«Ogni venerdì una nuova storia»: avrete notato che da alcune settimane non va esattamente in questo modo. Diamo la colpa alla primavera. La verità è che sarà così ancora per un po’, potremo essere più discontinui del solito per qualche mese, o forse meno, ma almeno siamo trasparenti.
Bentrovati su Mookie, la newsletter che stavolta prova a investigare il legame tra musica e religione.
Per quanto stramba la campagna elettorale 2020 di Kanye West sia potuta apparire – ammesso che si abbia avuto la costanza di seguirla, per quel poco che abbiamo potuto apprendere da quest’altra parte dell’oceano –, in realtà è stata niente di così straordinario, almeno nei toni e nei contenuti. Di partenza, qualsiasi cosa detta o semplicemente sussurrata nella sua (prima?) parentesi politica, ha avuto a che fare con la religione, con Dio e con i valori cristiani (la contrarietà di Kanye all’aborto è l’elemento programmatico che più di tutti è emerso durante i pochi comizi tenuti. Anzi, azzardiamo: l’unico).
Con Jesus Is King, ufficialmente il suo ultimo disco uscito a ottobre 2019, Kanye West ha consolidato la propria svolta cristiana – qualcosa comunque di noto al pubblico fin dai tempi di Jesus Walks del 2004 –, tuttavia in un contesto di declino per il cristianesimo in America, stando ad un’indagine del Pew Research Center diffusa nello stesso periodo, con la teorica eccezione, guarda caso, di uno Stato come il Wyoming – dove Kanye all’epoca aveva piazzato il suo quartier generale –, non molto popoloso, ma con un’alta percentuale di persone che si dichiarano cristiane. Anche se il 2020 ha fatto eccezione (inutile stare a ricordare perché), in un modo o nell’altro il fattore religione durante le presidenziali è un dettaglio poco trascurabile.
Nel 2016, Kanye West e Chance The Rapper, in una fase di stretta collaborazione, pubblicarono due progetti – The Life Of Pablo il primo, Coloring Book il secondo – che definirono gospel, forzando un po’ il concetto, a meno che la partecipazione di Kirk Franklin in entrambi i lavori non sia da considerare un tratto distintivo, evidentemente utile per stabilire cosa è gospel e cosa invece non lo è. Ad ogni modo, se in seguito Jesus Is King ha ottenuto ai Grammy 2021 il riconoscimento come Best Contemporary Christian Music Album, alcuni anni prima Lecrae – oggi tra i principali esponenti del Christian Hip Hop – riuscì ad aggiudicarsi il premio nella categoria Best Gospel Album per Gravity del 2012, mettendo in luce un rinnovato metro di giudizio per la musica gospel – e per la musica di orientamento cristiano in generale – da parte dell’industria discografica.
Deliver us serenity
Deliver us peace
Deliver us loving
We know we need it
You know we need it
You know we need it
That's why we need You now, oh
Pray for Paris
Pray for the parents
This is a God dream
This is a God dream
This is a God dream– Kanye West, Ultralight Beam, 2016.
Nel rap è piuttosto frequente imbattersi in testi che chiamano in causa riferimenti biblici o Dio. Non sempre allo stesso modo, non sempre in chiave davvero religiosa. Si tratta spesso – e gli esempi possono essere moltissimi: Tupac, Notorious B.I.G., Nas, JAY-Z, Snoop Dogg, DMX... – di un processo intimo, una funzione salvifica, un modo per espiare le colpe e ritrovare sé stessi. Anche in Kendrick Lamar la religione è una costante, soprattutto in DAMN., che per l’autore quasi rappresenta un viaggio mistico. Eppure uno dei maggiori interpreti del christian rap è un “radicale” come Soup The Chemist – beh, bisogna ammetterlo, non uno famosissimo a queste latitudini –, il quale in un libro pubblicato nel 2014 (Through My Windows - The History Behind Holy Hip Hop) attacca senza troppi giri di parole gli artisti rap che si rivolgono a Dio, senza sapere quale Dio se non il denaro o il proprio ego sfrenato. Il punto è: là fuori c’è ancora un pubblico disposto a ricevere un messaggio di questo tipo?
