Vent’anni fa, a un certo punto della campagna elettorale, Sean Combs smentì in conferenza stampa di nutrire ambizioni presidenziali. Da qualche settimana si era infatti sparsa la voce che l’uomo conosciuto come P. Diddy avrebbe potuto annunciare qualcosa di grosso, come un Kanye West ante litteram. Il motivo di tanto fervore non era dovuto al caldo estivo, bensì ai progetti di Combs. A inizio luglio, nel mezzo del suo annuale White Party negli Hamptons, P. Diddy aveva presentato l’organizzazione apartitica «Citizen Change» e il programma Vote or Die, che mirava ad allargare la platea degli elettori più giovani e a incentivare il voto, soprattutto tra le minoranze. Però no, questo improvviso ingresso nelle faccende della politica non anticipava alcunché di particolarmente velleitario, né voleva essere un’iniziativa d’intralcio a qualcuno.
Let’s do it
Alla conferenza stampa nella Kimmel Hall della New York University partecipò anche James Carville, consulente politico di lungo corso, piuttosto vicino al candidato democratico John Kerry. La cosa era seria e Combs assicurò che non si sarebbe trasformata in un Puffy Show, ma in un proposito rivoluzionario1. Di rivoluzioni, del resto, lui poteva affermare di essere esperto. Un decennio prima aveva contribuito a plasmare un sound più alla portata del pubblico ancora scettico nei riguardi dell’hip hop. In seguito portò scompiglio nella moda con la sua linea d’abbigliamento “Sean John”, mentre erano imminenti le avventure imprenditoriali nel settore degli alcolici di lusso, che in futuro vedrà interessati altri personaggi noti della musica nera. In realtà il Puffy Show era appena cominciato, anche se in definitiva si trattava della prosecuzione di un annoso avanspettacolo di cui Combs era autore e commediante. Nel curriculum mancava giusto la politica e al White Party di inizio luglio 2004, quello di «Citizen Change», fece la sua plateale entrata di scena con una copia originale della Dichiarazione d’Indipendenza, presa in prestito dal produttore televisivo Norman Lear. Perché se una cosa va fatta, Mr. Combs la farà in grande.
Per un po’ è sembrato abbastanza concreto il rischio che lo scandalo Diddy irrompesse nella campagna elettorale 2024. Di norma era la consueta disinformazione, se non tentativi spudorati di propagare fake news in vista delle elezioni del 5 novembre. Sebbene se ne stia parlando da mesi, non conosciamo ancora tutti i dettagli del caso: con cadenza regolare si apprende di una nuova denuncia, una testimonianza inedita e così via. È la più classica delle narrazioni su potere e abusi, spesso accomunate dal senso autoindotto di intoccabilità dei protagonisti. Come le altre emerse negli ultimi anni e con i personaggi al centro delle vicende che talvolta ritornano.
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Take that, take that
Da un punto di vista musicale, il 2004 non verrà ricordato come un anno straordinario per la Bad Boy Records, a parte, forse, la hit I Don’t Wanna Know di Mario Winans. Oltre a Winans, uscirono Carl Thomas e i redivivi New Edition, sempre in ambito R&B. Dopodiché il duo 8Ball & MJG con Living Legends, per la novella divisione «South» dell’etichetta. E Ma$e, il quale travolto dalla vocazione divina pensò bene di ritirarsi per un periodo e mettersi a predicare, salvo fare dietrofront e registrare Welcome Back, un lavoro educato come si addice correttamente a un pastore, ma niente di memorabile.
Nel 2004 c’era fermento. Il clima era da “elezioni più importanti di sempre”, le conseguenze dell’11 settembre e in particolare il rifiuto della guerra in Iraq cominciavano a farsi sentire su larga scala. Come diffusa, in diversi strati della popolazione, era la diffidenza verso le misure di sorveglianza riassunte nel Patriot Act e l’insofferenza per l’inasprimento di pratiche di profilazione razziale o di programmi già in vigore, tipo lo Stop-and-Frisk a New York, cioè i risultati tangibili della “soluzione manichea” che l’America impose e subì allo stesso modo in quella fase drammatica e a tratti isterica.
