A costo di apparire retorico fin oltre il dovuto, per alcuni giorni mi sono chiesto se fosse il caso o meno di uscire con la newsletter. Quanto sta avvenendo in Ucraina è atroce e – senza considerare i maggiori impegni lavorativi – stare a blaterare di Kanye West, ma sarebbe potuto essere chiunque, non mi sembrava la cosa giusta da fare, date le circostanze. Sono tuttavia giunto alla conclusione – qui invece suonerò un sacco retorico, perciò scusate – che interrompere questo piccolo appuntamento avrebbe significato cedere il passo all’orrore. E questo, eventualmente, sarebbe stato ancora più ingiusto.
Bentrovati su Mookie, la newsletter cresciuta con The College Dropout.
Kanyeezy you did it again, you a genius!
– JAY-Z, Lucifer, 2003
Sarà che doveva essere il suo ultimo disco – o almeno così diceva all’epoca –, fatto sta che JAY-Z fu particolarmente generoso nell’introdurre i nomi di alcuni producer nei brani contenuti in The Black Album. Seguendo l’ordine di tracklist, la cosa interessò dapprima 9th Wonder in Threat – una mossa che rilanciò l’ex Little Brother in un periodo di alterne fortune – e poi Kanye West in Lucifer. A rivederla oggi quest’ultima, di mossa, potrebbe apparire niente di sbalorditivo, ma nel 2003 non era scontata. Perché i rapporti tra i due, parecchio pre-Watch The Throne per intenderci, non erano così stretti come in effetti sarebbero stati in seguito e Kanye West riuscì a «capitalizzare» il momento.
Una delle parole più abusate del nostro tempo è “genio”. Nel senso che si registra una tendenza a considerare “genio” chiunque, o “geniale” qualcosa, che sia poco al di sopra dell’ordinario. Su questo potremmo dibattere a lungo – magari è perché nel mondo attuale siamo chiamati a saper fare tutto, o quasi, che inevitabilmente la qualità si abbassa e quando c’è chi riesce ad alzare l’asticella allora lo chiamiamo “genio” –, ma non è Mookie la sede più adatta, dunque limitiamoci a quello che possiamo: per i parametri a nostra disposizione, Kanye West è un genio e lo è sul serio. Qui sta la premessa.
C’è un motivo se JAY-Z diede del genio a Kanye in quella circostanza. Mica scemo, JAY-Z. Due anni prima il giovane producer di Chicago, ma originario di Atlanta, giunto a New York per dare una svolta alla sua carriera nella musica hip hop, aveva contribuito a rinsaldare la credibilità del futuro “rapper miliardario” cresciuto nei Marcy Projects di Bedford-Stuyvesant, Brooklyn, dopo qualche anno di appannamento discografico (secondo molti). Dunque, The Blueprint, uscito per ironia della sorte, si fa per dire, l’11 settembre 2001, non solo riproiettò JAY-Z dove JAY-Z ha sempre ritenuto di dover stare, cioè nell’Olimpo del rap, ma introdusse nella scena – da Izzo (H.O.V.A.) a Never Change – quel giovane di Chicago che presto sarebbe divenuto tra i produttori più richiesti in assoluto.
Il problema era che Kanye West non voleva limitarsi ad essere un produttore, voleva essere soprattutto un rapper. Ed era convinto che prima o poi ce l’avrebbe fatta, nonostante pochi all’inizio avrebbero scommesso su di lui. Il resto è storia nota, messa a nudo in jeen-yuhs: A Kanye Trilogy. Questa settimana Netflix ha “trasmesso” l’ultimo episodio del documentario ed è altamente probabile che al riguardo abbiate letto già molto, il che facilita il lavoro qui. Vedere un ragazzo, di certo non famosissimo, dare l’ok ad una ripresa costante della sua vita per farne un documentario un giorno vicino o lontano è la proposizione ante litteram di “Kanye che fa Kanye”. Ma allo stesso tempo è un autentico documento dei primi anni Duemila, una testimonianza di come e perché l’hip hop sia riuscito a sopravvivere ai suoi stessi effetti collaterali, in buona parte proprio grazie alla “rivoluzione culturale” di Kanye West. E dalla loro i registi Coodie e Chike (autori inoltre di un video bellissimo di Erykah Badu, un po’ di anni fa), con il primo intento a filmarlo dai primissimi esordi, hanno avuto il merito di restituire, oltre l’armatura da spaccone, il volto più fragile di Ye.
