Laura Ingraham ha provato a condurlo verso una specie di endorsement per Trump. Questo il pretesto utilizzato dalla giornalista di Fox News, riassunto: alcuni temi, tipo burocrazia e difesa della classe media, ma anche la minore partecipazione (seppure indiretta) degli Stati Uniti alla guerra in Ucraina, sono la dimostrazione di come la sua piattaforma sia tanto più vicina alla destra trumpiana di quanto non lo sia al Partito democratico. Ma niente da fare, Cornel West non è caduto nel tranello. Per carità, la distanza da Biden hai voglia se c’è e qualche volta ha pure annuito ai commenti di Ingraham (West definisce quella dei dem «ipocrisia neoliberale»), tuttavia sono troppe le divergenze con l’ex presidente per potersi dire d’accordo. Le cose che meno sopporta di Trump, ad esempio, sono i modi da «gangster» e il «linguaggio neofascista» che usa quando si riferisce alle persone musulmane o ai giocatori neri di football, per non parlare delle politiche repressive dei repubblicani ai danni dei migranti e dei «preziosi fratelli e sorelle gay»; e poi Trump rimane legato alle forze armate e a Wall Street. Perciò ecco la sua promessa: in campagna elettorale andrà «nel paese di Trump» a dire «ai fratelli e alle sorelle di tutti i colori» di non fare da capro espiatorio.
Cornel West è stato intervistato da Laura Ingraham su Fox News intorno alla metà di giugno. All’inizio del mese il filosofo e attivista, già professore alle università di Harvard e Princeton, aveva annunciato la sua intenzione di candidarsi alla Casa Bianca, da terzo incomodo. Dapprima con il People’s Party, poi ha preferito aderire alle primarie del Green Party, dove è favorito, anche perché l’unico avversario, Randy Toler, una campagna vera e propria deve ancora avviarla. Inoltre West può contare sul sostegno dei “pesi massimi” del partito, tra i quali Jill Stein, due volte candidata alla presidenza con i Verdi [AGGIORNAMENTO: alla fine West ha deciso di abbandonare questo progetto e di correre da indipendente]. C’è un motivo se ne parliamo, non solo perché West è un personaggio influente nell’ambito della cultura nera e degli ambienti che per gli standard americani non faticheremmo a definire radicali, ma soprattutto perché il suo manifesto politico è un fatto di musica, forse già noto agli appassionati di hip hop.
Ciao! Qui Mookie, una newsletter di Fabio Germani che racconta pezzi sparsi di America attraverso il rap e la musica nera. Torniamo dopo una lunga pausa estiva che nel mentre ha visto passare un sacco di cose, tanto per cominciare le celebrazioni per i (primi) 50 anni di hip hop. Un caro saluto alle nuove iscritte e ai nuovi iscritti, e un invito rivolto a tutti di leggere fino in fondo: devo annunciare un piccolo e temporaneo cambiamento alla pubblicazione della newsletter. Per contribuire a questo umile progetto, basta davvero poco: un like, una condivisione, il passaparola. Ogni vostro piccolo gesto può essere incredibilmente utile: grazie!
Le possibilità di Cornel West di vincere le elezioni del 2024 sono minime, se non pari a zero. I media statunitensi lo chiamano in causa perlopiù per ribadire i grattacapi che potrà recare nella contesa elettorale – c’è chi ricorda che Ralph Nader (anche lui con il Green Party) svantaggiò Al Gore nel 2000, casini in Florida a parte –, o per le magagne private. Le sue idee politiche sono conosciute e si collocano nell’area della non più tanto esigua ala socialista: per diverso tempo, infatti, West si è proclamato al fianco di Bernie Sanders. Solo che il senatore del Vermont – all’incirca è questo il ragionamento – alla fine si è fatto fagocitare dalle logiche esiziali del Partito democratico, così ha ritenuto di raccogliere il timone e di candidarsi in prima persona. La convinzione è che i democratici, quindi l’amministrazione Biden, siano eccessivamente ancorati alle volontà dei “lupi” dell’alta finanza e al militarismo, ostacoli da abbattere per rimettere al centro le classi operaie e le minoranze. Nel quadro della polarizzazione politica che da parecchi anni si osserva in America, cioè da sempre, ma adesso ad un ritmo superiore, la retorica funziona e cattura consensi. Allargando la prospettiva, si capisce perché West miri al segmento soft dell’elettorato di Trump, ma gli analisti sospettano che a farne le spese sarà soprattutto l’attuale inquilino della Casa Bianca: venisse rosicchiato anche l’1, massimo 2%, le possibilità di rielezione di Biden sarebbero compromesse. Secondo Bernard Tamas, professore di scienze politiche alla Valdosta State University, che sull’argomento è stato di recente intervistato da ABC News, i “terzi” candidati non nutrono reali ambizioni presidenziali, ma l’obiettivo di accrescere il proprio potere contrattuale e avvicinare alle questioni che hanno a cuore la forza politica in teoria più affine. E per quanto possa apparire paradossale, è esattamente questo il motivo per cui la campagna di Biden farà bene a non sottovalutare le mosse di Cornel West.
