Alcune settimane fa si sono rincorse voci riguardo la fine di DatPiff. Siccome il sito non era più raggiungibile, sui social è scattato in modo spontaneo un sofferto de profundis. Da quando esiste – all’incirca dal 2005 –, DatPiff è la più grande piattaforma di distribuzione per mixtape di musica hip hop e r’n’b. In pratica anticipò di qualche anno la generazione SoundCloud, diventando un ottimo veicolo per giovani dj, produttori, rapper o cantanti alla ricerca di un contratto, nonché il posto ideale per scoprire musica al di fuori delle dinamiche convenzionali. DatPiff ha segnato un’epoca, il sofferto de profundis era perciò giustificato, ma la piattaforma ha smentito le voci sulla sua fine e ha annunciato il prossimo capitolo della propria esistenza.
We was coolin’ in my car one day you see
Clockin’ a double nickel on the L-I E
When it dawned on us that it was, ten o'clock
Turned on the tunes to hear the DJ’s rock
The hands got to clappin’, the fingers got to snappin’
E and I was coolin’, with his mans, he was snappin’
In and out of fantasies on how large we can get– EPMD, Please Listen to My Demo, 1989
Nell’hip hop un mixtape non è solo un miscuglio di tracce audio. È un mezzo per inseguire il successo, sfidando le logiche dell’industria musicale. Negli anni ‘80 e ‘90 i ragazzi vendevano cassette fatte in casa nei parchi delle metropoli o nei parcheggi dei centri commerciali, oppure imploravano i dj di suonarle alle feste con la speranza che giungessero alle orecchie di chi contava nella musica. Poteva infine succedere che alcuni di questi nastri passassero di mano in mano e che venissero trasmessi dalle radio locali, segnando l’inizio di prestigiose carriere o frammenti di meteora. Spesso le registrazioni erano portatrici di messaggi di strada, uno strumento “politico” capace di creare valori alternativi a quelli della discografia ortodossa. Anche se lo spirito è cambiato, specie con l’avvento dello streaming, la tradizione prova a resistere al tempo e alle novità tecnologiche.
Ciao! Questa è Mookie, una newsletter di Fabio Germani che tratta di America in relazione al rap e alla musica nera. Per contribuire a questo umile progetto basta poco: un like, una condivisione, il passaparola. Ogni vostro piccolo gesto può essere incredibilmente utile: grazie!
A marzo il catalogo della Death Row è tornato a disposizione degli utenti dopo la decisione presa da Snoop Dogg, circa un anno fa, di rimuovere dalle piattaforme di streaming gli album storici come i suoi Doggystyle e Tha Doggfather, The Chronic di Dr. Dre e Dogg Food dei Tha Dogg Pound. La scelta era stata motivata in parte con la volontà di trasformare la Death Row in «un’etichetta NFT» – qualsiasi cosa abbia voluto significare –, ma è più probabile che sia dipesa dalla necessità di intraprendere nuovi accordi di distribuzione. Il ritorno su Spotify & Co., infatti, è arrivato l’indomani della partnership con gamma, società fondata da Larry Jackson, ex Head of Content di Apple Music. Snoop mantiene legittime riserve, ma lo streaming ha rappresentato una rivoluzione per il mercato musicale (se non altro a fronte di un fenomeno come la pirateria online) e continua a condizionare le strategie commerciali.
Sebbene Spotify non abbia sempre goduto di ampi consensi, in particolare tra gli artisti con fanbase di dimensioni ridotte, molti sostengono che le piattaforme di streaming generino, nel complesso, una ulteriore “democratizzazione” della musica. Non solo dal lato utente, che a costi tutto sommato ragionevoli può accedere ad una vasta libreria musicale, ma anche dal lato degli stessi artisti, adesso in grado di muoversi autonomamente per ambire a qualcosa di più redditizio. D’accordo: oggi con la musica in studio si guadagna poco, forse niente, ma riuscire a intercettare un pubblico, entrare “in rotazione” nelle principali playlist e contribuire alla creazione di una scena – non dimentichiamo il ruolo sempre più determinante dei social media –, sono azioni che possono condurre a sponsorizzazioni, contratti con le major, presenze nei festival, eventi live, merchandising, eccetera. Il discorso è difficile e sarebbe sbagliato ritenerlo di reale competenza per questa umile newsletter, ma è pacifico sottolineare come l’hip hop sia l’ambiente che si è mostrato più sveglio e maggiormente ricettivo alle opportunità tecnologiche, confermando la sua innata propensione a sfruttare le occasioni, quando queste si presentano. Curren$y, ad esempio, è stato tra i più bravi a farsi largo mixtape dopo mixtape, ep dopo ep, album dopo album.