Le domeniche ecclesiastiche organizzate da Kanye West nel 2019 in California, Ohio, Georgia, Wyoming, Utah, Washington DC, a Chicago, Miami e al Coachella – i Sunday Service (video sopra), tanto sponsorizzati anche da Kim Kardashian – non sono una rappresentazione casuale, o esclusivo fanatismo a scopo di lucro, o almeno non solo questo, ma il risultato di un retaggio religioso e culturale, che ripercorre secoli di storia afroamericana.
In principio, i padroni bianchi non erano interessati alla conversione degli schiavi neri, ritenuti nient’altro che bestie (una condizione utile a giustificare l’esistenza stessa della schiavitù). Con il passare del tempo, però, chi tra gli schiavi godeva di uno status superiore (che significava non svolgere le mansioni più dure e a rischio punizioni), tanto da poter sperare, talvolta, in una futura concessione di libertà, cominciò ad avvicinarsi al cristianesimo, spesso anche di sua iniziativa, poiché la religione rappresentava quanto di più vicino al mondo bianco – ormai il proprio mondo –, mentre l’Africa cominciava ad essere percepita come qualcosa di lontano, una terra straniera.
Non a caso le prime chiese cristiane nere divennero il ritrovo ideale per lo sviluppo di una “socialità nera”, altrimenti esclusa dalla vita schiavile. E il nuovo contesto modificò inoltre la musicalità, favorendo la nascita di un suono più armonioso rispetto a quello dei campi. Non era insolito che i primi cristiani neri si radunassero nei boschi, tipo i Sunday Service di Kanye West secoli dopo, ma senza gli smartphone, le dirette Instagram e il merchandising.
Ad Harlem le chiese sono luogo di riunione e di preghiera per i fedeli, e attrazione per turisti curiosi che desiderano ascoltare dal vivo autentici cori gospel. Come racconta il New York Times, la pandemia ha per qualche tempo azzerato tutto questo, provocando non pochi problemi alle comunità. Per la prima volta, tante persone hanno dovuto rinunciare per forza di cose alla messa della domenica e alla musica sacra, che per molti è ricerca di salvezza, una fonte di ispirazione. Così i leader delle chiese (perlopiù a maggioranza nera e latina, segmenti demografici che specialmente all’inizio hanno pagato in misura maggiore le conseguenze dell’emergenza sanitaria) si sono dati da fare per riportare la musica tra la gente – chi in streaming, chi con altri accorgimenti –, accorciando le distanze.
Prendendo qualche dato sparso del Pew Research Center, a fronte di un declino più o meno diffuso del cristianesimo, emerge che negli Stati Uniti, in generale, i neri sono più religiosi dei bianchi. Gli uomini neri lo sono meno delle donne nere, ma più degli uomini bianchi e delle donne bianche. Gli uomini neri sono anche più religiosi degli uomini ispanici e almeno tanto quanto le donne ispaniche. Quasi otto neri su dieci (79%) si identificano come cristiani, mentre nel complesso affermano di esserlo sette americani su dieci (71%), di cui il 70% dei bianchi, il 77% dei latinoamericani e appena il 34% degli asiatici. Il trend si conferma anche tra i millennial – i nati tra il 1981 e il 1996 (così non ci confondiamo...) –, i quali, sebbene meno religiosi dei neri di età superiore o più anziani, sono considerevolmente più religiosi dei coetanei di altri gruppi. Infine, siccome sono diversi i riferimenti biblici in cui gli afroamericani si riconoscono da secoli, ad esempio la storia della schiavitù e della liberazione degli israeliti, non dovrebbe stupire che le persone nere sono anche quelle più propense a leggere le sacre scritture, cosa che fanno con regolarità e al di là della ricorrenza dei servizi religiosi.
