In America è la normalità ormai, mentre da noi si fatica molto. O, per dirla ancora meglio, siamo un passo indietro su tante cose rispetto alla realtà statunitense, ma su una la distanza appare siderale: trattare l’Hip Hop con fare accademico, quelli che oltreoceano chiamano Hip Hop Studies. È un approccio che manca nel nostro paese, anche se da qualche anno si è cominciato a parlare di cultura Hip Hop su un rinnovato piano intellettuale, superando – purtroppo non sempre – gli steccati del pregiudizio. «Da anni mi dedico alla storia dell’Hip Hop attraverso l’utilizzo della storia orale, un elemento che ha suscitato grande interesse sia all’estero che in Italia. Negli Stati Uniti, gli studi etnografici e accademici su questa cultura hanno acquisito una notevole popolarità negli atenei, mentre in Italia il fascino per l’Hip Hop è rimasto principalmente circoscritto agli appassionati del genere», conferma Giuseppe “u.net” Pipitone a Mookie.
Some MCs be talking and talking
Tryin’ to show how Black people are walkin’
But I don’t walk this way to portray
Or reinforce stereotypes of today
Like all my brothas eatin’ chicken and watermelon
Talk broken English and drug sellin’
See, I’m tellin’ and teaching real facts– Boogie Down Productions, My Philosophy, 1988
Per presentare Giuseppe Pipitone non potevamo che partire da qui, perché lui è tra le voci italiane più autorevoli in materia, uno studioso – in senso letterale – dell’Hip Hop, della sua evoluzione e dell’intersezione con la politica e l’attivismo. Ha pubblicato diversi libri, tra cui il fondamentale Renegades of funk. Il Bronx e le radici dell’Hip Hop, un viaggio alle origini di una cultura che nel tempo abbiamo imparato a conoscere per forza di cose (a volte addirittura senza farci caso), giunto ora ad una nuova edizione aggiornata. Nel 2019 “u.net” ha ottenuto il prestigioso riconoscimento della Nas Fellowship, all’Harvard Hip Hop Archive & Research Institute. È perciò a lui che ci rivolgiamo per capire qualcosa di più dello “strano” momento che stanno attraversando gli Stati Uniti, ma che in definitiva comprende anche l’Hip Hop.
Già nella scorsa puntata avevamo definito quella attuale una fase storica dai contorni poco chiari. Gli Stati Uniti stanno cambiando e alcune certezze assimilate, “certezze” oggi lo sono un po’ meno. I giovani protestano, nelle università e nelle strade. Il presidente Joe Biden non gode di grandi consensi e così il suo rivale repubblicano alle elezioni di novembre, Donald Trump. Nel complesso l’economia va piuttosto bene, ma i divari sociali restituiscono percezioni che non sono uguali per chiunque, soprattutto tra le minoranze. La comunità Hip Hop, di solito molto attiva nei periodi elettorali, sembra ora poco incline a commentare le vicende politiche o a prendere posizione sulle questioni totalizzanti, come la guerra a Gaza (tranne un’unica eccezione, vedremo a breve): per questo saranno i dubbi a orientare la nostra conversazione con Pipitone (l’intervista è stata modificata qua e là per ragioni di lunghezza e chiarezza).
Ciao! Qui Mookie, una newsletter di Fabio Germani che racconta pezzi sparsi di America attraverso il rap e la musica nera. Per contribuire al progetto, basta poco: un like, una condivisione, il passaparola, un caffè. Ogni vostro piccolo gesto può fare la differenza: grazie!

Nel 2018 hai scritto Stand 4 what, libro in cui indaghi rap e attivismo nella prima fase dell’amministrazione Trump. Da allora sono passati alcuni anni, una pandemia e un’altra elezione presidenziale, con la vittoria di Biden. Siamo alla vigilia di nuove elezioni. Immagina di dover scrivere Stand 4 what oggi. Quali sono le differenze sociali e dialettiche che osservi rispetto alla sua stesura originale?
