La puntata di questa settimana rappresenta un ideale seguito di America Is Listening. Non è indispensabile aver letto quest’ultimo, ma per un quadro più completo può essere certamente d’aiuto. Torniamo a leggerci dopo lo stop forzato di Pasqua, nel frattempo spero vada tutto per il meglio, compatibilmente con i tempi ancora duri che stiamo vivendo.
Ad ogni modo, bentrovati su Mookie: la newsletter che non ama lasciare le cose a metà.
L’aneddoto lo raccontò il diretto interessato, anni fa. Si trovava ad un concerto di James Brown. Ad assistere allo spettacolo c’erano anche Magic Johnson e Woody Harrelson, e James Brown invitò entrambi sul palco: «Signore e signori, Magic Johnson!»; «Signore e signori, Woody Harrelson!». Finalmente era arrivato anche il suo turno: «Signore e signori, Mister… Mister… Mister Born in The USA!». Bruce Springsteen non ci mise molto a capire che James Brown non sapeva il suo nome. Ma James Brown poteva permettersi questa e altre gaffe, per almeno due validi motivi. Il primo, fuori dai denti, perché agli occhi di chiunque – neri e bianchi – lui era James Brown.
La seconda ragione, più intima per Bruce Springsteen, era che James Brown rappresentava un mito, soprattutto per come si mangiava il palco: «È una cosa indescrivibile, stare sul palco accanto a James Brown… io ero tipo, Ma che cazzo ci faccio qui?».
Springsteen ricordò il fatto durante il suo keynote address del 2012 alla South By Southwest Music Conference (SXSW) di Austin, Texas. Da quel discorso nacque poi l’ebook La nota giusta. Uno dei passaggi più significativi è il seguente:
C’è uno splendido pezzo soul a sfondo sociale di Curtis Mayfield & The Impressions, We’re a Winner: Keep On Pushin’... Dischi fantastici, fantastici, che riempivano l’etere in un’epoca in cui ne avevi un bisogno fottuto. Un bisogno fottuto.
A Woman’s Got Soul: che disco fantastico, per le donne. It’s All Right, la colonna sonora del movimento per i diritti civili. E fu lì, in mezzo a quegli artisti afroamericani, che imparai il mio mestiere. Si imparava a scrivere. Si imparava ad arrangiare. Si imparava a distinguere tra quello che importava e quello che non importava. Si imparava a riconoscere il suono di una produzione ben fatta. Si imparava a gestire una band. Quegli uomini e quelle donne erano e rimangono i miei maestri.
Quando Barack Obama gli chiede di indicare le tre, quattro o cinque migliori canzoni di protesta – e qui dobbiamo aprire una piccola parentesi: il podcast Renegades: Born in the USA in esclusiva su Spotify è un must hear –, la prima che Springsteen nomina è Fight The Power dei Public Enemy. Anche questo non è un caso. Nel 2014, alla Npr, parlò del rap come di qualcosa che lo ha sempre ispirato.
In un momento particolare c’era White Lines, che parlava di quello che accadeva nelle strade, di quello che succedeva in città, con le persone che stavano lottando [...]. (Il rap) è stata la musica che ha dato voce a quelle cose al di là di ciò che allora veniva considerato un contesto musicale di protesta, e lo ha fatto in un modo fantastico. Non sono un esperto, ma nel corso degli anni ho ascoltato Public Enemy, Notorious B.I.G., Tupac, Kanye West. Kanye West è incredibile.
Qualche tempo dopo ha aggiunto Kendrick Lamar alla lista. Ma questo è un altro discorso.
Nel terzo episodio di Renegades, Obama e Springsteen parlano di musica, che l’ex presidente – primo album acquistato Talking Book di Stevie Wonder – introduce quale collante delle diversità in America e contestualmente specchio delle linee di frattura della società statunitense. Anche la musica, infatti, così come altre forme d’arte, è stata parte del processo di assimilazione che ha solitamente premiato, un po’ a prescindere, i bianchi più dei neri. Per rendere l’idea: Benny Goodman era il “re dello swing” più di quanto lo sia mai stato Duke Ellington. E sebbene Elvis Presley e Bob Dylan siano stati punti fermi della vita artistica di Springsteen, c’era un mondo là fuori che lo coinvolgeva – le amicizie per cominciare, nonostante «regole non scritte», come le definisce, e restrizioni di fatto –, portandolo a comprendere situazioni distanti dalle convinzioni provinciali e parecchio razziste di Freehold, New Jersey, già teatro di rivolte e disordini tra il ‘65 e il ‘69, un mondo che era fatto di Marvin Gaye e Curtis Mayfield, fino ad arrivare, più tardi, a Grandmaster Flash & The Furious Five. Di nuovo: è quello il contesto che ha permesso a Springsteen di scrivere alcune delle sue canzoni più famose.
