico pregiudizio, il pensiero che le persone che hanno la pelle di un certo tipo di colore sono negative. È da questi eventi che è nato il brano e da lì si è arricchito di strumenti. La tromba che si sente in apertura è di Cyrus Mackey, un ragazzo di Chicago che oltre a suonare fa rap e canta. Questo è stato possibile perché Shorty, che è un artista completo, ha contatti con musicisti in tutto il mondo. È un brano collettivo, che ha dentro tantissimo.
Nel recente passato abbiamo assistito a situazioni tragiche che hanno scosso le coscienze: Trayvon Martin nel 2012, Eric Garner, Michael Brown e Tamir Rice nel 2014. L’anno dopo c’è stato il caso di Freddie Gray, poi quelli di Alton Sterling e Philando Castile nel 2016. Ma la reazione corale successiva alla morte di George Floyd, anche fuori dagli Stati Uniti, forse non ha eguali.
Sicuramente, con una pandemia in corso, eravamo tutti più sensibili e messi a dura prova. Ma credo che il motivo principale sia dovuto ai filmati che girarono subito dopo l’episodio, immagini che non lasciano alcun dubbio su quanto successo. Qui non c’è niente da interpretare. È stato ripreso anche l’atteggiamento degli altri poliziotti che erano sul luogo della tragedia, è stata ripresa la reazione dei passanti, tutto, dall’inizio alla fine. Era una pentola a pressione che doveva esplodere, c’era già questa tensione, negli Stati Uniti e a livello mondiale, perché ai confini di tante nazioni ci sono ancora persone perseguitate e che vengono massacrate di botte. Floyd ha acceso una miccia, non è un caso che io abbia voluto citare nella mia strofa i casi di Abba e Soumaila Sacko.
Ferite ancora aperte.
Quando ho scritto il pezzo per Floyd, sono voluto uscire dallo stereotipo del rapper italiano che imita i rapper americani. Quello di Floyd è un fatto che succede dall’altra parte del mondo e ti fa male, poi ti guardi intorno e pensi: «Cazzo, pure qua ci sono queste situazioni, Idy Diene a Firenze, Macerata...». Quindi non bisogna aspettare che succeda qualcosa altrove, perché anche da noi abbiamo molto da fare sul razzismo e sulle discriminazioni. I ragazzi che ascoltano Non respiro andranno poi a informarsi, spero, su Abba, un ragazzo nero ucciso a Milano anni fa, e su Soumaila Sacko, sindacalista e bracciante maliano, al quale hanno sparato in un deposito di lamiere. Siamo d’accordo: non è la polizia che ferma Floyd e gli mette un ginocchio sul collo, ma sono comunque storie di razzismo. Il mio scopo è dare un contributo alla causa con la musica e sensibilizzare gli ascoltatori su questo tema, specialmente i più giovani.
Però il tuo legame con l’America è profondo...
Assolutamente. Gran parte del mio lavoro, adesso, è quello di rinnovare l’immagine dell’Italia nei corsi universitari dedicati in America. Da alcuni anni, infatti, mi reco spesso negli Stati Uniti, girando le università e collaborando con professori, perlopiù italiani, che lì insegnano italiano e cultura italiana.
Chi sono gli studenti ai quali ti rivolgi?
Dipende. In generale sono figli o nipoti, soprattutto nipoti, di immigrati italiani, a volte sono ragazzi appassionati del nostro paese. Quello che faccio io è entrare in un corso di “Italia contemporanea” e far capire loro che anche in Italia ci sono persone, come negli Stati Uniti, che hanno origini diverse, che sono figli dell’immigrazione – tipo me, cresciuto a Roma in una comunità multietnica che era quella di Flaminio – e che contribuiscono con la loro cultura alla crescita del paese. Con gli studenti analizziamo i testi delle mie canzoni, dove affronto il tema delle seconde generazioni e di come evolve la società. Parliamo del primo libro che ho scritto, Vivo per questo, in cui c’è la mia storia e quella di mio padre. In più facciamo anche un laboratorio di scrittura, con rime in italiano. Spesso mi accorgo che gli studenti che hanno la possibilità di venire in Italia con frequenza sono aggiornati sui cambiamenti, ma chi la studia sui libri e basta, o la osserva da lontano, ha un’immagine molto stereotipata. Pensa alla dolce vita di Fellini, al cibo, alla moda e a tutte quelle cose che hanno reso celebre l’Italia nel mondo, ma che non necessariamente rispecchiano l’attualità. Un altro aspetto interessante di questo lavoro è che ogni volta che sono lì riesco a ritagliarmi uno spazio per capire più a fondo gli Stati Uniti.
