Che poi non è facile dare una definizione di eroe. È un termine che di recente abbiamo usato spesso a causa della pandemia, forse non sempre a ragione. Comunque, dicevamo, non è facile dare una definizione di eroe in quanto il concetto – esclusi i protagonisti dell’epica, dei film o dei fumetti – rientra in una sfera talvolta più soggettiva che oggettiva. Possiamo giudicare eroico un gesto, eroica un’impresa, possiamo ammirare le azioni straordinarie di qualcuno e per questo considerarlo un eroe. Oppure no, perché qualcosa ci spinge in una direzione contraria. Però è indubbio che nella storia umana alcune persone lascino il segno più di altre. È l’esigenza di scindere il bene dal male che ci esorta a definire l’eroe. Ammesso che “bene” e “male” coincidano in ognuno di noi. Insomma, è un gran casino.
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In un articolo sul New York Times di fine gennaio, Imani Perry, professoressa di Studi afroamericani alla Princeton University e autrice di diversi libri (di cui uno, fondamentale, su politica e poetica nell’hip hop), indaga la figura dell’eroe nero che è, inevitabilmente, «più complicata dei tradizionali grandi eroi americani». L’immagine dell’eroe nero americano, osserva Perry, è un fatto di coscienza doppia, perché la sua rappresentazione da un lato respinge l’atavica idea di inferiorità – all’interno della più profonda questione razziale –, mentre dall’altro serve ad affermare l’appartenenza alla nazione, che è un segno di legittimità in una società a lungo segregata e oppressiva.
In generale, però, la narrazione degli eroi avviene su un piano solitamente individualistico, con il risultato di decontestualizzare i tasselli indispensabili di una storia. I cambiamenti sociali, dice ancora Perry, non sono mai opera di un singolo, ma lo sforzo collettivo di un movimento che l’ideale romantico dell’eroe – un essere umano comunque fallibile – rischia di oscurare. Ed è quanto succede anche con gli eroi neri (uomini, il più delle volte), siano essi protagonisti antitetici della lotta per i diritti civili o persone che hanno raggiunto posizioni di successo altrimenti precluse (per chi è interessato, nel suo articolo Imani Perry passa in rassegna le diverse tipologie di eroe nero).
Queste considerazioni mi sono tornate alla mente ascoltando il disco ispirato a Judas and the Black Messiah, film che ripercorre il tragico epilogo di Fred Hampton (interpretato da Daniel Kaluuya), leader delle Pantere Nere dell’Illinois, ucciso nel 1969, a 21 anni, dalla polizia di Chicago. La figura di Hampton è ritenuta da molti meritevole di approfondimenti per il suo messaggio rivoluzionario ed è, tanto più nella sua trasposizione cinematografica, la dimostrazione che l’eroe è tale se ha un antagonista (un rivale, un nemico o un traditore, il sistema...), ma che diventa eroe soprattutto quando muore, perché è a quel punto che il mito assume una forma definitiva. In altre parole – qui provo a riprendere il ragionamento di Imani Perry – tendiamo ad accettare in modo acritico l’iconografia messianica, trascurando il più corale eroismo. Nel caso del movimento per i diritti civili, Perry parla non di eroi, ma di eroismo di donne e uomini che in quegli anni turbolenti rifiutarono il razzismo e le sue barriere.
C’è poi il problema della messa in scena dell’eroe nero. O per meglio dire: il problema che Hollywood sembra avere con i resoconti degli eroi neri. Un film che tratta di temi complessi – quale è il razzismo negli Stati Uniti – subisce spesso, questa l’accusa, una qualche manipolazione, innocente quanto volete, ma pur sempre un’alterazione degli eventi, così da rendere il prodotto più digeribile all’America bianca. In Judas and the Black Messiah, ad esempio, le parti più controverse – tra imprecisioni e licenze creative – riguarderebbero il personaggio di Bill O’Neal (Lakeith Stanfield), l’informatore infiltrato nel Black Panther Party che fornì all’FBI la planimetria dell’appartamento in cui venne ucciso Hampton. A tale proposito, in Minority Report (newsletter di Level, una pubblicazione Medium molto seguita), viene citata la proposta dello scrittore Jelani Cobb, su Twitter, di un biopic su Assata Shakur, che non ha ottenuto consensi unanimi proprio per il timore di una possibile distorsione hollywoodiana della vicenda (ancora in corso come sottolinea questo eloquente titolo di Fox News), ma in generale si tratta di una critica diffusa e certamente non nuova (c’è anche chi, a proposito di Judas and the Black Messiah, la pensa in maniera totalmente diversa per le stesse ragioni di fondo).
Sì, ok, ma cosa c’entra l’album? Nel tempo la caratura degli eroi è molto cambiata. Non solo gli attivisti, successivamente il ruolo toccò pure agli sportivi, ai cantanti e ai rapper. Ma c’è stata anche una fase di mezzo, in alcuni angoli di America, in cui non era Michael Jordan – l’eroe più popolare – il modello da guardare.
Nobody want to be like Michael where I'm from
Just them niggas who bounced from a gun
We out here trying to make hard white into cohhhhld green– JAY-Z, Coming of Age (1996)
Il disco Judas and the Black Messiah è nel complesso un valido tentativo di rendere attuale la dottrina rivoluzionaria di Hampton – non mancano i riferimenti a Donald Trump, come in Plead The .45 di Smino e Saba, o ai fatti di cronaca più recenti, tipo l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio –, ma qua e là si osserva un’autocelebrazione dell’eroe, cioè l’autore stesso del brano – Nas in EPMD e JAY-Z in What It Feels Like –, che ad un ascolto superficiale stona parecchio con l’obiettivo (almeno teorico) dell’opera. In particolare Nas, quando rispolvera il caro, vecchio mafioso rap (chiamando tuttavia in causa Huey P. Newton, giusto per non andare troppo fuori tema):
Look, hood theories
Arnold Rothstein rigged the World Series
Gotti ran every union in the city
N-A-S do it B-I-G like Biggie, leadin' like Huey Newton did
Nella narrativa contemporanea il crimine organizzato ha sempre prodotto una sorta di “eroi alternativi” e a un certo punto anche i rapper di strada ne sono rimasti affascinati – convenzionalmente si ritiene Kool G Rap l’iniziatore del mafioso rap, un sottogenere del sottogenere gangsta, che a sua volta era la risposta della East Coast al californiano G-funk –, in questo modo personaggi come Al Capone, Bugsy Siegel e John Gotti sono diventati assidui “frequentatori” dei testi hip hop. Era perlopiù fiction: di tanto in tanto poteva nascondere qualche frammento di realtà, ma in linea di massima il mafioso rap voleva essere una personale proiezione del potere, che inoltre significava mettersi al pari delle ambizioni del mondo bianco. La stessa ambizione che anni prima deve aver motivato, in questo caso per davvero, gente come Bumpy Johnson (The Godfather Of Harlem), Nicky Barnes (Mr. Untouchable) e Frank Lucas (American Gangster). Ecco, dunque, che pure in un concept album come Judas and the Black Messiah emerge la dimensione dicotomica dell’eroe, bene e male, giusto e sbagliato, realtà e finzione, pace e guerra, fallibilità, eccetera eccetera.
Ma ora concedetemi una curiosità: Paris aveva judo?
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