Era il 2015 quando Drake se la prese per un commento su Twitter (poi eliminato) di Meek Mill, con il quale in precedenza aveva collaborato: «Stop comparing Drake to me too… He don’t write his own raps! That’s why he ain’t tweet my album because we found out!». L’accusa di avere un ghostwriter che gli scrive le strofe è un’onta di proporzioni indicibili per il rapper che la riceve. Se ne è parlato spesso – chi ritiene che ricorrere ad una figura del genere sia il male assoluto, un definitivo svilimento dell’arte del rap; chi al riguardo mantiene posizioni più morbide –, ma non è su questo che ci soffermeremo adesso. Per un po’ Drake e Meek Mill continuarono a battibeccare, ma come si faceva un tempo, attraverso la musica, quando i social network non esistevano e al massimo l’uno parlava male dell’altro nelle interviste. Il punto fondamentale della beef rimane il tweet iniziale. Non era il primo caso, né sarebbe stato l’ultimo, semmai la conferma di come una costante presenza online abbia stravolto le dinamiche anche di un ambiente che ha sempre avuto le sue regole non scritte, ma rigorose. D’un tratto, invece, è cominciato a valere tutto.
Yeah, trigger fingers turn to Twitter fingers
– Drake, Back To Back, 2015
L’altra volta, nei saluti, ho ammesso di essermi iscritto anch’io a Mastodon, sebbene non mi sia mai reputato in fuga da Twitter. La cosa, di per sé piccolissima, nascondeva un significato più profondo. L’acquisizione di Twitter da parte di Elon Musk ha scatenato una serie di voci, spesso fatte trapelare in maniera incontrollata dallo stesso proprietario, sul futuro del social network. Ma soprattutto ha scatenato non pochi timori, tra dipendenti licenziati o che si sono dimessi in blocco. Per farla breve: molti la vedono male e nessuno sa, davvero, com’è che andrà a finire questa storia. Qualcuno ha già abbandonato la piattaforma per ripicca nei confronti di un imprenditore che strizza l’occhio ai sostenitori di Trump e che definire burrascoso è fargli un complimento; altri sono sempre lì, ma si guardano intorno; infine ci sono i fanatici, che o Twitter o niente. È probabile che Twitter resisterà – parole pronte ad essere smentite dai fatti –, ma non possiamo escludere che si trasformi presto in un luogo molto diverso da come lo conosciamo. Una cosa, però, possiamo dirla subito: Twitter è stato uno strumento non trascurabile in un periodo di proteste e mobilitazioni, negli Stati Uniti e fuori, pur con degli spunti controversi. Ed è più o meno su queste ultime osservazioni che ci concentreremo nella nuova puntata. Immagino ve lo stiate chiedendo: sì, alla fine su Drake e Meek Mill è tornato il sereno.
Ciao, questa è Mookie, una newsletter che ha la stramba idea di provare a raccontare qualcosa dell’America con la musica nera. Potete condividere, mandare il link a tutta la famiglia, parlarne in giro, eccetera eccetera. Se ciò che trovate qui è di vostro gradimento, naturalmente.
Twitter è una bolla. È forse il modo più corretto per discuterne: partire da qui. Nella classifica delle piattaforme social più utilizzate al mondo, relativa al mese di ottobre, Twitter è la prima. Delle ultime. Pinterest, Reddit e Quora fanno peggio, mentre le prime quattro – nel senso di prime prime: Facebook, YouTube, Whatsapp e Instagram (alle loro spalle WeChat e TikTok) – risultano molto distanziate. La bolla di Twitter è presto spiegata. Negli Stati Uniti, secondo il Pew Research Center, è la piattaforma preferita dai giornalisti (quasi sette su dieci la usano per lavoro, ma il trend è osservabile anche altrove). Tuttavia è Facebook il social più frequentato per cercare notizie (31%). Il secondo è YouTube (22%) e Twitter, terzo per questo tipo di utilità, si ferma al 13%, quando è “abitato” da circa il 23% degli americani.