E cosa hai capito dell’America?
Diciamo che frequentare le università mi ha portato a visitare luoghi che probabilmente da turista non avrei mai toccato. Sono stato in Ohio, in Vermont, ho girato tanto. Quando sono andato la prima volta era in New Hampshire, lontano dalle mie convinzioni, lontano dai grattacieli. Pensavo che avrei potuto incontrare rapper che vendono mixtape ad ogni angolo delle strade, invece non ho visto niente di tutto questo. Avevo stereotipi sul rap, la sicurezza che tutti lì capissero di hip hop, ma mi sono accorto presto che ci sono ragazzi che non conoscono i nomi degli artisti degli anni ‘90. È buffo, ma se ci pensi molto normale, del resto anche noi possiamo non sapere tutto della nostra musica. In compenso ho avuto l’opportunità di esplorare quelli che negli Stati Uniti chiamano Hip Hop Studies. Ad esempio una volta, alla San Diego State University, ho partecipato al panel di un professore, Roy Whitaker, su hip hop e spiritualità, mentre da noi siamo fermi al rap che è “la musica dei ragazzini”. La verità è che si generalizza troppo. Dire che gli americani sono in un modo o in un altro, parlando di una popolazione così vasta, è sbagliato.
Comunque a New York sei stato più volte e hai girato ben due video.
Sì, Il rap mette le ali e Still prestigio. Ti racconto questo aneddoto. Nel mio primo viaggio di lavoro arrivo al Dartmouth College, un istituto privato di alto profilo che si trova, appunto, in New Hampshire. La cittadina non rappresentava la mia idea di America, né i ragazzi erano quel melting pot che mi aspettavo. Allora dico a Flavio, il mio agente: «Prendiamoci due giorni e andiamo a New York». A New York sono letteralmente impazzito. La prima cosa che ho fatto, una volta che ci siamo sistemati a Spanish Harlem, è stata entrare in un negozio di barbiere e tagliare i capelli, come ho sempre visto nei film. Poi ho avuto l’idea di girare il video. Ricordavo quello di Nas, Made You Look, dove lui appare nei cinque boroughs di New York: Bronx, Queens, Brooklyn, Manhattan e Staten Island. Ecco, pretendevo di fare qualcosa del genere, ma non mi ero reso conto della realtà. Il regista – un ragazzo afroamericano che parlava romano perché anni prima, non chiedermi il motivo, era vissuto a Garbatella (il suo contatto mi venne passato da un amico producer) – mi fa: Oh, che stai a di’, New York mica è Roma! Abbiamo impiegato due ore solo per raggiungere un punto diverso della città, alla fine ci siamo dovuti accontentare di girare in un paio di zone, nel Queens e nel Bronx.
A maggio uscirà il tuo nuovo libro, Educazione rap, per add editore. Arrivo dritto al punto: è educazione al rap o attraverso il rap?