Dopo l’avvio dell’intervento in Iraq, la guerra era un tema ricorrente anche nell’hip hop. Non per forza quella fuori gli Stati Uniti, per quanto il rap di protesta andasse a parare lì, ogni volta; comunque la guerra era il pretesto per descrivere anzitutto i conflitti interni. Un discorso manipolato del presidente George W. Bush presagiva l’instaurazione di uno Stato di terrore nell’intro dell’album Weapons Of Mass Destruction di Xzibit2. Mosh di Eminem era una critica feroce alla politica estera dell’amministrazione in carica, che andava a scapito delle battaglie «da combattere sul nostro suolo». C’era poi un’ulteriore questione da affrontare, favorita ora da un sentimento ostile e alquanto condiviso.
Una sacra legge dell’hip hop è la realness, ma spesso i rapper si accusano a vicenda di mentire nelle loro rime, di non raccontare le esperienze vissute, di millantarle semmai (And why do n***** lie in 85% of they rhymes? - chiedeva Jadakiss in un suo famoso singolo di allora). Senza dimenticare, al riguardo, gli strali contro chi produce musica per le masse, screditando – questo il peccato mortale – il significato profondo della cultura. Magari cambiano le regole di ingaggio, ma tutte le epoche hanno visto passare momenti del genere. Da Talib Kweli (If lyrics sold, then truth be told / I’d probably be just as rich and famous as JAY-Z / Truthfully I wanna rhyme like common sense3) ai più aggressivi Jedi Mind Tricks, nel 2004 questo era un tema ancora molto dibattuto. E se nel decennio d’oro dei ‘90 a sollevare il problema erano stati ad esempio Black Thought dei The Roots e Jeru the Damaja, il pensiero sottaciuto di alcuni era che un frammento di responsabilità poteva essere imputato proprio a lui: Sean Combs.
Can’t stop, won’t stop
Mettiamola così: a Combs non è mai importato granché. Il principale obiettivo era diventare una celebrità rispettabile e conclamata. Lo scopo di vita era stringere mani importanti, legare con la gente che conta. Essere una persona ricca e influente. Sentirsi amato. Piacere a tutti. Se per raggiungere il traguardo era necessario scendere a compromessi, di certo non si sarebbe tirato indietro. Aveva fiuto. Lo aveva per la musica e lo aveva per gli affari. Quando perse il lavoro alla Uptown Records – suo il merito dei primi successi di Mary J. Blige –, immediatamente fondò la Bad Boy Records. Era il 1993. Lo seguirono The Notorious B.I.G. e Craig Mack: il resto è storia.
Ain’t nobody’s hero, but I wanna be heard
On your Hot 97 every day, that’s my word
Swimmin’ in women wit they own condominiums
Five plus fives, who drive millenniums
It’s all about the Benjamins, what?– Puff Daddy feat. The Lox, It’s All About The Benjamins, 1997
Puff Daddy – il nome con cui si faceva chiamare agli inizi di carriera – si trascinava dietro una montagna di retorica: la dimostrazione di come anche un giovane nero in America, capace e intraprendente, potesse farcela. La dimostrazione, inoltre, di come un figlio di Harlem, la cui esistenza poteva essere segnata in negativo dalle scorribande del padre Melvin, un hustler noto per la vicinanza a Frank Lucas (la proiezione della doppia morale dell’eroe)4, fosse invece destinato a costruire un impero imprenditoriale ed economico. Questo è stato lo spirito che, in maniera costante, ha animato ogni sua mossa – dalla promozione delle attività nere all’impegno civico –, in un mix di postura da bad boy e all’occorrenza da messaggero di ottimismo. Ma sempre a una condizione: che faccia e voce fossero ben riconoscibili. Valeva per i successi discografici dei suoi artisti e valeva per i progetti di natura economica o politica. Fraintendimenti su chi fosse il capo non erano ammessi.