Guardando la situazione politica attuale, mi sembra impossibile concepire la stesura di un libro come quello o di uno simile. Nel 2012 gli Stati Uniti si trovavano in una situazione paradossale: sorgeva il più ampio movimento di protesta giovanile nera dai tempi del Movimento per i Diritti Civili/Black Power, proprio mentre era in carica il primo presidente afroamericano, Barack Obama. In più, sul fronte culturale e musicale, si assisteva all’emergere di una sorta di età dell’oro dell’arte e della musica di protesta. Questo fenomeno rifletteva una polarizzazione sociale estrema. Quella profonda crisi era l’espressione della frustrazione per un sogno di integrazione mai pienamente realizzato, che si scontrava con una società incapace di affrontare la propria storia. Questa situazione rendeva ancora più evidente il fallimento delle politiche di Obama alla Casa Bianca, i cui otto anni di presidenza non erano riusciti a ridurre il divario tra neri e bianchi, anzi. Tuttavia l’America di oggi presenta un panorama politico e culturale diverso. Se nel 2008 la presidenza di Obama aveva acceso la speranza per un futuro di uguaglianza, ora regna sovrana la delusione. Le proteste del movimento Black Lives Matter, anche se intense, non hanno portato a cambiamenti significativi, se non a livello di legislazione locale. La frattura sociale sembra essersi approfondita e gli episodi di brutalità poliziesca non si sono mai interrotti. Da quando un agente di polizia bianco del dipartimento di Minneapolis ha ucciso un uomo nero disarmato, George Floyd, nel maggio 2020, le forze dell’ordine negli Stati Uniti hanno ucciso più di 4.500 persone, secondo l’organizzazione di ricerca Mapping Police Violence. Questo include 1.352 persone uccise dalla polizia nel 2023, il dato più alto da quando l’organizzazione ha iniziato a raccogliere dati nel 2013. Questo fatto, insieme alla mancanza di proteste su scala nazionale, fornisce una risposta parziale alla domanda che ho posto alla fine di Stand, cioè se il movimento Black Lives Matter sarebbe stato in grado di resistere e adattarsi alle sfide della presidenza Trump. È evidente che nel periodo intercorso vi sia stato un cambiamento dialettico nel dibattito politico, orientandosi verso la difesa del concetto stesso di democrazia, minacciato dalla sua presidenza e ancor di più dal suo probabile ritorno alla Casa Bianca.
Come ti spieghi l’incremento, seppur lieve, di consensi tra i più giovani e tra i neri che alcuni sondaggi registrano a favore di Trump?
È inquietante osservare come le dinamiche politiche stiano prendendo forma sotto i nostri occhi, con un crescente numero di elettori afroamericani che si stanno avvicinando a Trump, delusi dalle politiche democratiche. Nonostante Biden abbia ottenuto progressi significativi nel ridurre la disoccupazione e creare posti di lavoro – risultati superiori a quelli dell’amministrazione Trump – il sentimento prevalente, soprattutto tra le comunità di colore e più svantaggiate, è diverso. Anche se l’amministrazione Biden ha sottolineato i suoi successi nei confronti della popolazione afroamericana, come il tasso di disoccupazione che ha toccato il minimo storico del 4,7% nel 2023 e l’implementazione di programmi innovativi per sostenere le storiche università nere e le piccole imprese, due temi cruciali potranno influenzare il voto nella comunità nera: l’immigrazione e il genocidio dei palestinesi, come denunciato da Macklemore – un rapper bianco… – in Hind’s Hall, brano in cui si schiera con gli studenti che manifestano nei campus universitari e afferma che non voterà per Biden in autunno. Questi argomenti potrebbero dunque spostare una parte del voto nero, se non verso Trump, quantomeno verso candidati minori, ad esempio l’intellettuale Cornel West, molto popolare in questi circoli.
Where does genocide land in your definition, huh?
Destroyin’ every college in Gaza and every mosque
Pushin’ everyone into Rafah and droppin’ bombs
The blood is on your hands, Biden, we can see it all
And fuck no, I’m not votin’ for you in the fall– Macklemore, Hind’s Hall, 2024
Eppure nella stessa comunità Hip Hop sembra emergere una certa fascinazione per l’ex presidente.
