Spread love, it’s the Brooklyn way
Un caloroso applauso per The Notorious B.I.G. eccetera eccetera...
Poco più di un anno fa, a lockdown già iniziato, mentre noi, puntuali alle 18, ci mettevamo sul balcone o in finestra a cantare Azzurro di Adriano Celentano per tentare di scacciare pensieri, ansie e paure da pandemia, dall’altra parte dell’oceano, a New York, si improvvisavano rapper con Juicy di Notorious B.I.G. Per Brooklyn, in quel momento, si trattava della più grande dimostrazione di amore possibile, una forza unificatrice attorno alla figura di uno dei suoi figli prediletti. E di certo non era la prima volta che accadeva qualcosa del genere.
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In The Wilds, serie televisiva di Amazon Prime Video che narra le vicissitudini di un gruppo di adolescenti naufraghe su un’isola deserta (in realtà selezionate per un esperimento sociale), le due amiche Toni e Martha, per farsi coraggio, rappano alcuni versi di Juicy in almeno un paio di occasioni. Una scelta curiosa da parte degli autori, trattandosi di un prodotto uscito a fine 2020: il singolo (forse) più famoso di Notorious B.I.G. risale al 1994, quando in teoria le giovani della serie neppure erano nate.
Tutto può essere, tanti di noi amano artisti o canzoni che erano celebri da prima che nascessimo, ma negli anni della mia adolescenza ricordo le discussioni appassionate di amici e b-boys in erba che si davano di gomito e facevano a gara a chi la sapeva più lunga in fatto di rap. Meglio Tupac o meglio Biggie? Alla fine la spuntava quasi sempre Tupac. E c’erano delle valide ragioni di fondo perché Tupac venisse percepito tra i due l’artista più completo e il più rappresentativo. Sennonché, a un certo punto, è successo che quello più citato in articoli o libri, quello più campionato negli altri brani e più ricordato in discorsi pubblici fosse The Notorious B.I.G., stravolgendo così l’iconografia non solo dell’hip hop, ma della cultura pop in generale.
Non saprei dire bene quando, è successo e basta. Ad esempio si sente la sua voce in Villuminati di J. Cole, pezzo che apre l’album Born Sinner del 2013 (se è per questo di J. Cole ci sono anche video mentre si esibisce sulle strumentali di successi di Biggie, tipo Hypnotize) e in Speak My Piece di Common del 2014. Alla cena dei corrispondenti della Casa Bianca del 2010, Barack Obama chiamò scherzosamente, come da tradizione della serata, l’allora presidente del comitato nazionale del Partito repubblicano, Michael Steele, «Notorious G.O.P.». A inizio 2020, durante il primo processo di impeachment contro Trump al Senato, il deputato di New York, Hakeem Jeffries, che era uno dei portavoce dell’accusa, chiuse l’intervento con il famoso verso di Juicy (presente in tutte le strofe): «And if you don't know, now you know».
Jeffries deve essere un fan sfegatato perché a marzo 2017, a 20 anni esatti dalla morte, omaggiò The Notorious B.I.G. proprio alla Camera, chiamandolo The King of New York. Il titolo di Re venne attribuito a Biggie quasi subito, si può dire già all’uscita del primo disco, Ready To Die, un aspetto da non sottovalutare visto che nello stesso periodo – tra il 1993 e il 1994 – la scena di New York stava riemergendo dopo anni di affanno dovuto, in parte, ai successi che suonavano dall’altro lato dell’America, con il californiano g-funk che scalava le classifiche musicali. Ad ogni modo, per rinforzare l’idea di Re, Jeffries mostrò un ritratto fotografico di Notorious B.I.G. che è considerato tra i più iconici di sempre nella storia dell’hip hop.