Bad boy for life
La musica restava prioritaria, tutto sommato. Combs in persona – più avanti toglierà la “P” e resterà solo Diddy – pubblicherà un paio di dischi (Press Play nel 2006 e Last Train To Paris nel 2010) e un mixtape (Money Making Mitch nel 2015), ma il paragone tra il materiale uscito almeno fino al 1998 sotto Bad Boy Records e le produzioni dei primi anni Duemila reggeva a fatica, compreso il mega-album collaborativo The Saga Continues (2001), che pure i pezzi da classifica li aveva. Black Rob, G. Dep e Loon, seppur talentuosi, non riuscirono a colmare l’assenza di Biggie. Alla vigilia del XXI secolo era accaduto il brutto episodio con Shyne, in una notte fin troppo movimentata a Manhattan che coinvolse anche Jennifer Lopez, all’epoca compagna di Combs. Per superare gli inciampi, bisognava dunque dare una lustratina all’immagine. I tempi erano maturi per rinnovare il brand, allacciare nuove relazioni durante gli esclusivi White Party, ampliare il portafoglio oltre l’hip hop e la moda – dove infatti già fioccavano premi –, entrare nel settore dei media.
Le elezioni del 2004 furono vinte da Bush. Venne il sospetto che strutture come quelle di (P.) Diddy, o Hip-Hop Action Summit Network di Russell Simmons, fondatore della Def Jam, avessero mancato il bersaglio. La convinzione era che se davvero i giovani si fossero recati alle urne in quantità, Kerry avrebbe avuto gioco facile. La verità è che quello dei giovani fu uno dei pochi segmenti demografici – in aumento in termini elettorali rispetto al 2000 – vinti dal candidato democratico, ma non gli fu sufficiente. Se qualcosa suona familiare, ripensando alle ultime elezioni statunitensi per cui 2+2 mai ha fatto 4, è normale. Alla fine, poi, l’interventismo americano e le guerre in Medio Oriente non determinarono l’esito del voto come ci si poteva aspettare. A pesare sul serio furono i valori etici sponsorizzati da Bush, i richiami continui alla religione cristiana che caratterizzavano il suo linguaggio politico, elementi cari ad una cospicua fetta dell’elettorato conservatore.
Combs, per non smentirsi, aveva messo faccia e voce in un tour con tappe in diverse città statunitensi, appuntamenti utili per spiegare alle platee che accorrevano adoranti che il voto è «sexy».
Nel 2020 Combs ha rispolverato il motto Vote or Die e lanciato sulla scia delle uccisioni di Breonna Taylor e di George Floyd la piattaforma programmatica Our Black Party, con l’obiettivo dichiarato di evitare il secondo mandato consecutivo di Donald Trump, un uomo passato tra le sue frequentazioni alotolocate e ora, alla Casa Bianca, ritenuto una minaccia. Con il trascorrere degli anni, esclusi French Montana e Janelle Monáe, la musica è stata meno centrale nell’attività di Diddy. L’imprenditore, il filantropo, il Jay Gatsby moderno: poteva essere definito in tantissimi modi, le presentazioni non erano più necessarie.
A settembre 2023, Combs ha ricevuto le chiavi della città di New York dal sindaco Eric Adams e pubblicato dopo anni di silenzio artistico un disco R&B infarcito qua e là di rap, The Love Album: Off The Grid. Già da qualche tempo aveva espresso il desiderio di essere chiamato «Love». In principio sembrava essere uno scherzo, ma nel 2022 il cambio di nome è divenuto ufficiale, all’apice – a quanto è dato sapere – di un percorso di crescita spirituale orientato alla positività. L’ennesima metamorfosi di cui potrebbe aver anticipato qualcosa nell’apparizione nell’album di Blood Orange del 2018 e che si è infine completata con la nascita della sua ultima figlia, Love appunto, oggi di due anni. Sempre nel 2022, a giugno, Diddy era stato fregiato del BET Lifetime Achievement Award, prestigioso riconoscimento alla carriera.
The last song
Nel suo momento migliore, la caduta rovinosa.
Nel novembre 2023, circa due mesi dopo aver ricevuto le chiavi di New York (poi revocate), l’ex fidanzata di Diddy, la cantante Cassie (Cassandra Ventura), ha intentato una causa civile contro di lui, citando abusi e maltrattamenti, sesso forzato con altri uomini e la possibilità che Combs avrebbe fatto esplodere l’auto di Kid Cudi, in quanto “colpevole” di avere intrattenuto una rapida relazione con la stessa Ventura. Il caso viene chiuso in meno di 24 ore con un accordo tra le parti.
Solo che da lì in poi è un crescendo. Altre donne si fanno avanti. Raccontano di essere state abusate o violentate e accusano direttamente Combs. Alcune delle testimonianze comprendono situazioni vecchie di decenni.