Had to talk to God, dropped down, and prayed for this
To my surprise, He replied, said, “You made for this”
I seen the car I wanted, then I went and paid for it, cash cash
Hit the Tay-K, I hit the race, hit the dash dash
That’s when they came for me on Twitter with the backlash
#CardiBIsSoProblematic is the hashtag
I can't believe they wanna see me lose that bad
They talkin’ junk and they stink, these hoes mad trash
I’m gigglin’, can’t let the devil have the last laugh
Ain’t no more beefin’, I’m just keepin’ to myself
I’m my own competition, I’m competin’ with myself (Brrr)– Cardi B, Best Life, 2018
Un altro mito da sfatare riguarda l’attivismo politico all’interno della piattaforma, che di norma si dà per scontato. Quella di Twitter, al contrario, è una galassia così variegata da rendere difficile un resoconto esaustivo. Certamente è vero che le questioni politiche e sociali sono molto attrattive – e a queste possono associarsi determinate azioni dentro e fuori il social network –, ma è altrettanto vero che i tweet legati alle discussioni sulla politica includono soprattutto la porzione di pubblico più adulta (talvolta over 50). Inoltre non è detto che la reazione più immediata alla visualizzazione di una timeline particolarmente impegnata sia accodarsi al mormorio generale. A individuare una tendenza per sommi capi, sembra che agli elettori democratici Twitter piaccia più che ai repubblicani e che in molti casi lo ritengano un bene per la democrazia. O almeno tutto questo era vero prima dell’arrivo di Elon Musk ai vertici della società.
La recente riabilitazione dell’account di Donald Trump, stabilita da Musk in persona tramite sondaggio (fasullo) – non serve ricordare perché finì che Facebook e Twitter lo sospesero, vero? –, potrebbe essere solo l’inizio del lungo processo di rinnovamento che il miliardario di origini sudafricane ha in mente per il suo giocattolo, ammesso che un piano ce l’abbia sul serio. Trump si è da poco ricandidato alla presidenza, ma per il momento preferisce restare arroccato sul suo Truth Social (una goccia nell’oceano dell’internet di cui i cittadini statunitensi sanno poco o niente). E mentre gli utenti riflettono sulla possibilità di migrare su piattaforme alternative che promettono il ritorno all’età dell’oro dei social network, la domanda è: cosa resterà di quelle comunità o di quei movimenti che proprio in Twitter hanno trovato il migliore megafono possibile?
Tell Trump don’t send a tweet, send a plumber to Flint
– Royce da 5’9’’, Young World, 2020
C’è un motivo se di Twitter si parla quasi ossessivamente pure al cospetto di numeri non stratosferici. Ha a che fare con la polarizzazione politica, specie negli Stati Uniti, con la diffusione di fake news e con la proliferazione di bot automatici e, appunto, con l’attivismo. Che sarà stato troppo a geometria variabile, abbiamo visto, ma ha ottenuto in alcune fasi una notevole cassa di risonanza, dalle primavere arabe al #MeToo (un movimento che meriterebbe l’apertura di ulteriori parentesi alla luce delle sue origini pre-Weinstein), passando per #BlackLivesMatter. Come ha scritto il Los Angeles Times, raccontando tra gli altri il caso di Pariss Chandler, la quale aveva costituito una community (#BlackTechTwitter) che è stata la base della sua società specializzata nel reperimento di professionisti neri in ambito tecnologico, Black Tech Pipeline, Twitter è sempre stata «una piattaforma relativamente piccola, ma potente, diventando una sorta di piazza pubblica digitale per influencer, politici, giornalisti e altri leader di pensiero». Dopo l’uccisione di George Floyd a Minneapolis, il 25 maggio 2020, l’uso dell’hashtag #BlackLivesMatter registrò su Twitter una nuova impennata, considerata la precedente diffusione – da Ferguson in poi –, utile peraltro a organizzare le proteste o a darsi appuntamento alle manifestazioni nelle città dove erano in programma. Di sicuro, negli Stati Uniti, le formule a vario titolo di attivismo online hanno avuto una tenace partecipazione nera, da un lato per il grado di coinvolgimento e dall’altro – diretta conseguenza delle cronache degli ultimi anni – in quanto segmento demografico più incline a sostenere le cause contro gli abusi e il razzismo sistemico.
Takes more than February for black observance
‘Tip said black is black and the congregation sang,”for sure”
Word, bet this ain’t no B.E.T
This black entertainment that don’t rerun what black used to be
Under black cottonwood where schemes emerge
Shiftin’ the minds of I and I and you and you who thought [?]
