Per capire quando è cominciata la smania di insultarsi nell’hip hop, è opportuno guardare ai tempi del blues. Le canzoni blues erano piene, spesso, di provocazioni indirizzate a qualcuno, prosecuzione a loro volta di quello che ancora prima era stata un’usanza degli schiavi neri. Questo modo di fare, le dozens, è perciò diventato un rituale della tradizione afroamericana – dal blues al jazz (fu oggetto di studio anche da parte di Amiri Baraka1) –, poi sfociato nella cultura carceraria e “modernizzato” dall’hip hop attraverso il dissing. Dopodiché è accaduto che per sua natura – una natura di tipo politico-culturale, potremmo azzardare – l’hip hop abbia “costretto” i suoi seguaci a schierarsi nel mezzo delle faide tra rapper che via via si rendevano verbalmente più violente. E una cosa così, osserva JAY-Z in Decoded – un testo del 2010 a metà tra memoir e illustrazione accurata delle regole del gioco –, gli altri generi musicali non l’hanno mai sperimentata alla stessa intensità.
I’m from where the beef is inevitable, summertime’s unforgettable [...]
I’m from where n***** pull your card, and argue all day about
Who’s the best MCs, Biggie, Jay-Z or Nas?– JAY-Z, Where I’m from, 1997
Forse devo una spiegazione, in particolare alle nuove iscritte e ai nuovi iscritti della newsletter. Mookie non ha la pretesa di spiegare l’America in generale, tantomeno di spiegare l’hip hop. In compenso ha l’ambizione di studiare e indagare alcuni spaccati degli Stati Uniti, mettendoli in relazione alla musica nera. E se è di hip hop che si finisce a parlare di più, è perché quest’ultimo ha assunto – non da oggi – una dimensione globale, irrompe in diversi aspetti delle nostre vite (per passione, lavoro o altri motivi) e negli anni è stato tra i più vivaci movimenti artistici, in termini sociali e politici. La “battaglia” tra Kendrick Lamar e Drake (in realtà non solo tra loro, ma per il bene comune evitiamo di tirarla per le lunghe) ha catalizzato in questi mesi l’attenzione di milioni di fan, a fronte del minor grado di coinvolgimento dell’hip hop, nonostante il 2024 sia per gli Stati Uniti un importante anno elettorale (è una frase che si dice sempre alla vigilia delle presidenziali, ma stavolta è più vera del solito). Eppure gli screzi tra i due pesi massimi dicono molto della nostra epoca, della società attuale e persino dell’America. Se ci arriviamo mentre i riflettori sulla vicenda si abbassano, è perché a noi piace fare le cose con calma.
Ciao! Qui Mookie, una newsletter di Fabio Germani che racconta pezzi sparsi di America attraverso il rap e la musica nera. Per contribuire al progetto, basta poco: un like, una condivisione, il passaparola, un caffè. Ogni vostro piccolo gesto può fare la differenza: grazie!
Breve avvertenza. Non ci dilungheremo con la ricostruzione per intero della beef: ammesso che vi sia sfuggita, in giro potete trovare spiegoni per tutti i gusti. Basti sapere che lo scazzo ha avuto origine a marzo, quando Kendrick Lamar, ospite di Metro Boomin e Future in Like That, si è rivolto a Drake e J. Cole (il quale ha pensato bene di uscirne il prima possibile dal casino che da lì a poco sarebbe in effetti scoppiato), rammentando loro che c’è un solo “grande” in circolazione: lui.
Motherfuck the big three, n****, it’s just big me
N****, bum, what? I’m really like that
And your best work is a light pack
N****, Prince outlived Mike Jack’
N****, bum, ‘fore all your dogs gettin’ buried
That’s a K with all these nines, he gon’ see Pet Sematary– Metro Boomin & Future feat. Kendrick Lamar, Like That, 2024
Quella di Kendrick era una risposta alla precedente collaborazione tra Drake e J. Cole, First Person Shooter. La traccia ha fatto subito scalpore, ma a ripensarci con la giusta dose di lucidità, la circostanza poteva apparire normale nell’ambito di una scena musicale che prevede gli attacchi verbali tra colleghi. Era nelle possibilità, insomma, essendo il rap ultra-competitivo, al pari dello sport e della politica. Semmai ci si può interrogare sulle tempistiche e sui modi.