A maggio di quest’anno, la CNN è entrata in possesso di un video di sorveglianza all’interno di un albergo in cui si vede Combs picchiare e prendere a calci Cassie. Il filmato risale al 2016. A 48 ore dalla pubblicazione del video, Diddy si scusa per l’accaduto su Instagram.
Iniziano a circolare voci incontrollate. Qualcuno comincia a insinuare che nei White Party – una ricorrenza interrotta nel 2009 – potevano accadere cose strane, troppo per essere “derubricate” a bizzarre peripezie di gente arricchita e annoiata. È una rincorsa al sospetto: chi partecipava non poteva non sapere, chissà in quanti erano complici, eccetera eccetera. In più Combs sarebbe stato solito organizzare le cosiddette feste freak off in camere di hotel e lì, si mormora, veramente succedeva di tutto.
Intanto le accuse nei confronti di Diddy aumentano a dismisura. Le denunce sono più di cento e tra le presunte vittime figurano donne, uomini, minori. Già a marzo, alla luce delle innumerevoli rivelazioni, le autorità federali avevano perquisito le sue proprietà immobiliari di New York, Miami e Los Angeles.
Il 16 settembre Combs viene arrestato e incriminato per traffico di esseri umani a scopo sessuale e racket. Attualmente si trova nel Metropolitan Detention Center di Brooklyn, New York. In attesa di processo nel 2025, si dichiara innocente.
Il resto, stavolta, è cronaca.
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Dato per scontato che abbiate ascoltato GNX, il disco di Kendrick Lamar uscito a sorpresa la scorsa settimana, è assai probabile che Drake abbia invece rosicato, come si dice dalle mie parti. È notizia di questi giorni l’avvio, da parte dello staff di Drake, di una serie di azioni legali contro Universal (peraltro etichetta che si occupa della distribuzione di entrambi gli artisti), accusata con Spotify di avere alterato gli ascolti di Not Like Us, il pezzo che più di tutti – secondo la “giuria popolare” – ha decretato la vittoria di Lamar nella beef primaverile con il rapper canadese. Non solo: Drake ha depositato un documento contro UMG per diffamazione, perché a suo dire l’etichetta avrebbe dovuto impedire la pubblicazione di un brano contenente falsità su di lui. Una terza accusa prefigura la violazione della RICO, la legge contro il crimine organizzato. In pratica chi sta rappresentando Drake sostiene che dietro tutto questo si celi una cospirazione. C’è poco altro da aggiungere, se non first reaction: 🍿
Tanto per cominciare, grazie di aver letto fin quaggiù. Il ritorno post-elettorale di Mookie è l’occasione per comunicare alcuni piccoli cambiamenti all’orizzonte. L’appuntamento con la newsletter passa da ogni due venerdì a ogni tre. I motivi di questa decisione ho avuto già modo di accennarli, ma li ripeto per coloro all’ascolto da poche settimane (a proposito: grazie, di nuovo, per la fiducia). Sono stati quattro anni intensi, abbiamo raccontato due campagne elettorali americane attraverso la musica nera e ora non voglio correre il rischio di risultare ripetitivo nella scelta o nello sviluppo degli argomenti. Per mantenere un impegno fisso senza rinunciare alla qualità, servono studio e dedizione. Sono certo possiate capire.
Adesso le care, vecchie abitudini. La playlist della newsletter è pronta: non resta che premere il tasto play. Domande? Suggerimenti? Potete rispondere alla mail, scrivermi su Instagram, su Threads o su Notes. Se Mookie vi piace, mandate il link ad amici e parenti!
Ci leggeremo a dicembre, a presto!
Sono informazioni recuperate dall’archivio online del New York Times.
L’album uscì a dicembre, con Bush appena rieletto.
Sebbene possa sembrare un diss rivolto a JAY-Z, lui e Talib Kweli si sono sempre stimati. Questa di Kweli era una risposta a un verso di JAY-Z contenuto nel brano Moment of Clarity del 2003, in cui dice: If skills sold, truth be told, I’d probably be lyrically Talib Kweli / Truthfully I wanna rhyme like Common Sense / But I did 5 mill’ - I ain’t been rhyming like Common since. JAY-Z chiarirà il concetto nel libro Decoded del 2010.
Melvin Combs fu ucciso nel 1972 a Central Park West.