No racial drafts or honorary blacks
We goodie just the way you stacked, no need to sambo act to have my back
One can't redact the black or white, tell what in fact is fact
Ol’ King James said it loud, yeah, King James kept us daft
They scare towards every ear that hear it, tides that turn
For every year of tears, for every cheek one’s turned
Unlock– Quelle Chris & Chris Keys, BLACK TWITTER, 2020
La comunità nera che anima la piattaforma è stata ribattezzata sin dagli albori Black Twitter. Per dirla ancora meglio, seguendo il suggerimento di Meredith Clark, professoressa alla Northeastern University, intervistata dalla NPR e con un libro in uscita proprio sull’argomento, Black Twitter rappresenta l’insieme dei gruppi di persone «che twittano su questioni che interessano le comunità nere», con lo scopo – ha aggiunto tra le righe in un secondo intervento – di riempire un vuoto endemico. Una delle principali caratteristiche del Black Twitter è l’umorismo, il cui effetto è quello di promuovere una narrazione scanzonata delle ingiustizie sociali o delle difficoltà, come avvenuto nel periodo pandemico. Tutto questo, dunque, c’era già prima di Musk e già prima di Trump alla Casa Bianca. Ha già conosciuto le derive del free speech (checché se ne dica) e i tweet compulsivi del petulante ex presidente. Per quanto il dibattito sul “resto o non resto” sia contemplato ovunque – le convinzioni politiche di ognuno incoraggiano o contrastano il tormentato dilemma –, potrebbe non sussistere una ragione specifica che spinga milioni di utenti a mollare Twitter in quattro e quattr’otto e anche le celebrità della musica e dello sport non danno l’idea di volersene andare. Ai timori, spesso, fanno da contraltare storie dall’esito positivo o romantico, o entrambe le circostanze. Molti concordano che non esista una reale possibilità di sostituzione, che quel tipo di esperienza abbia qui avuto un senso e non sia più replicabile su altri social. Le pratiche espressive e i diversi modi di comunicare, dall’Harlem Renaissance ad oggi, senza dimenticare l’hip hop, sono la testimonianza di un potere creativo – di nuovo Meredith Clark nell’intervista a NPR – che non può essere estinto e di cui Black Twitter è l’enorme contenitore in tanti anni di lotte, conforto reciproco, stop and go e obiettivi raggiunti.
What’s good good? And what’s good evil?
And what’s good, gangstas? And what’s good, people?
And why God phone die every time that I call on Him?
If his son had a Twitter, wonder if I would follow Him– Chance The Rapper, Everybody’s Something, 2013
Intanto, prendiamo nota (a suo modo anche questo è un effetto del corso targato Musk):
Altre cose interessanti
Se volete approfondire la figura di Elon Musk, allora lo speciale di Jefferson è imperdibile.
Poche altre volte è valso il detto “la fine di un’epoca” come quando la scorsa settimana Nancy Pelosi ha annunciato il ritiro da leader dem alla Camera, dove i repubblicani hanno ripreso il controllo (ma non al Senato), con le elezioni di metà mandato. Da giorni si parla di Hakeem Jeffries quale possibile sostituto di Pelosi alla guida dei democratici. Lo stesso Jeffries, su Twitter, aveva commentato dopo l’annuncio della storica leader: «Speaker Nancy Pelosi is the G.O.A.T.».
Avrebbe potuto aggiungere anche: «And if you don’t know, now you know», già che c’era. A inizio 2020, durante il primo processo di impeachment contro Trump al Senato, il deputato di New York, che all’epoca era uno dei portavoce dell’accusa, chiuse l’intervento citando The Notorious B.I.G. nel famoso verso di Juicy: «And if you don’t know, now you know».Jeffries è un fan sfegatato: a marzo 2017, a 20 anni esatti dalla morte, omaggiò Biggie alla Camera, definendolo «The King of New York». Per l’occasione mostrò un suo vecchio ritratto fotografico, considerato tra i più iconici di sempre nella storia dell’hip hop. La fotografia con la corona in testa, che consacrò Notorious B.I.G. in maniera inequivocabile «King of New York», venne scattata tre giorni prima del suo omicidio, avvenuto a Los Angeles il 9 marzo 1997. Dietro la macchina fotografica c’era Barron Claiborne, il quale aveva acquistato la corona di plastica per sei dollari, la stessa corona che è stata poi venduta a settembre 2020 da Sotheby’s per 594.750 dollari.
La storia l’avevamo raccontata qui, valeva comunque la pena recuperarla.
Nel frattempo, dalla morte di Biggie, sono passati 25 anni. Per l’occasione, il 16 dicembre, su Horizon Worlds, Meta omaggerà The Notorious B.I.G. in un evento chiamato Sky’s The Limit: A VR Concert Experience, con un avatar dell’artista che si esibirà nella “sua” Brooklyn ricostruita digitalmente in stile anni ‘90 e il famoso giornalista Touré che guiderà il pubblico durante l’esperienza (il concerto potrà essere seguito anche sulla pagina Fb dell’artista, ma in versione 2D). Sono previste incursioni di Diddy e altri.
Questa era divertente, tutto qua.
Playlist pronta, a voi non resta che premere il tasto play. Spero ogni cosa sia al suo posto: sono reduce da una settimana di salute così così, perciò siate clementi. Domande? Suggerimenti? Potete rispondere alla mail, oppure scrivermi su Instagram, su Twitter o su Mastodon (io ce lo metto, hai visto mai che). Se Mookie vi piace, mandate il link alle amiche e agli amici: più siamo, più il gioco si fa interessante!
Ci leggiamo tra due venerdì, a presto!