Tra i sostenitori neri di Trump ci sono alcuni rapper famosi, come Kanye West, Lil Wayne, DaBaby, Kodak Black, Chief Keef, Benny The Butcher e Waka Flocka Flame. Lil Wayne e Kodak Black, nello specifico, hanno ottenuto la grazia da Trump per reati come il possesso di armi o droga. Anche il rapper YG, famoso per la canzone F--- Donald Trump, ha dichiarato che la comunità nera ha “perdonato” Trump grazie al programma di protezione salariale, il Paycheck Protection Program (PPP), destinato ad aiutare le piccole imprese durante la pandemia. Un episodio che ha attirato la mia attenzione riguarda Snoop Dogg, il quale ha affermato di aver meno risentimenti verso Trump dopo che questi ha concesso la grazia a Michael Harris, uno dei co-fondatori della Death Row Records. Kanye West, uno dei rapper più noti per il sostegno a Trump, ha dichiarato che indossare il cappello MAGA “gli dava una scossa”, era come se gli conferisse un senso di potere. È evidente che proprio l’atteggiamento e la sicurezza di Trump trovano riscontro tra molti rapper, che si identificano con quell’attitudine gangsta-like. Sono molti i riferimenti a Trump nei testi rap degli anni ‘90, quando era un personaggio popolare nell’ambiente rap, ben prima che entrasse in politica. Snoop Dogg, Diddy, Young Jeezy e Nas sono solo alcuni degli artisti che lo celebravano, secondo un recente articolo di BET. È evidente che l’inefficacia delle politiche democratiche stia spingendo la comunità nera a esplorare nuove possibilità, anche all’interno dello stesso Partito repubblicano, percepito sempre più come il partito della classe operaia, a differenza dei democratici, visti sempre più come rappresentanti di un’élite economica e intellettuale.
I like white folks, but I don’t like you
All the n***** in the hood wanna fight you
Surprised El Chapo ain’t tried to snipe you
Surprised the Nation of Islam ain’t tried to find you
Have a rally out in L.A., we gon’ fuck it up
Home of the Rodney King riot, we don’t give a fuck
Black students, ejected from your rally, what?
I’m ready to go right now, your racist ass did too much
I’m ‘bout to turn Black Panther– YG feat. Nipsey Hussle, FDT, 2016
Nel 2020 la pandemia e le proteste per le uccisioni di Breonna Taylor e George Floyd ebbero un impatto significativo sul voto. Quali saranno a tuo avviso i principali temi di questa campagna elettorale, dalla prospettiva delle minoranze, oltre a quelli che hai già accennato?
Le elezioni presidenziali del 2024 negli Stati Uniti si preannunciano come una sfida cruciale, non solo per il futuro del paese, ma anche per il mondo intero. La posta in gioco è altissima, con due visioni diametralmente opposte dell’America che si confrontano. Dal futuro dei diritti riproduttivi alle possibilità di azioni significative sul cambiamento climatico, dalla forza del sostegno degli Stati Uniti all’Ucraina al destino della democrazia stessa in America, le questioni più importanti sono destinate a venire alla ribalta. Sebbene la gestione economica di Biden sia positiva, molte persone rimangono preoccupate per i costi della vita e l’inflazione persistente. Le minacce repubblicane ai programmi sociali come la previdenza sociale e Medicare aggiungono ulteriori tensioni. Nel frattempo, la polarizzazione politica è evidente anche nei dibattiti sull’uguaglianza, con legislazioni anti-trans, l’abolizione delle politiche di affirmative action nelle ammissioni universitarie e la “guerra” contro i corsi di Critical Race Theory che sollevano controversie. Il tema dell’aborto rimane una questione chiave, con i democratici che promettono di combattere gli attacchi repubblicani ai diritti riproduttivi. In politica estera, Biden si trova a dover bilanciare le relazioni con Israele e l’Ucraina, mentre la minaccia alla democrazia interna rappresentata da Trump continua a essere una preoccupazione. Infine, la crisi climatica emerge come un tema urgente. Mentre Biden punta a politiche ambientali più progressiste, i repubblicani, compreso Trump, continuano a opporsi agli sforzi per affrontare il cambiamento climatico. Per le minoranze, specialmente la comunità afroamericana, le tragedie come le morti di George Floyd e Breonna Taylor hanno enfatizzato la necessità di riformare il sistema di giustizia penale e combattere la brutalità della polizia. Le comunità di colore richiedono con forza un sistema più equo e inclusivo che ponga fine alla violenza e al razzismo sistemico. Anche la lotta per i diritti civili continua, seppur con modalità differenti, con richieste per l’abolizione delle leggi discriminatorie che limitano il diritto di voto e per l’eliminazione delle politiche discriminanti in settori come l’occupazione, l’istruzione, la sanità e l’accesso ai servizi. Tuttavia, come sempre, quel futuro sembra ancora lontano, soprattutto alla luce dei recenti sondaggi sulle elezioni presidenziali.
Nel lungo periodo delle proteste si è osservato il coinvolgimento di artisti, attori e sportivi, con la musica che è stata un elemento determinante, capace di accompagnare, descrivere e sostenere il cambiamento (quando c’è stato). Adesso, invece, si ha una sensazione di stanchezza corale e maggiore disincanto. Percepisci anche tu questo stato d’animo o tutto sommato ti aspetti ancora qualcosa di grosso, magari proprio in vista delle presidenziali?
