La musica nei primi anni Duemila era una musica allegra. Si percepiva una necessità di spensieratezza, che aveva investito anche un genere duro e puro come l’hip hop. Non era come altre volte in passato — ad esempio negli anni della disco music — , quando dietro a un pezzo funkettone intriso di esperimenti elettronici si celava comunque un messaggio politico, di libertà giovanile e cose di questo tipo. La musica hip hop dei primi anni Duemila era proprio un’altra cosa, leggera, spesso priva di contenuti profondi — almeno nelle sue versioni radiofoniche, allorché le radio contavano qualcosa — , piena di balletti e video appariscenti, location da favola, belle macchine, ambientazioni futuristiche.
Questa tendenza dipese da diversi fattori. L’universo hip hop — per universo intendiamo anche la r’n’b di quegli anni, non solo il rap — aveva bisogno di una “pacificazione” dopo le morti eccellenti degli anni ’90. L’hip hop si stava arricchendo e litigare di brutto poteva ostacolare gli affari, mentre scalava le classifiche globali e riempiva i club, rendendosi sempre più pop o sperimentando le prime commistioni con la dancehall di Sean Paul. I ragazzi, insomma, erano usciti dal ghetto. Sì, d’accordo, una scaramuccia ogni tanto riempiva le pagine delle riviste specializzate (JAY-Z vs. Nas, Eminem vs. il Congresso Usa, 50 Cent vs. The Game e 50 Cent vs. il resto del mondo), ma a parte qualche momento di tensione, i livelli del decennio precedente non furono mai eguagliati. Un paio di cose, in quegli anni, accadevano frequentemente: qualche faccia da gangsta in meno, qualche sorriso in più.
Fu anche una reazione post-11 settembre, che ovviamente interessò la comunità hip hop. L’America intera cominciò, negli anni immediatamente successivi, ad alternare riflessioni e dolore a un bisogno organico di assoluta rilassatezza. Ripensandoci, fa quasi uno strano effetto ricordare che due commedie cinematografiche in salsa rap — The Wash, con Dr. Dre e Snoop Dogg, e How High con Method Man e Redman — uscirono poco dopo gli attentati di inizio settembre, benché (possiamo immaginare) programmate da tempo. Con ogni probabilità, serviva anche questo. Non che i problemi fossero svaniti, men che meno quelli legati alle minoranze, ma sapete, no? In strada c’erano Nelly e Kelly che ballavano: tutto, allora, era possibile.
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Qualcosa iniziò a cambiare con l’arrivo di Katrina, nell’agosto del 2005.
Il resto è storia, compresa quella di Kanye West.
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Sappiamo bene cosa è accaduto nel frattempo, come la tecnologia abbia contribuito a scoperchiare gli abusi, la brutalità poliziesca, le magagne nascoste del razzismo sistemico, con gli smartphone pronti a riprendere qualsiasi stortura e a condividerla online. Sappiamo anche come il rap sia tornato ad essere riflessivo e di protesta, inutile ora ripetersi. Ma per capire come sia cambiata la percezione, oggi, è comunque utile leggere la presentazione di Rap Life Live, evento alla Howard University (la più prestigiosa università privata nera degli Stati Uniti), in programma sabato 19 settembre e promosso da Apple Music.
In tempi di agitazione e incertezza, la musica è sempre stata uno strumento di guarigione. Specialmente all’interno della comunità afroamericana, essa va oltre il puro intrattenimento, per trasformarsi in una forma di resistenza, restaurazione e compensazione. Mentre il mondo sembra subire la pressione dell’ingiustizia, Rap Life Live, sullo sfondo della Howard University di Washington D.C., si rivolge agli artisti, rivestendoli del ruolo di guida e lenitivo. Tra quelle leggendarie mura, sinistramente vuote a causa della pandemia corrente, Rapsody, Lil Baby, Nas e Wale eseguono brani che offrono luce e testimonianze in uno spettacolo speciale presentato da Ebro, Nadeska e Lowkey. Puntando i riflettori su questi rapper, vogliamo mettere in evidenza il legame tra musica e messaggio, tra arte e giustizia, come è doveroso fare nel periodo che stiamo vivendo. Sintonizzati alle 4 del mattino, orario italiano, per una serie di esibizioni e discussioni ad alta intensità.
Altre cose di cui si sta parlando
A proposito di scaramucce dei primi anni Duemila. 50 Cent sta per lanciare un nuovo show su STARZ sulla faida tra lui e The Game (♡).
E a proposito, again. 50 Cent una volta disse di essere il George W. Bush del rap, cioè, sintetizzando, uno poco amato e piuttosto criticato, ma deciso a proseguire per la sua strada (Toni Morrison, scansati). In un’altra occasione, invece, definì l’ex presidente un gangsta per il suo interventismo post-11 settembre.
Credevate di avere visto tutto? Forse era vero finché Kanye West non ha pisciato su un Grammy. In questi giorni Kanye si è scagliato su Twitter contro le major, che sono le autentiche detentrici della musica degli artisti, ridotti sul lato contrattuale a diversamente schiavi. Peccato renda tutto un cabaret, perché nei suoi deliri non si può dire abbia sempre torto…
Momento nostalgia, diciamo. Mookie sta crescendo e di questo non possiamo che esserne contenti. Voi, però, mi raccomando: consigliate la newsletter anche ai nonni! Alla prossima settimana!