I modi, ecco. In fretta la questione si è trasformata in una “rissa” tra diversi rapper e Drake. Non si conosce con esattezza la motivazione – potremmo provare a trarre delle conclusioni, ma non in questa sede, non adesso –, fatto sta che Drake sembra essere inviso a tantissimi nell’universo hip hop, anche se alla fine la parte più interessante è stata la sfida con Kendrick Lamar. E mentre i due si scambiavano accuse pesanti – immaginate, da un certo momento in poi, la spasmodica rincorsa a chi pubblicava per primo il diss più brillante –, qualche spunto di riflessione non incline a determinare per forza il vincitore, piano piano, con fatica, cominciava ad emergere.
Per molti rapper, buttarsi nella mischia, è un rischio calcolato. Può aiutarli ad aumentare fama e credibilità, rivelandosi dunque un discreto sforzo di autopromozione. Ma lasciate stare chi sostiene che Lamar e Drake non avessero pretesti validi per scontrarsi, dato il riconoscimento internazionale di cui godono da tempo. È già successo, in passato, che artisti noti o addirittura all’apice della carriera ingaggiassero nuove battaglie. Tupac ritenne di avere le sue ragioni, giuste o sbagliate, per prendersela con Notorious B.I.G., con la Bad Boy Records e mezza New York; LL Cool J non si lasciò scappare occasioni ancora nei ‘90; JAY-Z e Nas “duellarono” per lo scettro di NYC che erano affermati e annoverati tra i migliori rapper della storia; 50 Cent e The Game, che dapprima militavano nella stessa squadra, si misero a litigare a successo ormai raggiunto; Eminem è Eminem e Drake, per tornare all’attualità, ha collezionato da famoso beef in quantità: con Meek Mill, Pusha T e Kanye West, prima di Kendrick Lamar.
Burner at the side of your dome, come out of my throne
I got this locked since ‘91, I am the truest
Name a rapper that I ain’t influenced– Nas, Ether, 20012
Perché da sempre funzioni in questo modo, lo spiega JAY-Z in Decoded. L’hip hop, afferma, presenta un ulteriore grado di difficoltà sugli altri generi musicali. Quando un artista arriva ai vertici delle classifiche, dietro l’angolo c’è qualcuno pronto a strappargli la corona. La gara non si esaurisce con l’album che ha venduto di più, piuttosto si tratta di confronto diretto. Non dovrebbe essere personale – invece spesso lo è –, in ogni caso per JAY-Z è un mix di poesia e boxe. In principio la competizione avveniva davanti a un dj, in puro stile dozens. Poi si è passati alle diss track, al primato delle vendite dei dischi (ora degli stream) e da ultimo agli insulti più o meno espliciti, in rima o sui social. Nel suo libro, JAY-Z racconta di essersi sentito “derubato” della possibilità di poter competere con Tupac e Biggie («A parte il dolore di perdere due formidabili MC e un grande amico»), tipo Michael Jordan che con i Bulls prese il sopravvento quando Magic Johnson e Larry Bird si ritirarono, perché la competizione spinge a dare il meglio di sé. È un carattere essenziale dell’hip hop, che piaccia oppure no. E purtroppo capita, come talvolta negli incontri di boxe, che tale competizione venga sporcata dai colpi sotto la cintura.
Sono anni che Drake riceve critiche dai colleghi per il presunto utilizzo di ghostwriter nei suoi testi, una sorta di peccato originale nel rap. Kendrick Lamar non è stato da meno, ma a questo giro la faida, caratterizzata dalla pubblicazione di tracce alla velocità della luce, non si è limitata alla valutazione dell’abilità di scrittura dei contendenti. Si sono sprecate insinuazioni di violenza domestica, di figli illegittimi, pedofilia, circostanze non verificate, ma spiattellate come se niente fosse, tanto da indurre Questlove a sentenziare – mentre là fuori una pletora di fan adoranti ne voleva ancora e ancora – che l’hip hop è morto sul serio.
Il punto è che il conflitto è stato trascinato oltre, portandolo sul piano identitario e culturale. Kendrick Lamar ha messo in dubbio la nerezza di Drake, mirando alle sue radici (Drake è nato in Canada da madre bianca ed ebrea e padre nero del Tennessee), per dargli infine del «colonizzatore», dedito a un’entità popular che poco o nulla ha a che spartire con l’hip hop.
How many more fairytale stories ‘bout your life ‘til we had enough?
How many more Black features ‘til you finally feel that you’re Black enough?– Kendrick Lamar, euphoria, 2024
No, you not a colleague, you a fuckin’ colonizer
– Kendrick Lamar, Not Like Us, 2024
Secondo gli appassionati e la critica, le risposte di Drake non sono riuscite a sottolineare adeguatamente le contraddizioni di Kendrick Lamar, il quale non si è sottratto alle collaborazioni con artisti pop (su tutte spicca quella del 2015 con Taylor Swift).