Gli elementi culturali sono alla base, insomma, di un lungo percorso stilistico che ha avuto un enorme impatto sullo sviluppo della musica nera. I primi spiritual hanno contribuito all’origine del gospel e alla successiva formazione del blues (e poi del jazz). Sono numerosissimi i cori, molti famosi anche fuori dall’America; alcuni brani gospel come Father I Stretch My Hands di Pastor T.L. Barrett hanno ispirato le più recenti creazioni di Kanye West; artisti di fama internazionale, Fred Hammond e il già citato Kirk Franklin, sono stati circa un anno fa al centro di una delle tante Verzuz battle andate “in onda” durante la pandemia. Cantanti soul hanno spesso prestato la propria voce a composizioni similreligiose – ci facciamo bastare un nome: Donny Hathaway –, molti si sono formati nei cori delle chiese e ancora oggi assistiamo, Lecrae a parte, ad una contaminazione di suoni e generi in chiave gospel, progetti a loro modo ambiziosi come Snoop Dogg Presents Bible Of Love del 2018.
La scorsa settimana è uscita l’ultima fatica di J. Cole, The Off-Season, un disco di cui si è parlato abbastanza anche in Italia e che merita l’ascolto, ma che a un certo punto ha concentrato le attenzioni di tutti, media e appassionati di hip hop, per una storia riemersa nel brano l e t . g o . m y . h a n d e risalente al 2013. In occasione dell’after-party degli MTV VMA, il suo entourage e quello di Sean “Diddy” Combs vennero alle mani – niente di paragonabile agli anni ‘90, è forse opportuno sottolineare – a causa di una vicenda che vedeva coinvolto Kendrick Lamar (quest’ultimo, qualche tempo prima, aveva osato autoproclamarsi Re di New York: era una provocazione bell’e buona, oltretutto Kendrick non è di New York, ma Diddy se la legò al dito lo stesso). J. Cole si scagliò allora in difesa dell’amico (le cronache sostengono che Diddy tentò di versare un drink addosso a Kendrick Lamar), dopodiché i due smontarono subito l’accaduto e la cosa si è trascinata per un po’, fino ad oggi, con le conferme di uno dei diretti interessati. Ma è acqua passata e a chiudere l e t . g o . m y . h a n d c’è Diddy in persona, con una strofa che in pratica è una preghiera.
Lord, please guide our steps
Watch us, cover us
So that every move we make is in alignment with Your will
Your purpose
Please fill us with Your spirit
Keep us forever in the present
For presence makes the strongest fathers
Teach us how to lead
Show us how to love
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In questo periodo, là fuori, è tutto un parlare di politicamente corretto, cancel culture, eccetera. Chi segue Mookie già da un po’ dovrebbe sapere che l’argomento non mi appassiona granché, soprattutto a non appassionare è l’edizione italiana del tema, che è invece sintomatico di un problema tanto più ampio e che a stento riusciamo a comprendere. Confondiamo le mele con le pere, la buttiamo in caciara, ci diamo di gomito e non aggiungiamo niente di realmente produttivo al dibattito. Tuttavia, c’è un aspetto che preme sottolineare: prima di addentrarci in determinate discussioni, dovremmo chiederci se davvero non siamo più in difetto verso il prossimo, anche in piccole cose, che piccole in definitiva non sono. Per dire: non tutti i neri sanno fare rap, crederlo è uno stereotipo sociale e culturale. E analizzando la storia, i danni provocati dagli stereotipi culturali superano di gran lunga qualsiasi forma, talvolta presunta, di contemporanea omologazione del pensiero, non fosse altro che gli stereotipi sono, giustappunto, quasi sempre un’omologazione del pensiero.
Fine della ramanzina, chiedo scusa.
È ovvio che il legame religione-musica nasconde insidie e sfaccettature diverse, che non riguardano il solo cristianesimo, specialmente dal lato hip hop. Perciò questa è una prima puntata sulla materia, ne seguiranno altre più avanti.
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