La fotografia con la corona in testa, che lo consacrò in maniera inequivocabile King of New York, venne scattata tre giorni prima del suo omicidio, avvenuto a Los Angeles il 9 marzo 1997. Dietro la macchina fotografica c’era Barron Claiborne, il quale aveva acquistato la corona di plastica per sei dollari, la stessa corona che è stata poi venduta a settembre 2020 da Sotheby’s per 594.750 dollari, a conferma di come quella immagine sia diventata un simulacro della cultura pop. Oltre a ricordare l’arte di Jean-Michel Basquiat, fa da sfondo alla brama di potere di Cottonmouth, il cattivo di Marvel’s Luke Cage («Everybody wants to be the King»), ed è stata d’ispirazione per la copertina del libro bestseller del New York Times sulla giudice della Corte Suprema, Ruth Bader Ginsburg, tratto dal blog Notorious R.B.G. di Shana Knizhnik. Non che le foto di Biggie davanti alle torri gemelle siano da scartare quanto a moderna rappresentazione iconografica, però, ecco, sull’importanza della corona di Claiborne ci siamo capiti, no?
Arrivati a questo punto, siamo a un bivio. Possiamo scadere nella narrazione parallela di Biggie e Tupac, della loro rivalità e della faida East Coast-West Coast degli anni ‘90 – cose che, per carità, hanno contribuito alla creazione del mito –, oppure possiamo indagare il perché e percome un ragazzone di nome Christopher Wallace, morto troppo giovane come Tupac Shakur, sia riuscito a diventare il suo alter ego larger-than-life. Ed è quest’ultimo l’approccio che il regista Emmett Malloy sembra avere adottato nel documentario Biggie: I Got a Story To Tell, uscito lunedì 1 marzo su Netflix. Il film non aggiunge granché ai fatti noti (la visione è comunque consigliatissima: l'esplorazione delle origini giamaicane e i pochi secondi di Biggie in versione soul man sono delle autentiche perle), ma dalla sua ha il merito di evitare forzature o di incentrare tutto sul mistero che ruota attorno alle vite strappate di due giovani neri americani.
Perché, dunque, la figura di Biggie è così maledettamente attuale? Riprendendo le parole pronunciate dal deputato Jeffries nel 2017, la parabola di Notorious B.I.G. incarna il sogno americano, anche se – aggiungiamo noi – da una prospettiva tragica. È, anzitutto, una storia di riscatto. Di cadute rovinose e di risalite, di ascesa e potere, di vita e di morte. Pur non avendo reale bisogno – a dispetto di quello che raccontava nei suoi testi (No heat, wonder why Christmas missed us / Birthdays was the worst days / Now we sip Champagne when we thirsty; Juicy) –, il richiamo dei proventi facili fu una calamita per lui ed alcuni dei suoi amici del quartiere, a Bedford-Stuyvesant. Christopher viveva con la madre Voletta (un’insegnante giamaicana) in una casa confortevole, comunque meglio di tanti suoi coetanei, in una terra di mezzo tra Clinton Hill e Bed-Stuy, in più frequentava un’ottima scuola privata ed era molto bravo negli studi. Eppure un ragazzo insospettabile come lui si ritrovò in strada a spacciare crack.
All’epoca Bed-Stuy non era il quartiere fighetto di oggi e ancora rifletteva problemi vecchi di decenni – negli anni ‘60 venne istituito un progetto che coinvolgeva l’allora senatore di New York, Robert F. Kennedy, volto a recuperare l’area a maggioranza nera, poverissima e priva addirittura di servizi essenziali (era considerato il ghetto più grande d’America dopo il South Side di Chicago), tuttavia con risultati alterni e non sempre soddisfacenti –: è su quelle strade che Biggie mosse i primi passi da hustler (imparò bene) e da rapper. Fu arrestato una prima volta nel 1989, poi l’anno successivo per violazione della libertà vigilata e di nuovo nel 1991, beccato stavolta in North Carolina. Nei primi anni ‘90 un giovane maschio afroamericano su quattro poteva avere a che fare con la giustizia penale, in qualche forma: un tema complesso che abbiamo affrontato alcune settimane fa, ora utile per comprendere il contesto. Il rap, finalmente a tempo pieno, fu perciò la sua salvezza.
("Fuck all you hoes!" Get a grip, motherfucker!)