L’impatto culturale di West è notevole. Ha scritto innumerevoli libri (tra i più famosi Race Matters del 1993), ha partecipato in film come Matrix (quelli successivi al primo capitolo del 1999), compare in documentari e si sente il frammento di un suo intervento nell’intro del disco Illadelph Halphlife del 1996 del gruppo The Roots. Infine lui stesso ha pubblicato album musicali, spesso suscitando malumori ad Harvard: Sketches of My Culture (2001), Street Knowledge (2004) e Never Forget: A Journey of Revelations (2007). Tutti e tre spaziano tra lo spoken word e il rap, in una commistione di generi della tradizione nera, ma è l’ultimo, quello del 2007, a collocarsi in una dimensione più marcatamente hip hop. Per capirci, in Never Forget: A Journey of Revelations si alternano artisti come Talib Kweli, André 3000, KRS-One, Killer Mike, Black Thought, Rhymefest e Rah Digga, più Jill Scott, persino Prince (con il quale Cornel West era legato da una profonda amicizia) e altri. Se i primi due esperimenti consistono in un flusso di conoscenza riguardo l’esperienza afroamericana e diverse questioni sociali ed economiche (che sono adiacenti nel pensiero del professore), il terzo è piuttosto il tentativo di innalzare il virtuosismo linguistico dell’hip hop a strumento politico progressista, in connessione con l’atavica lotta per la libertà e per l’uguaglianza. Non che all’hip hop servisse uno sponsor del genere, data la sua naturale inclinazione, ma le nobili finalità dell’opera vengono subito messe in chiaro nel brano di apertura con Talib Kweli, Bushonomics.
Taking Hip-Hop back to it’s roots
When people could see that the Hip in Hip-Hop stood for
We want to be free
We go from the “bling bling” to let freedom ring
From the rich legacy to Gil Scott-Heron and The Last Poets
On to Grandmaster Flash and The Furious Five
In this era of Bush-o-nomics!
Never Forget: A Journey of Revelations uscì nel mezzo di due eventi fondamentali, per quanto all’epoca la visuale non fosse nitida come lo è oggi. Il primo fu l’uragano Katrina, che nel 2005 colpì con violenza la Louisiana – in particolare la città di New Orleans –, il Mississippi, l’Alabama e parte della Florida, ma toccò anche Georgia, Kentucky e Ohio, lasciando morti e distruzione un po’ ovunque e segnando la vita di migliaia di famiglie nere, sempre più alle prese con un ampio scollamento dalle istituzioni e dall’amministrazione Bush. Il secondo fu quando, nel febbraio del 2007, un giovane senatore dell’Illinois annunciò a Springfield la sua candidatura alla presidenza, lanciando innovativi messaggi di speranza quasi fosse un appuntamento generazionale con la Storia: Barack Obama.
They leave us with a couple options
Rob us slang
Now we locked up again
How much can our skin take
We went from slaves to inmates
Carrying the weight of the 50 States
Working your farms
Black nannies carrying white babies in their arms
Black men sacrificed their lives in your wars
But you don't ever show appreciation here at home– Cornel West & BMWMB, America, 2007
Il socialismo applicato da Cornel West è caritatevole, cristiano, non di stampo espressamente marxista (le due sfere sarebbero in antitesi), si richiama alla visione di Martin Luther King di sacrificio e amore con lo scopo di raggiungere traguardi tangibili di uguaglianza e pari diritti.