Attraverso il rap, senza dubbio. Il libro non è un manuale, non pretende di insegnare ai ragazzi come si fa il rap, è un testo di narrativa con dentro storie, aneddoti, episodi. Lo reputo il seguito di Vivo per questo. Da ragazzino vidi Fa’ la cosa giusta di Spike Lee, dal film sono arrivato a Fight The Power e ai Public Enemy. Ho cominciato ad ascoltare i rapper che citavano personaggi storici come Malcolm X e Martin Luther King, mi sono incuriosito, ho preso i libri, letto le biografie, ho studiato. È anche da qui che nasce Educazione rap, perché oggi, a 42 anni, con un figlio di 20, posso dire che il rap mi ha educato, mi ha insegnato l’uso delle parole, mi ha spinto ad approfondire certi temi: tutte quelle informazioni che provenivano dalla canzoni rap sono state per me delle lampadine che si accendevano e io andavo a scavare. Questo libro arriva dopo un percorso di circa sei anni in cui, collaborando con le università americane, ho capito davvero quale sia il potenziale non solo del rap, ma della cultura hip hop in generale. Non accetto le semplificazioni sul rap, né mi interessano le cose che raccontano molti di quelli che fanno il “rap da classifica”. L’ispirazione l’ho avuta dopo che il testo di una mia canzone venne inserito in un libro per la scuola di Rizzoli Education. Quello fu per me un riconoscimento importante perché, pur essendo uscito dal circuito discografico tradizionale, ho ottenuto il mio disco di platino, la certificazione, cioè, che quello che ho messo in piedi da un po’ di tempo a questa parte ha un senso. Così mi sono deciso a scrivere il mio libro per le scuole e mi sono trovato con add editore di Torino, che all’interno del suo catalogo ha una sezione per i ragazzi, Young Adult. In Educazione rap tratto anche argomenti sensibili per le nuove generazioni in Italia – il razzismo e il femminismo, tra gli altri – e tutte queste cose le analizzo attraverso il rap, che diventa un escamotage per parlare ai ragazzi di quello che succede attorno a loro, ma anche per parlare ai docenti e offrire un punto di vista nuovo. Inoltre non sarò solo in questo viaggio: alcuni argomenti vengono discussi nelle pagine del libro da persone, esperti e accademici, che hanno l’autorevolezza per poterlo fare, come se fosse un featuring in un pezzo hip hop.
Che rapporto hai con il tuo quartiere, Torpignattara? Voglio dire: tanti rapper americani, anche quando diventano molto ricchi e comprano mega ville con piscina fuori città, mantengono una relazione con il luogo di origine. Tu come la vedi?
Credo che il legame con il quartiere sia una cosa molto americana, perché la maggioranza dei rapper italiani ha un background familiare diverso da chi vive negli Stati Uniti. Non è un caso se, anche in Italia, i più interessanti della scena sono quelli che hanno alle spalle una storia difficile. Questa cosa del riscatto tramite il rap è un mito che nasce soprattutto in quel mondo, con la cultura stessa. Per quanto riguarda me, sento di rappresentare una comunità, che può essere quella hip hop o quella dei ragazzi di seconda generazione, ma c’è anche la comunità di Torpignattara, del luogo in cui vivo e dove sono cresciuto.
Una curiosità e chiudiamo. Cosa ascolti di solito, o almeno in questo periodo?
Prima di rispondere, concedimi un’osservazione. Spesso si dice che ormai i rapper americani non abbiano granché da dire nelle loro canzoni. Questa è una scusa che usiamo per giustificare il fatto che molti, qui in Italia, parlano solo di cose frivole. Prendiamo il singolo Rockstar di DaBaby, che pur essendo molto commerciale tocca argomenti comunque importanti. Anche il rapper più coatto, un riferimento alla situazione sociale e politica, fosse solo una rima, lo inserisce, non si volta dall’altra parte. Di un brano come Dior di Pop Smoke, che è morto di recente, è stato fatto un uso politico durante le proteste dei mesi scorsi, un anthem. Ad ogni modo, tra i miei preferiti c’è il giro dei D-Block, The Lox, ovvero Jadakiss, Styles P e Sheek Louch. Parliamo di artisti che hanno ormai più di 40 anni, che nei brani raccontano la loro vita, momenti della loro famiglia. Il rap è un genere così ampio che uno potrebbe ascoltare tante cose diverse: c’è il rap per i più giovani e quello per gli adulti, quello più superficiale e quello più maturo. Chi non lo conosce generalizza, ma quando si entra nel merito ci si accorge di quante sfumature invece ci siano. Va fatto uno sforzo, che è quello di tradurre i testi perché tanti di noi, anche della mia generazione intendo, hanno ascoltato per anni questa musica senza capire una sola parola, facendoci idee tutte nostre, «quello è gangsta, quello no», e via discorrendo. A Roma, negli anni ‘90, in molti snobbavamo il rap della West Coast perché per noi era “commerciale”. «Noi ascoltiamo il rap di New York», dicevamo. Che cazzata.
Avete letto la prima intervista di Mookie e vi ringrazio per essere arrivati fino in fondo. Al solito: dubbi? Domande? Suggerimenti? Potete rispondere alla mail, se vi va, oppure commentare o scrivermi su Twitter, Instagram, Facebook. Se Mookie vi piace, iscrivetevi e fate iscrivere le amiche e gli amici alla newsletter.
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