Yeah, this album is dedicated
To all the teachers that told me I'd never amount to nothin'
To all the people that lived above the buildings that I was hustlin' in front of
Called the police on me when I was just tryin' to make some money to feed my daughter (it's all good)
And all the niggas in the struggle
You know what I'm sayin'? It's all good, baby baby
Questa è l’intro di Juicy. Nel suo libro del 2010, Decoded, JAY-Z – JAY-Z e Biggie Smalls, Brooklyn’s Finest – sottolinea il valore della parola struggle (And all the niggas in the struggle), cioè «lotta», un termine, spiega, di solito usato per parlare dei diritti civili e che invece Notorious B.I.G. stravolge per indicare i ragazzi che “si danno da fare” in strada. «La nostra “lotta” – anche JAY-Z viene da quell’ambiente – non era organizzata e nemmeno coerente, non c’erano leader di questo “movimento”», ma era una questione di «fare», appunto, o «morire». Come osserva Ta-Nehisi Coates in un articolo del 2003 per The Village Voice, Things Done Changed, altro brano contenuto in Ready To Die, aveva definito «lo scisma» tra i protagonisti del movimento per i diritti civili e le successive generazioni lacerate dall’epidemia di crack.
Per rispondere alla domanda sulla legacy di Notorious B.I.G., non si può ignorare un concetto: la duplicità dell’eroe. Il suo non era un messaggio rivoluzionario, ma cronaca dell’hustler (Everyday Struggle), accettazione sociale in termini economici (I Love The Dough), tormenti interiori (Suicidal Thoughts). E poi quel legame profondo con Brooklyn, che lo celebrò da vero Re nel giorno dei suoi funerali e che negli anni gli ha dedicato vie e playground, sfidando la gentrificazione e il puritanesimo dei nuovi arrivati. In molti lo considerano il più grande di sempre – uno su tutti: Pusha T –, ma è la morte prematura e violenta ad averlo innalzato al grado di Eroe, uno “status” che condividerà in eterno con Tupac. Proprio lui che la morte l’ha presa di petto in tutti i modi possibili, esorcizzata, per dolorosa ironia della sorte profetizzata.
You're nobody 'til somebody kills you
(I don't wanna die, God tell me why)
You're nobody, 'til somebody, kills you
(I don't wanna die, God tell me why)– You're Nobody (Til Somebody Kills You), 1997
Altre cose interessanti
Soltanto la settimana scorsa commentavamo l’ennesima operazione finanziaria di JAY-Z in pochi mesi. Oggi è la volta del servizio streaming di musica che guida dal 2015. Square di Jack Dorsey sta per acquisire, infatti, la quota di maggioranza di TIDAL e contestualmente JAY-Z entrerà a far parte del consiglio di amministrazione di Square. Il mogul dell’hip hop ha celebrato il sodalizio con una playlist a tema (su TIDAL, ovvio).
Devo ammettere che alcune delle cose tralasciate sono una scelta voluta. L’accesa rivalità tra East e West Coast degli anni ‘90 è un argomento che mi ha sempre preso molto poco, soprattutto per il modo pigro in cui viene solitamente raccontata. Alcuni dei protagonisti di quella fase – potremmo citare Nas e Dr. Dre – già all’epoca rifiutavano l’enfasi di riviste specializzate e media in generale che sobillavano le diverse fazioni. Qui nessuno nega niente, ma prima o poi i tasselli andranno rimessi in ordine. Sulle stesse sorti di Tupac e Notorious B.I.G. si è speculato abbastanza, e anche chi ha lavorato sul campo per scoprire la verità si è lasciato forse andare un po’ troppo. Comunque, là fuori è pieno di fonti – libri, documentari,
film, serie tv – che potrebbero aiutare a capire meglio la successione degli eventi, ma il consiglio è di applicare del sano spirito critico e non prendere ogni informazione per oro colato.
Anche per questa settimana è tutto. Dubbi? Domande? Suggerimenti? Potete rispondere alla mail, se vi va, oppure commentare o scrivermi su Twitter, Instagram, Facebook. Se Mookie vi piace, iscrivetevi e fate iscrivere gli amici e le amiche alla newsletter.
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