Possiamo vederla in due modi. Mercoledì 20 gennaio, a mezzogiorno, inizierà la presidenza Biden. Oppure: mercoledì 20 gennaio, a mezzogiorno, terminerà la presidenza Trump.
Tutte le cerimonie di insediamento di un nuovo presidente americano sono “storiche”, ma alcune, per qualche ragione, lo sono di più.
Bentrovati su Mookie, la newsletter che parla di America, musica nera e hip hop (ma forse più di America).
Era agosto 2008, i giorni della convention democratica a Denver, quando Politico titolò Obama = Jackie Robinson?. Non era la prima volta che si diceva qualcosa del genere. Jackie Robinson fu il primo giocatore afroamericano di baseball a militare nella Major League – in realtà non il primo in assoluto, diciamo che fu il primo a infrangere una regola non scritta che, più o meno dal 1890 e fino al 1947, aveva escluso i giocatori neri dalla MLB –, mentre Barack Obama, a breve, sarebbe diventato il primo presidente afroamericano nella storia degli Stati Uniti: il paragone veniva fuori in maniera abbastanza immediata.
Durante il panel organizzato da Politico e altri nei giorni della convention, l’allora deputato democratico Jesse Jackson Jr. – figlio di quel Jesse Jackson – osservò che come Jackie Robinson, anche Obama avrebbe dovuto «continuare a sorridere, perché nessuno vuole un uomo afroamericano arrabbiato alla Casa Bianca», aggiungendo subito dopo che gli scettici nel Partito democratico – soprattutto i Clinton – presto o tardi avrebbero dovuto riservare a favore di telecamera il loro «momento Pee Wee Reese». A cosa stava alludendo? Mettetevi comodi.
Tra i primi afroamericani ad avere raggiunto traguardi importanti ne mancherebbero all’appello ancora tre, dal vangelo secondo Jeezy (My President, 2008): Booker T-Washington – nel 1901 il primo ad essere invitato alla Casa Bianca, dal presidente Theodore Roosevelt –, Sidney Poitier – il primo a vincere il premio Oscar come migliore attore nel 1964 – e ovviamente lo stesso Jeezy, il primo del quartiere a guidare una Lamborghini. Per ragioni di spazio, parleremo solo di Robinson e Obama. Jeezy capirà.
Il contratto di Jackie Robinson con i Brooklyn Dodgers venne firmato nel 1945 grazie ad una formidabile intuizione di Branch Rickey, da un paio di anni manager della squadra. Robinson avrebbe disputato una prima stagione con i Montreal Royals (International League) per approdare definitivamente ai Dodgers l’anno successivo. L’accordo – pena la rescissione – prevedeva inoltre che Robinson, un tipo tutt’altro che pavido, avrebbe dovuto tenere i nervi saldi perché ovunque e su qualsiasi diamante era lecito aspettarsi insulti razzisti, minacce e intimidazioni da parte di avversari e pubblico sugli spalti. All’inizio andò così, in effetti. Poi arrivò il «momento Pee Wee Reese».
«Il 15 aprile 1947 – raccontò Dario Fabbri nel 2016 su Limes – Jackie Robinson fece il suo esordio a Ebbets Field con il numero 42 sulle spalle, primo nero ad accedere alla Major League. Se l’accoglienza nell’impianto di casa fu buona, l’ostilità nei suoi confronti si mantenne costante nelle gare in trasferta. A poco servì l’audace gesto del capitano Pee Wee Reese che, sebbene non avesse mai stretto la mano a un nero, sul campo dei Cincinnati Reds abbracciò Robinson sfidando gli strali razzisti dei tifosi locali. Per il New York Post Jackie era semplicemente “l’uomo più solo nel mondo dello sport”».
Nonostante alcune sfumature di grigio, la scena dell’abbraccio è rimasta impressa nella memoria collettiva. Qualcuno la ricorderà in 42, film del 2013 con Chadwick Boseman.
Alla stregua di Robinson sui campi della MLB – una World Series vinta nel 1955 con i Dodgers, il ritiro nel 1957 poco prima del trasferimento della franchigia a Los Angeles –, anche Obama si è sempre dovuto mantenere in equilibrio, tanto da candidato quanto da presidente. Il contesto era certamente diverso, ma il fatto che in un’occasione Joe Biden lo abbia definito un afroamericano «pulito» dovrebbe rendere bene l’idea. Com’era? «Nessuno vuole un uomo afroamericano arrabbiato alla Casa Bianca». Le volte (in definitiva opportune) che si è preso la briga di commentare un fatto che potesse implicare l’annosa questione razziale – l’assurdo arresto del professore Henry Louis Gates come l’uccisione di Trayvon Martin –, Obama ha calamitato, in una triste relazione di causa-effetto, critiche pretestuose della controparte repubblicana, almeno tra gli esponenti più rumorosi.
Just as Jackie Robinson was perfectly cast for his historic breakthrough, so, too, was Barack Obama. He emerged from relative obscurity as a beacon of hope and change. And, despite the roadblocks and setbacks, he remains so. The Obama presidency has been consequential.
– Un lettore del New York Times, qualche giorno prima dell’insediamento di Donald Trump.