Nelle ultime settimane Kanye West ha dato il peggio di sé per questioni che hanno a che fare con l’ormai – sembra ufficiale – ex moglie Kim Kardashian e la sua nuova frequentazione, Pete Davidson. Ha pubblicato sul suo Instagram il video di Eazy (con The Game) che dire sopra le righe è poco, dopo aver fatto a lungo il bullo proprio ai danni di Davidson. Più tardi, al contrario, ha compensato con un auspicio di pace in Ucraina. Insomma, il solito Kanye che fa Kanye, che non sai mai se è un giorno buono o un giorno cattivo, in cui o viene criticato duramente o viene perdonato, sempre e in ogni caso, dai fan più sfegatati.
Due anni fa – nel pieno della pandemia – si è celebrato il decennale di My Beautiful Dark Twisted Fantasy, uno dei suoi album più riusciti – molti diranno il più riuscito –, osannato da pubblico e critica. Quel lavoro, pubblicato a novembre del 2010, segnò la rinascita artistica al culmine di un periodo strano, che fu probabilmente un’intima risposta alla morte della madre Donda, avvenuta nel 2007. Come è stato correttamente scritto da altri esiste, infatti, un Kanye a. D. e un Kanye d. D., avanti Donda e dopo Donda, che in jeen-yuhs emerge in tutta la sua complessità, raccontando in una forma per nulla stereotipata – che pure verrebbe facile pensare nella relazione madre single e figlio – uno spaccato importante di esperienza afroamericana. Nella vita d. D., Ye si trasforma perciò in un personaggio pirandelliano, in grado di giocare d’anticipo sui tempi polarizzati che oggi osserviamo, spesso nostro malgrado.
Colin Powells, Austin Powers
Lost in translation with a whole fuckin’ nation
They say I was the abomination of Obama’s nation
Well, that’s a pretty bad way to start the conversation– Power, 2010
La politica è stata una costante nella carriera artistica e imprenditoriale di Kanye West. Qualsiasi cosa abbia toccato o anche solo immaginato si è trasformata in un’autentica rivoluzione. La politica per Kanye non comprende esclusivamente le velleità presidenziali o i Birthday Party – tempo fa scrissi di come un giorno potrebbe arrivare alla Casa Bianca, una guida per non farsi trovare impreparati (del resto eravamo ancora tutti increduli per la vittoria di Trump), in un quadro che contemplava ovviamente Kim Kardashian in veste di first lady –, ma è in primo luogo una presenza attiva, capace di fare rumore e notizia ad ogni parola pronunciata. Si collocano in questo senso le sue battaglie contro l’industria musicale – anche l’ultima trovata dello Stem Player, l’accrocchio/piattaforma di proprietà dove è possibile ascoltare Donda 2, è sintomatico della sua innata qualità di saper dettare le regole –, o le beef, da lui pubblicizzate oltremisura, con i brand e i marchi di moda con cui ha collaborato.
Su di lui possiamo avere legittimamente un’opinione positiva o negativa, ma pochi rapper sono riusciti a coniugare diversi aspetti della vita sociale, politica ed economica statunitense come Kanye West; pochi sono riusciti a creare dibattito in un modo che non si vedeva dai tempi di Sammy Davis Jr. – un’annosa questione su tutte: l’elettorato nero è davvero un blocco monolitico? (il bello è che Kanye ha votato per la prima volta nel 2020, chiaramente per se stesso) –; poche personalità, nell’hip hop, sono tanto contraddittorie da risultare influenti grazie soprattutto ai contrasti e ai demoni interiori.
I am a God
Hurry up with my damn massage
Hurry up with my damn ménage
Get the Porsche out the damn garage
I am a God
Even though I’m a man of God
My whole life in the hand of God
So y’all better quit playin’ with God– I Am A God, 2013
My mama was raised in the era when
Clean water was only served to the fairer skin
Doin’ clothes, you woulda thought I had help
But they wasn’t satisfied unless I picked the cotton myself
You see it’s broke nigga racism
That’s that “Don't touch anything in the store”
And it’s rich nigga racism
That’s that “Come in, please buy more”
“What you want, a Bentley? Fur coat? A diamond chain?