Chiaro che rispetto a quando venivano venduti agli angoli delle strade, oggi i mixtape presentano una disposizione concettuale molto rinnovata, spesso sofisticata. Nel 2015 Erykah Badu pubblicò But You Caint Use My Phone, progetto che aveva le sembianze del mixtape in ogni suo aspetto strutturale, ma che seguì un percorso simile alle grandi uscite in stile Beyoncé, con l’esclusiva su iTunes per una settimana – 10 euro e 99 centesimi il download – prima di approdare su altri lidi. Tra la fine degli anni ‘90 e i primi Duemila, quello del circuito alternativo fu un sentiero che tornò ad essere battuto dopo il boom discografico dell’hip hop nel corso del decennio. All’epoca il campione assoluto era 50 Cent, prima cioè di diventare Mr. In Da Club, poi, sulla medesima scia, sono apparsi artisti quali The Game, Lil Wayne, Jeezy, Fabolous, T.I. e a seguire ancora altri: Kendrick Lamar, J. Cole, Drake, Nipsey Hussle, Childish Gambino, Joey Bada$$… Se quello di 50 Cent era un modello “ibrido” – dalle cassette si era nel frattempo passati ai cd e ai primi esperimenti online di condivisione musicale –, quello adottato più tardi dalla nuovissima scuola di rapper era in larga misura destinato al free download.
Am I the only n**** still care about mixtapes? (Hell no!)
Am I the only n**** still care about mixtapes?
I’m the only n**** still care about mixtapes– Chance The Rapper feat. Young Thug & Lil Yachty, Mixtape, 2016
Chi ha davvero reinventato il mixtape in questo periodo – escluso DJ Drama, vincitore a mani basse – è stato però Chance The Rapper. Di mixtape, come giustappunto li ha sempre chiamati, ne ha prodotti tre: 10 Day (2012), il più famoso Acid Rap (2013; pochi giorni fa si è celebrato il decennale) e Coloring Book (2016; il primo nel suo genere a vincere un Grammy), più uno collaborativo insieme al musicista Nico Segal – ai tempi Donnie Trumpet, nome che in seguito abbandonò: indovinate perché – e agli amici del gruppo The Social Experiment (Surf, 2015). L’idea di per sé era semplice: proporre musica in modalità free, anche se questi mixtape potevano confondersi con i lavori che i colleghi si ostinavano a chiamare “album”, così da sfruttare l’onda e guadagnare su tutto il resto. La cosa ha funzionato, in effetti. Un esperimento a metà strada tra Badu e Chance – quindi tra SoundCloud e iTunes – fu invece quello dell’esordiente Kamayah, nel 2016, con A Good Night In The Ghetto.
La diffusione capillare dei presunti mixtape che venivano caricati un giorno sì e l’altro pure sulle piattaforme come DatPiff, venne favorita inoltre dalle nuove frontiere del giornalismo musicale legato all’hip hop. Si può dire, insomma, che grazie a internet la cultura abbia accelerato la sua espansione, travalicando i confini per certi versi elitari della precedente generazione di appassionati. Siti come 2DOPEBOYZ e DJBooth hanno raccontato vicende e promosso artisti, accrescendo il bacino di utenza. Proprio in questi giorni è uscito un illuminante podcast, The Blog Era, che ripercorre le tappe di un’epoca che, come è stato già scritto, «era il selvaggio west della distribuzione e della scoperta della musica». Non è casuale che il primo episodio riguardi l’epopea di Joe Budden, rapper dai risultati altalenanti, ma che è stato tra i pionieri dei contenuti audio a tema hip hop con il suo podcast, che, anche se non siete assidui ascoltatori, potreste comunque ricordare per una lunga disputa con Spotify nel 2020. Altri show sono nati negli ultimi anni, come Drink Champs di N.O.R.E., People’s Party di Talib Kweli, il Questlove Supreme Podcast o Rap Radar del giornalista Elliott Wilson.