America, America, America
You know the Black Freedom Movement constitutes of the moral and conscious
We have been trying to redeem the soul of a nation even if that nation renders us soulless
We are a soulful people, a blues people. We’ve been keeping alive in a state of democracy
Thank God for those who came before, we shall never forget them
We will always move forward with grace and dignity– Cornel West & BMWMB, America, 2007
Dopo essere stato da Laura Ingraham, a luglio è tornato nella fossa dei leoni di Fox News, stavolta ospite di Sean Hannity. Con il quale, a un certo punto, ha ingaggiato una battaglia dialettica sull’annoso dilemma relativo alle questioni razziali. West aveva attaccato duramente Joe Biden per il suo passato al fianco del senatore democratico John Stennis, morto nel 1995 e fervente sostenitore del segregazionismo, una faccenda controversa, ma che spiega molto delle abilità politiche del presidente di saper tessere relazioni. Ma quando è arrivato il momento di rendere la stessa moneta a Trump, con riferimenti alla presunta vicinanza del padre al KKK (si mormora che Fred Trump venne arrestato una prima volta nel 1927 durante una manifestazione e anche se la vicenda qua e là appare lacunosa il Washington Post non ha dubbi sull’accaduto, 19 anni prima della nascita di Donald), Hannity ha provato a riallineare la discussione su Biden.
È stato allora che West ha rievocato il caso dei Central Park Five, citando «il fratello Yusef Salaam», uno dei protagonisti dell’increscioso episodio di storture giudiziarie avvenuto nel 1989 e prossimo rappresentante al Consiglio comunale di New York del nono distretto, che comprende Harlem, il quartiere dove è cresciuto. Ai tempi il già famoso immobiliarista di Manhattan, Donald Trump, comprò una pagina dei quattro più diffusi giornali della città, tra cui il New York Times, per chiedere condanne rapide e il ripristino della pena di morte ai danni dei cinque ragazzi – innocenti, si scoprirà finalmente nel 2002 – accusati dello stupro di una donna bianca di 28 anni a Central Park. Tra i cinque giovani c’era appunto Yusef Salaam. Lo scambio di opinioni con Hannity – e non solo con Hannity: basta una ricerca su YouTube – è la dimostrazione dello spirito compassionevole e allo stesso modo incendiario che anima Cornel West. Più di chiunque altro è Obama a saperne qualcosa.
Se il Partito democratico e quello repubblicano sono accomunati da una percezione di inadeguatezza, vengono entrambi dipinti come corrotti, legati al denaro più che alle buone intenzioni, se queste opinioni sembrano oggi più diffuse che mai e persuadono una platea a prima vista abbastanza trasversale, la ragione è da ricercarsi nella prolungata delusione per la guerra al terrore, le crisi economiche e, talvolta, la pessima gestione delle emergenze. Gli otto anni di amministrazione Obama sono con ogni probabilità tra i più dibattuti di sempre, hanno lasciato un’eredità politica non pienamente decodificata, in alcuni contesti anche frustrazione per le promesse disattese e per gli insuccessi. E questo avviene mentre l’ex presidente, tutto sommato, gode ancora di grande popolarità negli Stati Uniti. All’inizio Cornel West si schierò dalla parte di Obama, fece campagna per lui. Poi cambiò idea: da presidente, agli occhi di West, diventò «la mascotte nera degli oligarchi di Wall Street», o peggio, un «George Zimmerman globale». In un’intervista al New York Times Magazine del 2011 snocciolò in lungo e in largo cosa ormai lo allontanava da Obama (se è per questo raccontò anche di aver passato il weekend con Bootsy Collins a scrivere canzoni); l’indomani dell’assoluzione di Zimmerman per l’omicidio di Trayvon Martin alzò il tiro. Wall Street e la politica estera furono anche i temi al centro di una polemica intellettuale con Ta-Nehisi Coates nel 2017.
