Questo mese si celebrano i dieci anni di Black Lives Matter. Nato nel 2013 dopo l’assoluzione di George Zimmerman nel processo per l’omicidio di Trayvon Martin, il movimento ha ottenuto il picco di notorietà nel 2020 – nonostante le proteste osservate già negli anni precedenti, soprattutto quelle avvenute tra il 2014 e il 2016 –, a seguito della morte di George Floyd, a Minneapolis. Nel frattempo, secondo le rilevazioni del sempre utile Pew Research Center, la maggior parte dei cittadini statunitensi afferma che l’accresciuta attenzione per le questioni razziali non si è tradotta in cambiamenti che hanno migliorato la vita dei neri. Di recente la Corte Suprema ha messo al bando l’affirmative action, ovvero la pratica che aveva fin qui permesso ai giovani socialmente più svantaggiati – perlopiù appartenenti a minoranze – di essere ammessi nelle università e nei college americani. Si trattava di un sistema forse imperfetto, ma di cui gli Stati Uniti hanno avuto un gran bisogno. Certo è che nel giro di un anno, cioè dal ribaltamento della Roe v. Wade all’affirmative action, passando per il debito studentesco, la Corte Suprema – a conferma di come le scelte dei cittadini possano avere un impatto talvolta persino indesiderato, sebbene in apparenza slegato dal singolo esito elettorale, all’interno di un complesso sistema di bilanciamento dei poteri quale è quello statunitense – ha già delineato il campo dei temi per la campagna presidenziale 2024, se non addirittura fornito dei veri e propri assist. In compenso, almeno sul processo elettorale messo in pericolo in diverse occasioni, «la Corte Suprema ha fatto la sua parte».
«Discrimination still exists in America». Joe Biden lo ha ripetuto più di una volta, commentando la decisione della Corte Suprema sull’affirmative action. Le discriminazioni sono ovunque – inutile fare i moralisti da qui –, ma continuano ad apparire endemiche negli Stati Uniti per ragioni storiografiche profonde, che stare a ricordare ora è superfluo. Ma siccome la Corte Suprema si è espressa, inoltre, sul ricorso di una web designer del Colorado che anni fa si era rifiutata di lavorare per una coppia gay perché contraria al matrimonio tra persone dello stesso sesso per motivi religiosi, dandole ragione, il dibattito di queste ultime settimane su cosa sia ancora discriminatorio in America è risultato piuttosto esteso.
Ciao! Qui Mookie, una newsletter di Fabio Germani che tratta di America in relazione al rap e alla musica nera. Per contribuire a questo umile progetto basta poco: un like, una condivisione, il passaparola. Ogni vostro piccolo gesto può essere incredibilmente utile: grazie!
Perché partire da Black Lives Matter e finire con la web designer del Colorado? Lo scorso anno, l’indomani del ribaltamento della Roe v. Wade, il (controverso) giudice Clarence Thomas non ha escluso un ulteriore intervento – a suo dire «correttivo» – sui matrimoni tra persone dello stesso sesso, riferimento alla sentenza del 2015 che garantisce tale diritto. In teoria il Colorado è uno dei 29 Stati che, a vari livelli, vietano in modo esplicito le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere e la recente decisione della Corte Suprema può rappresentare, intanto, un’iniziale minaccia ai diritti LGBTQ.
Now, I just fell in love
And I just quit my job
I’m gonna find new drive
Damn, they work me so damn hard
Work by nine, then off past five
And they work my nerves
That’s why I cannot sleep at night– Beyoncé, BREAK MY SOUL, 2022
Sempre all’estate dello scorso anno risale RENAISSANCE di Beyoncé, un omaggio danzereccio, come da tradizione generale, alla cultura queer nera, in particolare nel ricordo dello zio Johnny. Ma quando si parla di tutela dei diritti delle minoranze, alcune materie diventano estremamente delicate.
Ancora una volta ci viene incontro il Pew Research Center: nel complesso le persone LGBTQ lamentano una serie di discriminazioni subite, ma ciò avviene con maggiore frequenza tra le persone LGBTQ nere. Grossomodo va così, semplificando di molto la questione: se essere neri negli Stati Uniti è significato per decenni – con riflessi nel nostro tempo – fare i conti con gli svantaggi tipici di una società segregata, figurarsi, ad esempio, essere neri e omosessuali. Tanto più che le influenti sacche di conservatorismo religioso hanno contribuito alla creazione di una dimensione discriminatoria interna alla stessa comunità nera. Nel caso dell’hip hop non sarebbe del tutto corretto parlare di valori conservatori – non sempre, almeno: la verità è che esistono o sono esistiti anche nell’hip hop, in alcuni specifici segmenti –, ma di cultura machista, sì. Una cultura che in primis il femminismo nero ha provato a demolire, non senza difficoltà, e che adesso viene spinta ai margini da una rinnovata consapevolezza, oltre le etichette convenzionali.