Quanto a Jackie Robinson, la sua parabola non si concluse con il baseball. Nella “vita dopo lo sport” è stato (tra le molte cose) un fervente attivista per i diritti civili ed editorialista per il Chicago Defender, da dove ingaggiò un duello dialettico e intellettuale con il Malcolm X alla prima versione. Anche se in passato Malcolm X era stato il «più fanatico dei suoi tifosi», a dividerli, adesso, erano gli obiettivi della lotta (Robinson respingeva strenuamente l’idea di un’America “separata”). Nel 1960, invece, aveva sostenuto l’allora amico Richard Nixon – a quei tempi, ricorda il New York Times, un nero repubblicano non rappresentava un fatto insolito –, ma in seguito apprezzò i progressi ottenuti durante le amministrazioni Kennedy e Johnson. Alle presidenziali del 1964 fece campagna per il governatore dello Stato di New York, Nelson Rockefeller, ma siccome tra i repubblicani prevalse Barry Goldwater, il quale si era opposto al Civil Rights Act dello stesso anno, alla fine votò per il presidente Johnson (dopodiché sarà l’elettorato afroamericano nel complesso a virare verso il Partito democratico).
Robinson morì a 53 anni, nel 1972. Nel 1997 la Major League ritirò la maglia e dal 2004, ogni 15 aprile – il giorno dell’esordio in campionato nel 1947 –, ricorre il Jackie Robinson Day: per l’occasione i giocatori di tutte le squadre scendono in campo con il numero 42. Nel 2016 gli autori di una docuserie sulla sua figura, scrissero su Time qualcosa che in fin dei conti suona come un’ammissione di colpa della White America, la stessa – sebbene le dinamiche siano più complicate di come le stiamo sbrigativamente descrivendo – che seppe votare per Obama in quanto distante anni luce dallo stereotipo dell’«afroamericano arrabbiato»: «Concentrandoci quasi esclusivamente sul Robinson che “porse l'altra guancia”, gli abbiamo negato la sua voce e abbiamo modellato una narrazione più sicura e più semplice che rivela il nostro maggiore conforto verso un pioniere non minaccioso e imbavagliato, che aveva bisogno della mano amica dei bianchi ben intenzionati. La storia è molto più avvincente e ha tanto da insegnarci oggi, se siamo disposti ad ascoltare».
A marzo 2020, durante la quarantena, Spike Lee rese noto su Instagram che nel 1996 (quindi parecchio tempo prima di 42) stava lavorando ad un un biopic su Jackie Robinson, progetto che però lasciò incompiuto.
Il regista ha comunque omaggiato il campione in tanti modi, nel suo capolavoro Do The Right Thing del 1989 (qui Mookie gioca in casa...) e ancora, di recente, in uno spot per la Budweiser.
La filmografia di Spike Lee ha mantenuto un legame profondo con Brooklyn anche dopo Do The Right Thing – è a Fort Greene che si trova la sua 40 Acres and a Mule Filmworks –, ad esempio con Crooklyn (1994) e Clockers (1995), pellicole accompagnate musicalmente dai “supergruppi” Crooklyn Dodgers (Buckshot, Masta Ace, Special Ed) e Crooklyn Dodgers ‘95 (Chubb Rock, Jeru the Damaja, O.C.) in un incastro di parole – “crook”, truffatore, più Brooklyn –, che richiama ovviamente anche i Dodgers ai tempi di Robinson. Non è un caso, infatti, che in entrambi i brani venga menzionato il vecchio Ebbets Field (da Buckshot nel primo e da Chubb Rock nel secondo).
Anche “dodger” potremmo tradurre più o meno allo stesso modo di “crook”: anni dopo sarà JAY-Z a giocare di nuovo con le parole, ricordando Jackie Robinson:
I father, I Brooklyn-Dodger them
I jack, I rob, I sin
Aw, man—I'm Jackie Robinson
'Cept when I run base, I dodge the pen– Brooklyn (Go Hard), 2008
Perché ho voluto riproporre il fin troppo abusato confronto Obama-Robinson? Nulla di trascendentale, ma sono due grandi storie americane che spiegano molto di questi ultimi anni, «se siamo disposti ad ascoltare» (a pochi giorni, peraltro, dall’insediamento di un nuovo presidente che per certi versi è già Storia).
Arrivati a questo punto vorrei aggiungere solo un paio di spunti, legati ancora al baseball. A fine 2020 la Major League ha annunciato che includerà nelle statistiche ufficiali anche quelle dei giocatori – sono più di 3.400 – delle Negro Leagues, ovvero i campionati disputati fino al 1948 dai giocatori neri, prima dell’approdo a Brooklyn di Jackie Robinson. Qualche settimana fa, invece, i Boston Red Sox hanno ingaggiato Bianca Smith, la prima donna coach afroamericana nella storia della MLB (la “prima prima” si chiama Alyssa Nakken). Lavorerà in una squadra controllata di Minor League, a Fort Myers, in Florida, ma lei già mira alla Major. A Change Is Gonna Come, cantava Sam Cooke, solo che «a volte è frustrante constatarne la lentezza» (cit. David Byrne).
Altre cose interessanti
Restiamo a Brooklyn, anche se è fuori tema e non è baseball: con l’arrivo di James Harden, i Nets stanno costruendo una squadra niente male.
La scorsa settimana non abbiamo aggiornato, ma ci sono novità riguardo la vicenda capitata a Keyon Harrold.
Non sono tempi normali, ma questo lo avevamo capito da un pezzo. Per la puntata di oggi devo ringraziare pubblicamente Mirko Spadoni. Se siete capitati qui per caso e la storia vi è piaciuta, non c’è allora motivo per cui non vi iscriviate. Poi fate iscrivere anche i vicini di casa (caffè pagato, ci mancherebbe).
Dubbi? Domande? Potete rispondere alla mail, se vi va, oppure commentare o scrivermi su Twitter, Instagram (anche Facebook, sì).
Ci “sentiamo” venerdì prossimo, ciao!