A un certo punto entra in ballo anche Mookie. È quando Obama pensa a Fa’ la cosa giusta di Spike Lee, in particolare alla scena in cui Mookie interroga Pino sul giocatore di basket preferito (Magic Johnson) e poi sul cantante preferito (Prince). Quel passaggio del film riassume in pochi istanti le ragioni assimiliazioniste – Magic Johnson e Prince sono «più che neri», sostiene Pino – di chi, scomodando Ibram X. Kendi, «esprime l’idea razzista che un gruppo razziale sia inferiore dal punto di vista culturale o del comportamento, e appoggia programmi di arricchimento dal punto di vista culturale o comportamentale per promuovere lo sviluppo di quel gruppo razziale». La risposta che Springsteen dà allora a Obama è un dato di fatto: amiamo le persone nere quando ci intrattengono, ma se quelle stesse persone vivono alla porta accanto alla nostra, torniamo ad essere una società tribale. Vale per l’America, naturalmente, ma parla molto a noi europei e restituisce la misura di una dicotomia che sta alla base della ricerca cui la vostra newsletter di fiducia aspira, a partire proprio dal nome. Anche questo, però, è un altro discorso.
È opportuno, invece, tenere conto di questi elementi osservando l’America del 2021. E in particolare la Georgia, dove i repubblicani sono tornati alla carica l’indomani della vittoria di Joe Biden – un democratico che la spunta qui è un evento raro e in più vanno aggiunti i risultati dei ballottaggi del 5 gennaio per il Senato – per rendere oltremodo difficoltoso l’accesso ai seggi elettorali attraverso iniziative che penalizzino chi, quasi certamente, non voterà per loro, perlopiù minoranze e poveri, vanificando perciò il lavoro straordinario di persone coraggiose come Stacey Abrams. C’è un’America che fatica a riconoscere i propri errori, che preferisce voltarsi dall’altra parte, che insiste imperterrita. C’è un altro pezzo di America che ha necessità di guardare ad un futuro più che mai incerto e che rifiuta l’idea delle riparazioni ad un male che non avverte come il proprio, un male che non ritiene di avere inflitto in maniera diretta, rendendo il dibattito – seppur giustificato – quantomeno controverso, come suggerisce Obama nel secondo episodio di Renegades. Tuttavia a Evanston, un sobborgo a nord di Chicago, Illinois, è stato approvato per la prima volta negli Stati Uniti un piano di risarcimenti per i residenti afroamericani, vittime in passato di politiche discriminatorie. Il programma consiste in dieci milioni di dollari distribuiti in dieci anni ed è rivolto ai discendenti delle persone che hanno vissuto nella città tra il 1919 e il 1969. Quello delle riparazioni è un tema essenziale per capire un pezzo di storia delle “due Americhe”, già oggetto di indagine di Ta-Nehisi Coates, il quale pubblicò nel 2014 il saggio The Case for Reparations su The Atlantic.
In questo senso la musica è sempre una chiave di lettura interessante. Lo abbiamo già visto, da Amiri Baraka ad Adrian Younge, in quanto «portatrice della memoria collettiva». Se ne parla anche nel terzo episodio di 1619, podcast del premiato progetto del New York Times curato da Nikole Hannah-Jones (il 1619 è ritenuto l’anno in cui ebbe inizio la schiavitù in America, o meglio, la data della prima importazione di neri in America). Il giornalista Wesley Morris (che qualcuno tra voi lettori conoscerà per Still Processing, podcast sempre del NYT) osserva che la musica nera ha contribuito a plasmare più o meno tutto quello che siamo abituati ad ascoltare oggi, pur partendo da una storia molto dolorosa. Quello che sentiamo nella musica nera, ciò che attrae così tante persone, è l’esplorazione di ogni aspetto della sfera sociale (opportunità, lotta, conflitto, umorismo, sesso, speranza), ma – aggiunge Morris – è allo stesso tempo il suono di un popolo a cui per secoli è stata negata la libertà. Ed è tristemente ironico, dice, visto che la musica nera è la massima espressione dei valori di libertà fondativi degli Stati Uniti.
C’è un secondo, “ironico”, aspetto da valutare. Quella che a lungo è stata etichettata come race music diventò presto una forma d’arte piuttosto redditizia, ma non sufficientemente da colmare le «linee di frattura». Dopo il 1830 un qualunque intrattenitore aveva enormi probabilità di essere un menestrello con la faccia dipinta di nero, stile Jim Crow di Thomas Dartmouth Rice, mentre per i neri era praticamente impossibile ottenere un riconoscimento in specifici ambiti da parte della White America. Avete mai visto un cowboy nero prima di Django Unchained, che non sia stato in Posse - La leggenda di Jessie Lee del 1993? Eppure sono esistiti. In questi giorni si è discusso abbastanza di Concrete Cowboy, film Netflix con Idris Elba che si basa sul romanzo Ghetto Cowboy (2011) di Gregory Neri. Il film – per quello che conta, straconsigliato da Mookie – ha il merito di portare alla luce la figura del cowboy nero, in particolare nella comunità di Fletcher Street, a Philadelphia (quella del Fletcher Street Urban Riding Club è una storia tutta da scoprire). Non è stata – non è – l’unica comunità di questo tipo presente in America: di recente, anche per ragioni legate al movimento Black Lives Matter, abbiamo fatto la conoscenza dei Compton Cowboys, ad esempio.