Durante il secondo mandato Obama, mentre un nuovo movimento politico giovanile di base ha fatto ribollire le strade sia delle metropoli che della suburbia americana per opporsi al razzismo e alla violenza della polizia, una nuova ondata di arte di protesta è emersa in modo prepotente dall’underground al mainstream. Perché un Movimento sia efficace servono attivisti. Perché un Movimento sia capillare servono artisti capaci di articolarne le idee. D’altronde il politico e l’artistico sono due istanze di uno stesso Movimento e operano al meglio quando si integrano a vicenda. Gli attivisti ispirano i testi degli artisti che, a loro volta, ne diffondono le idee. In pratica, senza un forte Movimento politico, non potrà mai esserci un Movimento culturale radicale. Di sicuro, l’avvicinarsi delle elezioni porterà a un certo fermento politico e culturale ma non vedo proprio le basi per un panorama culturale come quello di dieci anni fa.
Però una cosa rimane: lo stretto legame tra Hip Hop e politica. Un documentario di recente uscita, Hip-Hop and the White House, esplora questo tipo di relazione. Gli avvenimenti degli ultimi anni potrebbero persino spingere a credere che Trump sia stato in qualche misura “l’artefice” del ritorno del rap politico.
Ma il legame tra cultura Hip Hop e politica americana non è nato con l’era Trump, affonda le sue radici in un passato di attivismo e impegno sociale. Da decenni, l’Hip Hop affronta temi quali la disuguaglianza razziale, la brutalità poliziesca e le disparità socioeconomiche. Proprio per il carattere trasversale e la capacità di influenzare le nuove generazioni, l’Hip Hop è diventato anche un potente strumento di propaganda politica e il nuovo documentario Hip Hop e la Casa Bianca, diretto dal giornalista e scrittore Jesse Washington, reperibile in streaming su Hulu, si avventura in questo viaggio. Sin dai suoi albori negli anni ‘70, l’Hip Hop ha subito l’influenza della figura presidenziale, esercitando a sua volta un impatto significativo su di essa. Come sottolinea il critico culturale Bakari Kitwana, voce di spicco all’interno del documentario, «questa cultura è intrinsecamente politica sin dalla sua nascita, a causa del contesto socioeconomico in cui è sorta».
Tra le materie di cui ti occupi e sei esperto, una menzione particolare merita lo studio dei movimenti americani. Da qualche anno il dibattito sulla cosiddetta ideologia woke è diventato centrale negli Stati Uniti.
Come il termine politically correct, anche woke ha subito una curiosa inversione di significato. Originariamente radicato nelle comunità afroamericane sin dagli anni ‘60, il termine ha recentemente guadagnato popolarità nel linguaggio comune, grazie all’influenza dei musicisti neri, dei social media e del movimento #BlackLivesMatter. Nel 2017 woke è stato ufficialmente incluso nell’Oxford English Dictionary, diventando un simbolo sia di valori progressisti che di tendenza culturale. Chi non comprendeva il suo significato rischiava di sentirsi escluso dal dibattito sociale in costante mutamento. Oggi le critiche rivolte al concetto di woke non riguardano tanto il suo significato, quanto piuttosto la parola stessa, vista come simbolo di elitismo culturale. Così è passato da segno di virtuosa consapevolezza a codice utilizzato dai conservatori per demonizzare le posizioni progressiste. Molti detrattori di questa ideologia l’hanno resa sinonimo della cancel culture, attribuendo al termine gli stessi effetti aggressivi, censori e normativi. L’inversione di significato ha consentito al settore ultraconservatore del Partito repubblicano statunitense di utilizzarlo come termine generico per criticare qualsiasi tendenza progressista all’interno del panorama politico; dal razzismo al femminismo per giungere alla politica identitaria. Quello che è iniziato come una reazione istintiva della destra si è ora esteso a includere anche una parte della sinistra insoddisfatta della predominanza del woke, preoccupata per ciò che vede come eccessi e mancanza di universalità. La destra statunitense anti-woke ha spinto l’agenda politica conservatrice verso posizioni reazionarie sempre più estreme, ottenendo successi come il divieto dell’educazione sessuale nelle scuole e l’aborto in diversi Stati. In Florida, ad esempio, il governatore conservatore Ron DeSantis ha utilizzato lo Stop Woke Act per cercare di vietare alle aziende e alle istituzioni educative la diffusione di contenuti anti-sessismo e anti-razzismo.