Listen to everything from a lecture
From the Honorable Minister Louis Farrakhan
To Serge Gainsbourg or Madonna or a podcast on piranhas
What a time we livin’ in, just like the scripture says
Earthquakes, fires, and plagues, the resurrection of the dead– Jay Electronica, The Neverending Story, 2020
Secondo il Pew Research Center circa la metà degli americani ha ascoltato un podcast nell’ultimo anno e uno su cinque lo fa abitualmente, a dimostrazione di un mercato crescente, seppur poco definito. Perlopiù si ascoltano podcast di intrattenimento e cultura, ma anche su politica e attualità. Il dato generale riflette le tendenze tra i diversi segmenti demografici, con i neri che prediligono l’ascolto di argomenti relativi a cultura e questioni razziali, spesso con frequenza superiore a quella manifestata dagli altri gruppi sociali. In anni di proteste, diritti minacciati (dal voto all’aborto), di cultural wars e pandemie, i podcast – compresi quelli presentati da personalità provenienti dal mondo del rap – sono stati una fonte inesauribile di opinioni e notizie.
Alcuni tra i più noti programmi radio hip hop, come Ebro in The Morning di Hot 97 e The Breakfast Club di Power 105.1, vengono ora adattati per rendere più semplice la fruizione anche in versione podcast. Nel 2020 il candidato alla Casa Bianca, Joe Biden, partecipò ad un’intervista con Charlamagne Tha God su The Breakfast Club che suscitò più di qualche reazione negativa. Siccome la conversazione stava per essere chiusa prima del previsto e ritenendo di avere delle domande in sospeso, il conduttore invitò Biden a raggiungerlo in trasmissione in un secondo momento. Ma Biden, in maniera sprezzante, rispose che se lui aveva dubbi su chi votare, allora non era nero. L’uscita fece arrabbiare tutti – liberal e conservatori – e costrinse il futuro presidente alle scuse immediate. L’impatto della black culture e nello specifico dell’hip hop sulla politica statunitense è un fatto consolidato, come quando Stacey Abrams fece la sua incursione durante la Verzuz Battle tra i due pesi massimi di Atlanta, Gucci Mane e il già citato Jeezy, allo scopo di ricordare agli spettatori l’importanza del voto al ballottaggio della Georgia del 5 gennaio 2021. L’hip hop per la politica non è più solo contenuto, ma anche contenitore.
Non sono mancati – né mancheranno, è presumibile – casi di disinformazione e orientati alla post-verità, ma tali formati improntati sul dibattito pubblico appaiono ormai imprescindibili nel sistema dell’infotainment. Dunque sarà stimolante verificare il mormorio che piattaforme, podcast, newsletter e musica sapranno alimentare in vista delle presidenziali 2024.
Altre cose interessanti
Dal rap ai podcast, alcuni personaggi non perdono tuttavia il vizio di litigare (anche quando sono amici).
Stanno arrivando, tu pensa, nuovi show per celebrare i 50 anni dell’hip hop.
Missy Elliott entrerà nella Rock & Roll Hall of Fame e sarà la prima volta di una donna rapper.
Si potrebbe obiettare che non affrontare il tema dell’intelligenza artificiale applicata alla musica, visto il recente caso di Drake e The Weeknd “clonati” (ma ce ne sono stati altri), sia una svista. Anche se di AI se ne sta parlando ovunque, devo confessare di non avere ancora un’idea precisa al riguardo, non dico originale, ma almeno qualcosa che sia più articolato del solito “mamma, che paura”. Ci torneremo, ma serviranno tempo e studio.
La playlist di Mookie è pronta: a voi non resta che premere il tasto play. Domande? Suggerimenti? Potete rispondere alla mail, oppure scrivermi su Instagram, su Twitter o su Notes. Se Mookie vi piace, mandate il link alle amiche e agli amici!
Piccola comunicazione di servizio: la prossima puntata di Mookie slitta al 26 maggio. State bene, a presto!