Ecco, quella del cowboy nero è un’immagine rimasta sempre nell’ombra, soprattutto a causa della narrazione “western” tipicamente hollywoodiana, ma che negli ultimi anni ha trovato nuovi sbocchi in musica, una commistione country/r’n’b che va da Daddy Lessons di Beyoncé a Old Town Road di Lil Nas X. All’inizio del nuovo millennio era stato Nelly a cimentarsi, senza troppe pretese, nei panni del moderno cowboy nero – specialmente in Ride Wit Me del 2000 – e a proporre un avvicinamento del rap alla musica country in Over And Over del 2004, con la partecipazione di Tim McGraw.
Prima di loro, però, fu Bobby Womack ad azzardare una simile mossa nel disco B.W. Goes C&W del 1976. In realtà non fu il suo primo approccio alla musica country, anche se fu il suo primo album dichiaratamente country, con tanto di cover in versione cowboy. E non andò bene: il disco ebbe poco seguito e per Womack fu motivo di frizioni con la sua etichetta di allora, la United Artists Records. Tuttavia, a ripensarci oggi, B.W. Goes C&W fu un album rivoluzionario perché, mentre la musica nera stava andando in tutt’altra direzione, Bobby Womack affrontò il tema dell’identità razziale al cospetto di un genere musicale (e del mondo che gli ruota attorno) tradizionalmente poco inclusivo. Womack, insomma, anticipò tutti quegli elementi che stiamo ora riscoprendo attraverso il cinema e la musica.
Sebbene l’universo country sia oggi meno spigoloso – almeno a dare per buone le presenze di artisti come Kane Brown, Jimmie Allen e in parte Valerie June e Yola (che però è britannica) –, negli ultimi anni non ci siamo fatti mancare proprio nulla. Un’esibizione di Beyoncé con le Dixie Chicks ai CMA Awards del 2016 ha messo in luce quanto la fanbase di un genere musicale possa essere polarizzata; l’incredibile successo di Old Town Road, che nasceva con intenzioni soprattutto ironiche, è arrivato con l’intervento di Billy Ray Cyrus, salvo poi trasformarsi in una questione di natura razziale per la decisione di Billboard di togliere il pezzo dalle classifiche country.
Non l’abbiamo raccontata proprio tutta tutta. Bobby Womack non sapeva cavalcare, né fu il primo nero a incidere musica country. Quando si presentò alla sua etichetta con la proposta, il titolo che aveva in mente per il disco era Step Aside, Charley Pride, and Give Another Nigger a Try (online si possono scovare molte informazioni al riguardo). Charley Pride era stato fino a quel momento uno dei pochissimi artisti neri a fare country (esclusi gli esperimenti di Ray Charles), insieme a Linda Martell. Oggi lo definiremmo con più disinvoltura tokenismo, ma anche altri provarono lo stesso percorso, pur provenendo da ambienti musicali diversi: Joe Tex, Joe Simon, Millie Jackson. Come ricorda Charles Hughes in Country Soul: Making Music and Making Race in the American South, nel 1968 Joe Simon disse al magazine R&B World: «Farò country, ma per avere successo immagino dovrei cambiare colore». Secondo Hughes, questi dischi furono ideati non solo per mettere in luce la versatilità dei cantanti, ma anche per affermare un’affinità tra le “due Americhe”, country e soul, che la «polarizzata industria musicale» non ha sempre riconosciuto.
La musica nera è musica americana. Perché come americani, affermiamo di credere nella libertà. Ed è quello che diciamo al mondo.
– 1619, episodio 3
Altre cose interessanti
Nelle ultime ore si erano susseguite voci incontrollate e smentite, ma era chiaro da giorni che la situazione fosse critica. Oggi la famiglia ha annunciato che DMX è morto all’età di 50 anni.
Esiste un documentario su Kanye West che è in lavorazione da più di 20 anni. Il progetto (in realtà dovrebbe trattarsi di una docuserie) è stato acquistato da Netflix per 30 milioni di dollari – grazie ad Alessio Samele per la prima segnalazione su Instagram.
Siamo dunque arrivati ai saluti, dovremmo aver messo un punto sul tema. Domanda di rito: dubbi? Suggerimenti? Potete rispondere alla mail, se vi va, oppure commentare o scrivermi su Twitter, Instagram, Facebook. Se Mookie vi piace, iscrivetevi e fate iscrivere le amiche e gli amici alla newsletter.
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