In apertura ho citato Stand 4 what, ma sei l’autore di molti altri testi, tra cui l’imprescindibile Renegades of funk del 2009, dove percorri le tappe alle radici dell’Hip Hop attraverso le voci dei tanti protagonisti di quella che fu un’autentica rivoluzione culturale. Abbiamo da poco celebrato i 50 anni del movimento e con Agenzia X hai appena pubblicato la versione aggiornata del libro, perciò ti chiedo: come sta oggi l’Hip Hop?
In cinquant’anni di storia, l’Hip Hop ha attraversato innumerevoli trasformazioni, evolvendosi e adattandosi a nuovi contesti e linguaggi, senza mai perdere la propria identità. Nato dalla sperimentazione, dalla decostruzione e dall’ibridazione di generi musicali pre-esistenti, si configura come un (sotto)genere in continua evoluzione, sia dal punto di vista musicale, lirico e tecnologico. Il mondo del rap ha saputo reinventarsi, integrando le nuove tecnologie e adattandosi ai cambiamenti imposti dalla società, senza mai tradire la sua essenza originaria. La sua natura lo rende difficilmente inquadrabile in definizioni rigide. Oggi, l’universo Hip Hop va ben oltre la musica, inglobando una costellazione di artisti, producer, stilisti e creatori di contenuti online, tutti legati dall’amore per questa cultura. Un fermento creativo in continua evoluzione, che conferma la vitalità e la creatività di un movimento in costante crescita. Questa visione ottimistica è quella che ho scelto di rappresentare, però, tende a trascurarne l’ampia commercializzazione e le controversie legate alla dicotomia tra il “Real Hip Hop real vs…”.
In tanti anni di studio e ricerca sulla materia, che idea ti sei fatto del pubblico italiano ed europeo, quanto interesse suscita l’approccio “accademico” all’Hip Hop? Ma soprattutto: perché alle nostre latitudini attraggono così tanto – o almeno questa è l’impressione in superficie – le storie ai margini che arrivano dagli Stati Uniti?
Da anni mi dedico alla storia dell’Hip Hop attraverso l’utilizzo della storia orale, un elemento che ha suscitato grande interesse sia all’estero che in Italia. Negli Stati Uniti, gli studi etnografici e accademici su questa cultura hanno acquisito una notevole popolarità negli atenei, mentre in Italia il fascino per l’Hip Hop è rimasto principalmente circoscritto agli appassionati del genere. Nonostante la mia esperienza decennale nel supportare studenti con le loro tesi di laurea e la consapevolezza che alcuni docenti abbiano utilizzato e consigliato i miei libri nei loro corsi, non ho mai avuto modo di collaborare direttamente con l’accademia italiana. Tuttavia è innegabile il notevole ritardo del nostro paese in questo campo di studi. Sono fermamente convinto che corsi accademici dedicati all’Hip Hop avrebbero in Italia lo stesso successo che stanno ottenendo negli Stati Uniti. Per quanto riguarda la passione per le storie di marginalità, è indubbio che il rap sia intrinsecamente legato ad esse. Da sempre ha dato voce alle esperienze delle comunità marginalizzate, raccontando storie di lotta, riscatto e affermazione di sé con una voce autentica e diretta. Proprio questa capacità di narrare la realtà con immediatezza ha contribuito al successo globale del rap.
Altre cose interessanti
HipHopDX riferiva alcuni giorni fa di un post su Instagram di 50 Cent (poi rimosso) sulla violenza armata a Chicago. Durante la campagna elettorale del 2016 diventò uno degli argomenti più seguiti dai media: gli scontri in particolare tra le gang a Chicago stavano causando morti e sofferenze, trasformando i quartieri più svantaggiati della metropoli dell’Illinois nei luoghi simbolo per questo genere di notizie. Dopodiché l’attenzione è, diciamo, calata – al di là delle cronache locali –, ma i numeri suggeriscono che il problema sia tutt’altro che risolto.
Due eccellenze a colloquio: Hanif Abdurraqib e André 3000.
La bella chiacchierata tra Fabio Negri e UnLearn The World, per Unsupervised (qui la versione tradotta).
Siamo così giunti ai saluti, grazie di aver letto fino in fondo. E grazie a Giuseppe “u.net” Pipitone per il prezioso contributo.
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