Just another case about the wrong path
Cinque anni di Mookie e il ritorno di Slick Rick
Nella serie Forever, su Netflix, l’attrice Karen Pittman interpreta una madre benestante che nutre grandi ambizioni per il suo figlio maggiore, prossimo al diploma: borse di studio legate allo sport, l’ammissione in prestigiosi college, eccetera. È anche molto apprensiva e quando il ragazzo vuole correre di sera dalla giovane amata, la sua prima preoccupazione è la polizia fuori. Perciò il padre del ragazzo (Wood Harris) gli fa ripetere le “regole di comportamento” da tenere a un posto di blocco: mani bene in vista, portafogli sul cruscotto, niente fronzoli o gesti che possano indurre gli agenti a facili fraintendimenti. La serie è ambientata a Los Angeles nel 2018 – si tratta di una rielaborazione dell’omonimo romanzo di Judy Blume, piuttosto controverso all’epoca della pubblicazione, nel 1975 – e le raccomandazioni dei genitori al giovane riportano alla memoria le tragedie, purtroppo reali, di pochi anni prima: l’uccisione di Philando Castile a Falcon Heights, Minnesota, in particolare.
Si tratta di un filo conduttore ricorrente nella letteratura, nel cinema, nella musica. La paura di pronunciare quella parola di troppo in grado di generare incomprensioni, di non fare la cosa giusta. Di essere senza alcun motivo percepito come una minaccia. Di essere solo un altro caso che prende una brutta piega. Lo abbiamo già scovato in diversi autori e lo ascoltiamo ancora oggi nelle parole di un giovanissimo rapper come La Reezy.
Il 25 maggio è stato il quinto anniversario della morte di George Floyd, ucciso nel 2020 a Minneapolis da un agente di polizia, poi condannato. Tutti ricordiamo come: il ginocchio sul collo per oltre nove minuti, le suppliche strazianti di Floyd, le drammatiche immagini catturate dalle fotocamere dei testimoni sul luogo. Ricordiamo anche quello che è successo in seguito: le proteste in ogni angolo d’America, gli arresti, altre morti, i dettagli sull’uccisione di Breonna Taylor che finalmente cominciavano a emergere, la campagna elettorale avvelenata da una retorica spesso incendiaria. Fu il clima di quei giorni a motivare la nascita della newsletter, le stesse emozioni provate nell’estate del 2014 – quella di Eric Garner e di Michael Brown, per capirci – durante la stesura di un progetto analogo. Ma la verità è che non ho pensato al fatto che Mookie avrebbe compiuto cinque anni (il 5 giugno, per l’esattezza) almeno fino alle commemorazioni di Minneapolis. Perdonerete, allora, se ci gireremo intorno.
Ciao! Qui Mookie, una newsletter di Fabio Germani che racconta pezzi sparsi di America attraverso il rap e la musica nera. Per contribuire al progetto, basta poco: un like, una condivisione, il passaparola, un caffè. Ogni vostro piccolo gesto può fare la differenza: grazie!
La prossima settimana, il 13 giugno, è atteso il nuovo album di Slick Rick, Victory, con produttore esecutivo Idris Elba. Arriva dopo 26 anni dal suo ultimo lavoro, The Art of Storytelling. È dunque lui l’artista “misterioso” che ad aprile la Mass Appeal Records aveva annunciato insieme alle uscite di altre leggende, tra le quali Nas e DJ Premier, Ghostface Killah, Mobb Deep, Raekwon, De La Soul e Big L.
Cosa c’entra Slick Rick con George Floyd e quel frammento della serie Forever di cui abbiamo accennato all’inizio? Ci arriviamo.
Children’s Story
Il rapper nato a Londra, ma cresciuto a New York, fece il suo esordio per Def Jam nel 1988 con The Adventures Of Slick Rick, collocandosi – insieme a Eric B. & Rakim, Boogie Down Productions e altri – quale “ponte” tra la vecchia e la nuova scuola dell’hip hop. Il disco contribuì soprattutto a riscrivere i dettami dello storytelling nel rap, perfezionando uno stile che verrà imitato per lunghi tratti dagli artisti della generazione successiva.
L’impronta è evidente in tutte e 12 le tracce che compongono l’album, ma è forse in Children’s Story che raggiunge il suo apice.
Ora, Children’s Story si presenta come una favola della buonanotte che lo zio Slick legge ai nipoti (introdotta con la classica formula Once upon a time not long ago…) e racconta le vicende di un giovane convinto da un amico a compiere furti. Solo che uno dei due si fa prendere la mano e finisce per derubare un poliziotto sotto copertura. Alla conclusione di una fuga rocambolesca – nel frattempo intervengono altri agenti – il ragazzo viene ucciso.