All you blacks want all the same things”
Used to only be niggas, now everybody playin’
Spendin’ everything on Alexander Wang
New slaves– New Slaves, 2013
They say “Build your own” – I said “How, Sway?”
I said "Slavery a choice" – they said “How, Ye?”
Just imagine if they caught me on a wild day
Now I’m on fifty blogs gettin’ fifty calls
My wife callin’, screamin’, say we ‘bout to lose it all
Had to calm her down ‘cause she couldn’t breathe
Told her she could leave me now, but she wouldn’t leave– Wouldn’t Leave, 2018
La prima rivoluzione di Kanye fu, giustappunto, musicale. Sebbene The College Dropout abbia impiegato anni – tra i dubbi iniziali della Roc-A-Fella e la cattiva sorte di Los Angeles nel terribile incidente d’auto che finì per rallentare i suoi piani – prima di diventare un classico dell’hip hop, quando uscì nel 2004 fu un’incredibile ventata d’aria fresca. Quel disco fu un capolavoro per due motivi: da un lato mandò in soffitta il vecchio gangsta rap, che ancora resisteva in 50 Cent e pochi altri esemplari degni di nota; dall’altro sfidò l’appiattimento del sound che, nei primi anni Duemila, risiedeva in particolare al Sud, nonostante il dirty south fosse in verità lo stile più ricercato nei club. E fa effetto vedere Kanye in jeen-yuhs che si aggira irrequieto tra gli uffici della Roc-A-Fella, mentre rappa in faccia ai dipendenti dell’etichetta di JAY-Z e soci sulle demo di future hit e tutti che lo guardano come a chiedersi «quando se ne va questo?», ma è anche la dimostrazione di un’invidiabile tenacia.
The College Dropout fu il primo approccio pubblico di Kanye West con la politica, seppure in una dimensione interiore, in cui si appropria del comandamento di Amiri Baraka – che però disfa e porta all’estremo nella spasmodica ricerca del genio – secondo cui l’arte non può che essere un atto politico. Un cerchio che si chiuderà, passando per Gil Scott-Heron in Who Will Survive In America, nel 2010, durante la fase di rinascita artistica.
Infine la politica in Kanye è nei rapporti umani. Che sono ottimi fino a un certo punto e d’un tratto sono a rischio. Lo abbiamo visto qualche anno fa con JAY-Z, lo abbiamo visto di recente con Kid Cudi. Ma la storia più esplicativa è addirittura quella con Talib Kweli, il primo a credere nel “rapper Kanye West” allorché gli altri si giravano dall’altra parte o facevano i finti tonti. Kweli ha raccontato del suo travagliato rapporto con Kanye West nel libro Vibrate Higher: A Rap Story, una vicenda che ha preso una brutta piega per via dei cappelli MAGA e delle inclinazioni confuse, ma antitetiche al suo pensiero. Un’idea, in generale, che Kanye rifiuta e che a suo modo è figlia anch’essa del tempo assurdo che stiamo vivendo. Kanye West è uno, nessuno e centomila.
Two words: Chi-Town raised me, crazy
So I live by two words: “Fuck you, pay me”
Screaming, “Jesus, save me”
You know how the game be, I can’t let ‘em change me
‘Cause on judgment day, you gon’ blame me
Look, God – it’s the same me
And I basically know now, we get racially profiled
‘Cuffed up and hosed down, pimped up and ho’d down
Plus, I got a whole city to hold down
From the bottom, so the top’s the only place to go now– Two Words, 2004
Altre cose interessanti
Il presidente americano Joe Biden ha nominato Ketanji Brown Jackson alla Corte Suprema, in sostituzione dell’uscente giudice Stephen Breyer. Il processo di conferma della nomina presidenziale al Congresso potrebbe dire molto del punto in cui si trovano gli Stati Uniti.
Il 23 giugno Kendrick Lamar a Milano, il 24 Anderson .Paak al festival La Prima Estate di Lido di Camaiore (Lucca). Si riparte alla grandissima!
Sono tempi interessanti da vivere, forse troppo. Domande? Suggerimenti? Potete rispondere alla mail, oppure scrivermi su Instagram o su Twitter. Se Mookie vi piace, mandate il link alle amiche e agli amici!
Ci leggiamo tra due venerdì. Good night and good luck.