Circa un paio di anni fa, da un sondaggio del Pew Research Center era emerso che Barack Obama veniva giudicato dalla maggior parte degli intervistati (44%, la prima su due possibili scelte per il 31%) il miglior presidente dei nostri tempi. A seguire Bill Clinton (33%) e Ronald Reagan (32%). Poi — udite, udite — Donald Trump (19%), benché in carica da un anno e mezzo all’epoca della rilevazione. Il Pew Research Center è un istituto serio, affidabile e rispettabilissimo. Lo diciamo perché potreste imbattervi, facendo le vostre ricerche online, in studi sul miglior-presidente-degli-Stati-Uniti-di-sempre che sostengono esattamente l’opposto. Risultati così discordanti possono dipendere da diversi fattori: dalle metodologie e dai campioni di riferimento, dalle domande poste agli intervistati, dalla volontà tutt’altro che celata (per gli istituti poco seri, e ce ne sono anche in America) di compiacere in modo esagerato il committente. Ora questo ci interessa il giusto. L’aspetto più interessante del sondaggio, di cui già scrissi su Off The Benches, era che a far pesare tantissimo i propri pareri furono i millennial (complessivamente, tra prima e seconda scelta, il 62% dell’intero segmento a favore di Obama). In altre parole, la generazione hip hop.
Quella sopra è una premessa doverosa. Il 17 novembre è uscito Una terra promessa, il libro di memorie presidenziali di Obama (ed è solo una prima parte, la seconda verrà pubblicata più avanti). Siccome ne avrete già letto qua e là, è inutile girarci intorno. In una delle interviste che l’ex presidente ha concesso in questi giorni per promuovere il libro, nello specifico quella a The Atlantic, a un certo punto azzarda un confronto tra il rap — fatto di bling bling, opulenza, donne-oggetto — e lo stile di vita che Trump in definitiva ha sempre promosso, ricercando dunque una (spericolata) spiegazione all’aumento di consensi che alle recenti elezioni quest’ultimo ha ottenuto tra gli afroamericani.
It’s interesting — people are writing about the fact that Trump increased his support among Black men [in the 2020 presidential election], and the occasional rapper who supported Trump. I have to remind myself that if you listen to rap music, it’s all about the bling, the women, the money. A lot of rap videos are using the same measures of what it means to be successful as Donald Trump is. Everything is gold-plated. That insinuates itself and seeps into the culture.
Why Obama Fears for Our Democracy, The Atlantic, novembre 2020
Subito dopo, nell’intervista, Obama parla dell’America come di un sistema di “caste”, non da un punto di vista razziale, ma sul piano economico. Un concetto che allora può essere applicato a tutte le sfere sociali, non per forza ascrivibile al rap. L’osservazione è di quelle che da uno come lui non ti aspetteresti, perché intanto ad oggi non abbiamo prove tangibili che possano confermarne l’impianto teorico — che è un’altra cosa rispetto a negare un fondo di verità, a quanto pare duro a morire (Gianni Riotta non è del tutto d’accordo, ma ce ne faremo una ragione) — e in seconda battuta perché l’ex presidente è fan e attento conoscitore dell’hip hop, a cui peraltro deve molto. Di contro si potrebbe ricordare che soprattutto la prima elezione di Obama, quella del 2008, venne trainata da un intero movimento culturale, la generazione hip hop appunto, un’alchimia che in poche altre occasioni, forse mai, ha visto politica e musica andare nella stessa direzione, a quel livello. Di come l’hip hop sia stato un promotore decisivo dell’ascesa obamiana e concausa di un evento di tale portata storica per gli Stati Uniti, coinvolgendo le minoranze e un numero incredibile di giovani, la letteratura è piena: sarebbe superfluo insistere.
Nella mezz’ora che precedeva il dibattito, mentre davo un’ultima scorsa agli appunti, ascoltavo musica con gli auricolari o da una piccola cassa portatile. Per cominciare, una manciata di classici jazz […]. In definitiva, però, a schiarimi le idee era il rap, e due pezzi in particolare: My 1st Song di Jay-Z e Lose Yourself di Eminem. Entrambi spronavano a sfidare le probabilità e a giocarsi il tutto per tutto, spiegavano come ci si sente a tirare qualcosa fuori dal nulla, a cavarsela con lo spirito, l’energia e la paura mascherata da spavalderia. Quei testi sembravano ritagliati apposta per il mio ruolo iniziale di sfavorito.