And this is the way I have to end this story
He was only seventeen, in a madman’s dream
The cops shot the kid, I still hear him scream
This ain’t funny so don’t you dare laugh
Just another case about the wrong path
Straight and narrow or your soul gets cast
Good night– Slick Rick, Children’s Story, 1988
Ai tempi l’archetipo narrativo era abbastanza condizionato dal crescente fenomeno del gangsta rap e si posizionava al centro della “guerra alla droga”, protagonista assoluta di tante puntate di Mookie in questi anni. Qualsiasi storia che avesse a che fare con vicende legate alla brutalità della polizia trovava origine in situazioni estreme, alcune più o meno incensate. Persino quello era un atto politico, un messaggio che andava oltre la mera esaltazione della vita criminale. Ma nel caso di Slick Rick e della sua Children’s Story non c’erano redenzione o lieto fine. Non sosteneva che il crimine fosse in qualche misura giustificato, anzi, però un ragazzo veniva ucciso e poteva essere la conclusione più normale di tutte. Il brano era sostanza, ma anche forma, denuncia implicita di un sistema che lascia poche alternative.
Il 25 maggio 2020 una decisione alternativa sarebbe stata possibile. L’agente di polizia Derek Chauvin, al contrario, scelse di immobilizzare George Floyd, premendogli il ginocchio sul collo in modo prolungato. Tra l’immagine di fantasia (seppur verosimile) di Slick Rick e la cruda realtà di cinque anni fa a Minneapolis, c’è un oceano di mezzo. Il contesto sociale è comunque cambiato, in molti suoi frangenti notevolmente migliorato, ma restano sparpagliate fragilità difficilissime da contrastare. In questo senso, entrambe le circostanze convergono, nel tempo e nello spazio, sulla vulnerabilità di determinate persone, al di là degli eventuali errori individuali.
Nel 1988 Slick Rick non ammetteva un finale consolatorio. Più di recente, nemmeno i tribunali e la condanna a Chauvin hanno provveduto a concederlo in profondità. Delle proteste del 2020 rimane per lo più il ricordo, mentre si osserva la volontà di voltare pagina, come simboleggiato dalla rimozione di Black Lives Matter Plaza. Anziché unire, il dibattito si è addirittura inasprito, soffiando sulle distanze culturali. Il Washington Post, tra gli altri, ha messo in fila gli sforzi promossi dopo la morte di Floyd e intanto decaduti a causa delle pressioni dell’attuale amministrazione statunitense, dall’archiviazione dei programmi di supervisione federale su alcuni dipartimenti di polizia (Minneapolis e Louisville) alla sporadica rinuncia delle iniziative per l’inclusione che numerose aziende americane stavano promuovendo (talvolta un po’ furbescamente, va detto), fino al graduale smantellamento delle politiche DEI.
Per quanto i sondaggi del Gallup Center on Black Voices mostrino pareri oggi più favorevoli nei confronti delle polizie locali riguardo le relazioni con le comunità e le aspettative di un trattamento equo – anche se le opinioni positive rimangono inferiori a quelle dei cittadini bianchi e alla media nazionale; inoltre il report evidenzia che gli intervistati più giovani esprimono maggiore scetticismo al riguardo –, in generale le uccisioni proseguono a un ritmo sostenuto e i neri continuano ad avere più possibilità dei bianchi di essere coinvolti, secondo i dati raccolti dall’organizzazione Mapping Police Violence.
Il Pew Research Center rileva che per la maggior parte delle persone non sia cambiato granché dall’omicidio di Floyd, nonostante le attenzioni che subito dopo sono state rivolte alle disuguaglianze razziali. E solo il 51% ora afferma che è molto o abbastanza probabile che i neri godranno di pari diritti, percentuale in calo dal 60% che la pensava alla stessa maniera a settembre 2020. Poi, al solito, il sostegno a un partito o all’altro altera parecchio idee e giudizi, ma questo è, grossomodo.
Cops Shot The Kid
Di sicuro Nas deve molto a Slick Rick: non lo ha mai nascosto e in parte lo dimostra anche l’impegno della Mass Appeal Records per il suo ritorno sulle scene. Nel 2018 un frammento di Children’s Story venne campionato per Cops Shot The Kid, brano prodotto da Kanye West. A ragion veduta, temi come la brutalità della polizia e la violenza istituzionale erano all’ordine del giorno o quasi, ora non più. La polarizzazione che conduce a discussioni sterili, l’assenza di incidenti di alto profilo o con la medesima risonanza emotiva del 2020 e, per paradossale che sia, un certo “affaticamento da notizie” (spesso utilizzato come strumento politico) sono elementi che contribuiscono a una specie di assuefazione corale.
Da quel 25 maggio 2020 sono trascorsi cinque anni e due elezioni. Sembra un’eternità.
White kids are brought in alive
Black kids get hit with like five
Get scared, you panic, you’re goin’ down
The disadvantages of the brown
How in the hell the parents gon’ bury their own kids
Not the other way around?
Reminds me of Emmett Till
Let’s remind ‘em why Kap kneels– Nas feat. Kanye West, Cops Shot The Kid, 2018
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🖋️ Cose scritte altrove
Per Humans vs Robots, ho scritto del centenario della nascita di Malcolm X attraverso la lente del jazz e dell’hip hop.
Questa puntata era un passaggio dovuto, grazie di aver letto fino in fondo ❤️
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Il problema del beef tra Donnie ed Elon nel parallelo fra Lamar e Drake è che entrambi sono Drake