Per quanto il razzismo sia da sempre un elemento catalizzatore, molti neri americani sostengono ormai che tutte le disuguaglianze vadano affrontate, a partire da quelle relative alla sfera sessuale e di genere (torna comodo il link al Pew Research Center di prima). Settimane fa, quando è uscito il remix di AMERICA HAS A PROBLEM di Beyoncé, c’è chi ha avuto da ridire sulla presenza di Kendrick Lamar, proprio perché RENAISSANCE è un omaggio danzereccio alla cultura queer nera. Lo strascico di polemica deriva da Auntie Diaries di Lamar, pezzo contenuto all’interno dell’acclamatissimo Mr. Morale & The Big Steppers, dove prende di petto la transfobia, partendo dalle sue esperienze familiari. Solo che per farlo, ripete spesso un insulto omofobo, e anche se tutto andrebbe messo in contesto – in definitiva è di rap che stiamo parlando –, all’epoca la cosa non lasciò indifferenti gli ascoltatori e i commentatori. Eppure la descrizione dell’intimo processo di accettazione è faccenda tutt’altro che scontata: è un viaggio lungo e tortuoso nell’hip hop, che pone Kendrick Lamar – il quale peraltro fa autocritica – sul medesimo piano di JAY-Z nel 2017.
Mama had four kids, but she’s a lesbian
Had to pretend so long that she’s a thespian
Had to hide in the closet, so she medicate
Society shame and the pain was too much to take
Cried tears of joy when you fell in love
Don’t matter to me if it’s a him or her
I just wanna see you smile through all the hate
Marie Antoinette, baby, let ‘em eat cake– JAY-Z, Smile, 2017
Del resto non possiamo fare finta di niente: circa 50 anni fa dei giovani hanno creato nelle strade diroccate del Bronx un movimento che pescava dal “vecchio” per realizzare qualcosa di innovativo, qualcosa di audace, un messaggio politico dissacrante, ma, di evoluzione in evoluzione, quello stesso movimento è rimasto ancorato ad alcuni “dogmi”. Vera o presunta – ammesso che sia consentita una qualsiasi formula assolutoria –, l’omofobia è stata a lungo radicata nell’hip hop, dai testi rap (chiedere anche ad Eminem, sebbene abbia poi espresso pentimento al riguardo) agli atteggiamenti inopportuni, o alle provocazioni più recenti di DaBaby. In realtà le cose stanno gradualmente migliorando e nell’ultimo periodo si è potuta osservare un’inversione di tendenza, anche grazie ad artisti quali Frank Ocean, serpentwithfeet, Big Freedia (che con Beyoncé ha collaborato in BREAK MY SOUL e già nel 2016 nell’album Lemonade), Lil Nas X, Shea Diamond, Kehlani, Kodie Shane, ILoveMakonnen, Doja Cat e, ancora, serie tv come P-Valley e in parte The Chi. All’inizio degli anni ‘90, con la musica rap che cominciava ad avere un seguito davvero consistente, era pressoché impossibile venire a conoscenza dell’omosessualità di un artista, l’argomento era top secret. Semmai quest’ultimo poteva trasformarsi in un pretesto utile ad insultare l’avversario di turno e alimentare eventuali beef, come fece Eazy-E nei confronti di Dr. Dre, quando tra i due c’era maretta. La vecchia guardia ha faticato molto in questo senso. Per capirci: Da Brat ci ha messo più di 20 anni per fare coming out (al netto delle sue motivazioni); per Mister Cee fu tanto più dura raccontare la propria storia.
Se quello delle discriminazioni sarà un tema rilevante nella campagna elettorale del 2024, allora sarà interessante constatare l’incastro di attivismo, politica e musica. D’altro canto, fu Kanye West tra i primi artisti hip hop noti al grande pubblico a denunciare l’omofobia nel rap. Avveniva nel 2005, in un’intervista a MTV. Sembra passata una vita, eh?
Altre cose interessanti
Insomma, Donald Trump, li sta infrangendo proprio tutti i record.
Consigli di lettura: su Jefferson trovate una lunga e doverosa panoramica sulla Corte Suprema, come funziona, quello che fa, eccetera eccetera.
Al via le manovre per consentire ad Hakeem Jeffries di puntare al ruolo di primo speaker della Camera nero.
Alla Brooklyn Public Library c’è una mostra dedicata all’incredibile carriera artistica e imprenditoriale di JAY-Z, The Book of Hov, che si può “visitare” anche online.
Dr. Dre sa eludere il conflitto generazionale come pochi.
Questa è curiosa davvero (ma non troppo, se si è seguita la vicenda nel corso degli anni): la polizia di Las Vegas ha eseguito pochi giorni fa una perquisizione in una casa in relazione all’omicidio di Tupac.
Nas e Hit-Boy sono tornati.
D’estate, purtroppo, ci leggiamo in maniera saltuaria. Me ne scuso, ma in circa tre anni ho capito che è una condizione abbastanza normale in questa fase dell’anno. Ad ogni modo era importante proporre un breve ripasso delle cose accadute durante la prolungata assenza, motivo per cui ho deciso di inviare un’ultima newsletter prima di congedarci. Mookie, infatti, tornerà la prossima settimana con la consueta puntata di fine stagione, dopodiché appuntamento a settembre: cominceremo, a passi lenti, ad entrare nel vivo della campagna elettorale. Un saluto affettuoso ai nuovi arrivati, il resto lo sapete già.
La playlist di Mookie è pronta: a voi non resta che premere il tasto play. Domande? Suggerimenti? Potete rispondere alla mail, oppure scrivermi su Instagram, su Twitter o su Notes. Se Mookie vi piace, mandate il link alle amiche e agli amici!
Alla prossima settimana, ciao!