Ma di nuovo, il punto non è questo. E non è inedito.
Anche Pusha T, con The Story Of Adidon, prese di mira Drake per una vecchia foto in blackface, quasi a sottolinearne il tentativo di appropriazione culturale. Il problema – al di là delle capacità liriche – è come il tema viene affrontato, seguendo schemi pregiudiziali e stereotipati, i medesimi che Kendrick Lamar rifiuta nei suoi lavori più maturi. È però anche la conferma di una componente che rimane centrale all’interno della società statunitense: la frattura politica e razziale mai del tutto sanata, anche al cospetto dei progressi e dei timidi cambiamenti che si osservano negli orientamenti di voto, qui simboleggiata dalla collocazione ambigua dell’ingombrante figura di Drake.
A tutt’oggi Hit ‘Em Up di Tupac è ritenuta la migliore diss track di sempre, solo che all’epoca (1996) si contrapponevano due visioni antitetiche dell’America nera, una più rivoluzionaria, l’altra più materialista. E se anche allora – da consuetudine blues – venivano tirate in ballo famiglie, mogli, figli, la questione rimaneva entro i confini dell’America nera, o almeno dentro uno specifico serbatoio di eredità intellettuali. Al contrario, il discorso appare adesso più esteso e sottoposto al giudizio immediato degli utenti/fan che assistono in tempo reale – un pubblico tanto più ampio di quanto non fosse negli anni ‘80-‘90 –, lasciando senza responso un atavico quesito: la platea bianca è in grado di ascoltare la musica hip hop «come farebbe qualcuno dei Marcy Projects»?
Dentro quest’ultima, grande faida del rap si è visto pure troppo: il ricorso all’intelligenza artificiale e il conseguente mormorio, le distanze culturali aggravate dall’istantaneità tecnologica, la licenza estrema di avanzare qualsiasi sospetto, machismo, misoginia, ego smisurati. In pratica l’America del 2024 – una porzione consistente di essa, suvvia – in formato mini.
Altre cose interessanti
Donald Trump è stato dichiarato colpevole per i pagamenti a Stormy Daniels. Cosa cambierà in vista delle elezioni di novembre? (di Alvin Bragg, il primo nero a ricoprire l’incarico di procuratore distrettuale di Manhattan, avevamo scritto su Instagram nel novembre 2021).
Nelle ultime settimane abbiamo sottolineato il silenzio assordante dell’hip hop sulle vicende statunitensi e internazionali. Forse gli artisti non dovrebbero essere obbligati a manifestare le loro idee sempre e comunque, specie quando, si spera con umiltà, ritengono di non avere granché di intelligente da dichiarare: è un ragionamento difficile da sintetizzare in poche righe, ma l’arte è in grado di racchiudere un profondo significato politico anche nella sua sfera più intima. Ad ogni modo fa strano che a restare in disparte sia un pezzo di movimento di norma molto rumoroso. Sulla spinta delle proteste nelle università contro la guerra a Gaza e, perché no, anche delle recenti campagne online, si inizia a percepire un cambio di rotta. Dopo Macklemore, è stato il turno di Kehlani, che non le ha mandate a dire ai suoi colleghi.
Rolling Stone ha pubblicato una lunga inchiesta, per nulla lusinghiera, su Sean “Diddy” Combs. Il video diffuso nei giorni scorsi è inquietante, a dir poco. La sua reputazione è andata in frantumi e ora rischia un’accusa formale. Voletta Wallace, la madre di Notorious B.I.G., ha detto che prenderebbe a schiaffi il fondatore della Bad Boy Records.
Netflix ha annunciato di aver rinnovato The Vince Staples Show per una seconda stagione. Vince Staples ha pubblicato la scorsa settimana il suo nuovo album, Dark Times. Consigliatissimo.
Il video più divertente che vedrete oggi (ma con polemiche).
Eccoci ai saluti. La playlist della newsletter è pronta, questa settimana – ovvio! – a tema dissing: non resta che premere il tasto play. Domande? Suggerimenti? Potete rispondere alla mail, scrivermi su Instagram, su Threads o su Notes. Se Mookie vi piace, mandate il link alle amiche e agli amici!
Ci leggiamo tra due venerdì, a presto!
Riferimenti al riguardo sono presenti nel suo libro del 1963, Il popolo del Blues, da sempre un imprescindibile punto di riferimento per questa umile newsletter.
All’epoca, fan e critici giunsero alla conclusione che fu Nas ad aggiudicarsi la vittoria. Tuttavia questo non impedì a JAY-Z di diventare l’artista e l’imprenditore che oggi conosciamo (ne sa qualcosa proprio Nas…).