-Barack Obama, A Promised Land
Intendiamoci, qualcosa di vero è da mettere in conto: c’è stato un tempo, fin dagli anni ’90, in cui Trump veniva addirittura celebrato dall’hip hop quale modello rich & gangsta e qualcuno di recente si è anche divertito a contare tutte le volte che è stato citato in un pezzo rap, da Raekown ai Rae Sremmurd, ma una volta arrivato alla presidenza lo schema si è, quasi inevitabilmente, ribaltato. Le posizioni di Trump su alcuni temi sensibili erano apparse chiare fin dalla campagna elettorale del 2016 e già in quel frangente molti rapper non lesinarono commenti sprezzanti, in rima o in modi diversi. Quando nel 2017 venne diffuso un video di Snoop Dogg in cui il rapper di Long Beach “spara” con una pistola giocattolo ad un finto Trump in versione clownesca, questa fu la reazione del presidente:
Purtroppo si è persa l’ennesima occasione per innalzare il dibattito. E dispiace perché il rap, che non è mai stato solo bling bling, proprio ora si sta trasformando in qualcosa di più profondo. Un processo graduale, certo, ma che ha trovato un enorme sostegno non a caso nella presidenza Obama (con l’hip hop che ha potuto fare il suo ingresso alla Casa Bianca dalla porta principale) e un ulteriore sviluppo di consapevolezza a seguito della nascita, in quegli anni, di movimenti come Black Lives Matter. Anche in termini di legacy, con artisti rap che hanno continuato a chiamare in causa l’ex presidente in un modo o nell’altro, il retaggio di quel periodo è a tutt’oggi evidente (tipo Quelle Chris in Obamacare, 2019, o Blueface e DaBaby in Obama, 2020, ma se ne potrebbero scomodare tanti di più). In generale l’universo hip hop ha cominciato a prendere le distanze da quanto di criticabile ha propinato in passato — senza dimenticare che molte delle cose narrate attraverso il rap sono una messinscena, al pari di film o serie tv — , che sta abbandonando la sua visione machista, che finalmente contribuisce a riconoscere il valore delle donne nere (Rapsody è stata premiata qualche settimana fa ai BET Hip Hop Awards 2020 come Best Lyricist of the Year, mentre GQ incorona Megan Thee Stallion Rapper Of The Year 2020). Davvero non siamo ancora in grado di partorire un’analisi più originale di Trump che «piace ai rapper e ai giovani fan dell’hip hop perché incarna gli stessi (effimeri) ideali»?
In tutta franchezza, dato che Obama li tira in ballo, si fa una gran fatica a immaginare come gli endorsement (che spesso non lo erano) di rapper o giovani di spicco della musica trap possano avere avuto un qualche impatto reale, e comunque ininfluente, sull’esito elettorale. Più complicata è sicuramente la vicenda che ha interessato Ice Cube e la sua collaborazione alla stesura del Platinum Plan ideato dalla campagna Trump. Se al contrario, però, ritenete di avere le carte in regola per convincermi che Little Pimp può tutto questo, io sono qui.
Vi ascolto.
Altre cose di cui si sta parlando
50 Cent ha raccontato a Power 105.1 di avere ricevuto un’offerta importante dall’amministrazione Trump per apparire alla cerimonia di inaugurazione del nuovo mandato del presidente (piuttosto sarà la cerimonia di insediamento di una nuova amministrazione, ma questo alla Casa Bianca non potevano ancora saperlo). Ha ammesso di avere un po’ tentennato, ma di non aver poi preso in considerazione la cosa, anche perché si stava accorgendo di come il tentativo di Trump di entrare in contatto con lui e altre personalità dell’hip hop fosse una strategia per racimolare voti tra i neri. Tra l’altro, non era la prima volta che veniva contattato. E ha fatto capire che qualcosa di simile potrebbe essere capitato con Lil’ Wayne, quando si è incontrato con il presidente per parlare del Platinum Plan.
I consigli del venerdì
Di Megan Thee Stallion è uscito oggi il primo disco ufficiale, Good News. Merita l’ascolto e merita la lettura la sua intervista a GQ, non solo per la storia brutta brutta con Tory Lanez.
Per quanto ci riguarda, il giudizio sugli anni di amministrazione Obama, più che altro su quello che hanno significato per una porzione importante di America, non viene scalfito da un parere un po’ così dello stesso ex presidente. Qui si continua a pensarla come JAY-Z, ecco. Ma questo non ci impedisce di sostenere che stavolta abbia usato un paragone troppo audace per descrivere il successo, o almeno una parte di successo, di chi dopo di lui ha soggiornato alla Casa Bianca.
In principio avremmo dovuto parlare di altro, ci rifaremo la prossima settimana. A presto!