Nel 2018 Cornel West partecipò ad una conversazione con altri professori sulla figura di Martin Luther King, a 50 anni dalla sua morte. Nell’occasione West osservò che King odiava quando era la disperazione ad avere l’ultima parola. King veniva da un popolo blues che ha avuto a che fare con le catastrofi, qualsiasi fosse l’origine, ogni istante della propria esistenza. Perciò, secondo il filosofo e professore, è opportuno rimodellare il dolore con compassione e creatività, alla stregua di «B.B. King, Ma Rainey e Bessie Smith, Billie Holliday e Coltrane e Kendrick Lamar». He’s a blues man, he’s just doing his hip hop thing.
Il voto del 2024 vedrà aumentare di molto il numero degli elettori appartenenti alla generazione Z, i nati tra la fine dei ‘90 e i primi anni 2010. Ciò cambia non poco gli scenari presenti e futuri. Si rileva anche una discreta tendenza, tra i più giovani, a rispondere con favore ai volti nuovi. Si è detto spesso a proposito di Bernie Sanders, nonostante quello di Sanders non lo fosse granché. Ma lo era a suo modo e innanzitutto, “nuova”, lo era la sua piattaforma. Ora potrebbe succedere con Cornel West dinanzi alla probabile riedizione della sfida Biden-Trump, auspicata al limite dai rispettivi parenti e su cui pesano numerose incognite. Sarà allora curioso capire quante persone riuscirà a convincere mentre fa la sua cosa hip hop più hip hop di sempre.
Altre cose interessanti
Arriviamo tardi a causa della pausa estiva, ma è proprio ai ritardatari come noi che ci rivolgiamo. L’11 agosto si è tenuta allo Yankee Stadium di New York una mega-celebrazione per i 50 anni dell’hip hop organizzata da Mass Appeal a cui hanno preso parte tantissimi artisti, della “vecchia” e della “nuova” scuola. Il suggerimento è di recuperare il concerto, se nel frattempo era passato di mente.
La scorsa settimana Sean “Diddy” Combs ha ricevuto le chiavi della città di New York dal sindaco Eric Adams e pubblicato un album r’n’b con sprazzi di rap, The Love Album: Off The Grid, un mix di suoni classici della Bad Boy ed elementi più moderni. Diddy sta vivendo il suo momento d’oro di riconoscimenti, al di là delle esuberanze qualche volta sopra le righe.
Non vorrei risultare superficiale e frettoloso, ma quanto sostenuto dal fondatore di Rolling Stone, Jann Wenner, oltre che ad essere a maggior ragione oggi inopportuno, è la conferma della scarsa considerazione che parti consistenti di industria discografica e stampa specializzata avevano nei confronti di artisti neri, donne, eccetera eccetera, fino a pochi decenni fa. Tra le righe è un’ammissione di colpa, diciamo.
Eccoci alla comunicazione di servizio accennata sopra. Prima di cominciare, grazie di essere arrivati quaggiù. Sarò breve. Fin qui Mookie è arrivato con cadenza regolare (ok, ok, molti di voi lo sanno già: non sempre regolare) ogni due venerdì. L’inizio di questa stagione sarà invece caratterizzato – *di base* – da un’uscita al mese, almeno fino a dicembre (*di base* perché magari, di tanto in tanto, potrei fare un’improvvisata). Le ragioni sono due. Da un lato una serie di impegni collaterali alla newsletter che stanno entrando nel vivo, dall’altro perché il meglio avverrà nel 2024. Il prossimo anno, quando ormai saremo in clima presidenziali, torneremo alla programmazione cui eravamo abituati. Spero possiate comprendere i motivi della decisione, comunque sofferta.
Con Mookie torna anche la playlist: a voi non resta che premere il tasto play. Domande? Suggerimenti? Potete rispondere alla mail, oppure scrivermi su Instagram, su Twitter (sarebbe ora di chiamarlo X? ma sul serio?) o su Notes. Se Mookie vi piace, mandate il link alle amiche e agli amici!
L’appuntamento è per ottobre, allora. State bene, ciao!