Non sono giornate che scorrono via con leggerezza. Non lo sono in Europa, non lo sono negli Stati Uniti. Le notizie arrivate da oltreoceano nelle ultime settimane hanno scosso le nostre coscienze già abbastanza provate da quanto sta accadendo ad una “manciata” di chilometri da casa. Alla musica viene attribuita una funzione salvifica. Non è detto che sia sempre vero.
Bentrovati su Mookie, la newsletter che non commenterà la lista di Rolling Stone dei 200 migliori album hip hop di tutti i tempi.
Sei un rapper bianco di discreto successo con un album da poco “fuori” – come dicono quelli – che sta ottenendo un discreto successo, sei ospite di una radio che è voce storica dell’hip hop, ma – sottoposto a una specie di quiz – non riconosci Angel In Disguise di Brandy del 1998, che è anche l’anno della tua nascita. E siccome non è abbastanza, ammetti di non sapere che lei e Ray J (sì, quel Ray J) sono sorella e fratello. Voi ci vedete qualcosa di sbagliato? In effetti c’è chi ha maramaldeggiato sul povero Jack Harlow per la gaffe, ma non India.Arie, la quale in una serie di storie su Instagram è andata oltre il dileggio e ha commentato in modo abbastanza brusco le lacune del rapper: «Solo perché fai musica black, non significa che conosci la black culture». Al di là di come la pensiate, se avete seguito un po’ la vicenda (Brandy si è divertita in un freestyle in cui prende in giro Harlow, ma in un clima più disteso), India.Arie si è fatta portavoce di un’istanza che sarà vecchia come il cucco, per di più desueta, ma che di tanto in tanto riemerge e coinvolge i rapper bianchi. In altre parole, la fama, i soldi e il resto, saranno mai in grado di renderli parte integrante di un movimento che è innanzitutto afroamericano o saranno per sempre vittime di quello che Hanif Abdurraqib ha definito, giustappunto, «lo scherzo del rapper bianco»?
Let’s do the math: If I was black, I would’ve sold half
I ain’t have to graduate from Lincoln High School to know that
But I could rap, so fuck school, I’m too cool to go back
Give me the mic! Show me where the fuckin’ studio’s at
When I was underground, no one gave a fuck I was white
No labels wanted to sign me, almost gave up, I was like
“Fuck it”, until I met Dre, the only one to look past
Gave me a chance and I lit a fire up under his ass
Helped him get back to the top, every fan black that I got
Was prob’ly his in exchange for every white fan that he’s got– Eminem, White America, 2002
I rapper bianchi sono un’interessante unità di misura nella valutazione del rapporto tra le due Americhe, perché da un lato hanno la necessità di sentirsi accettati – devono mostrarsi credibili, per meglio dire – in un ambiente che di partenza non è il loro, dall’altro sanno che il pubblico di riferimento sarà soprattutto bianco e, data la premessa, avvertono il peso della doppia morale. I Beastie Boys furono l’inizio di tutto, ma l’idea si è consolidata con l’arrivo di Eminem, dopo l’esperienza dei 3rd Bass. Anche altri – Bubba Sparxxx e Paul Wall, passando per gente più underground tipo Aesop Rock, El-P e Verbal Kent, il compianto Mac Miller o Macklemore (il quale ha scritto un capitolo importante di questa storia, come abbiamo brevemente ricordato nella puntata su identità e cultura) – hanno vissuto situazioni analoghe, ma nessuno come Eminem ha dovuto sopportare un tale fardello. Se il modello primi anni ‘90 era Vanilla Ice, dopo Eminem il paradigma si fa più serio, al punto che «lo scherzo del rapper bianco» è diventato Eminem stesso. Sei bianco? Fai rap in America? È probabile, allora, che verrai spacciato per il nuovo Marshall Mathers o per qualcuno che ambisce ad esserlo.
Every interview, feel like I’m saying the same thing
Like “Em was great, yeah he paved the way for me”
He was inspiration for everybody from A to Z
But they keep relating me, I can’t get away, chasing me
(All Day Long) I hear it (All Day Long)
And now the masses think that Asher wants to be a Marshall Mathers
They say “Asher’s not a rapper, nah his ass is just an actor”
Cause we have the same complexion and similar voice inflection
It’s easy to see the pieces and to reach for that connection
Each second of every minute, each hour of every day
I’m constantly on the fence, defending my own name
Explaining we’re not the same– Asher Roth, As I Em, 2009
Resta però il fatto che chiunque si definisca “rapper” – poco conta che lo sia per hobby o a tempo pieno – si muove dentro un perimetro, quello dell’hip hop, le cui origini sono da ricercarsi nell’ambito di una più generica cultura afroamericana, esattamente il motivo che spinge molti, da quando esiste il rap inteso come genere musicale, a scandagliare ogni aspetto di vita – chi è, da dove viene, la storia della famiglia, il conto in banca – del “rapper bianco” del momento. È una circostanza che si verifica nell’hip hop più di quanto avvenga in altri ambiti, ad esempio nel jazz o nel soul. È la credibilità di strada che qualcuno è sempre pronto a rivendicare, per quanto ora fagocitata dall’attuale industria musicale, dai social media e dalle piattaforme di streaming. Tuttavia è un tema ricorrente che, a ben vedere, assume sfaccettature nuove almeno da quando Norman Mailer nel 1957 descrisse la figura dell’hipster, individuo bianco la cui esistenza si svolge a metà tra l’appropriazione culturale e la curiosità verso usi e costumi anticonformisti – una faccenda che stiamo edulcorando, ma che di recente è stata al centro di un caso di presunta “cancellazione” –, indagine che nel corso degli anni verrà riproposta in altre forme e che sarà centrale anche in Il rap spiegato ai bianchi di David Foster Wallace e Mark Costello.
L’ironia dei nostri giorni è che il rapper bianco passato ai raggi X è un retaggio, una pratica obsoleta, anche perché superata ormai dalla figura del conservatore che imita o, all’occorrenza, scredita la black culture e quanto le ruota attorno. Negli ultimi anni la massificazione della cultura nera e del movimento hip hop ha concesso a chiunque di accedere ad un linguaggio, a concetti e riferimenti da esibire secondo necessità. Volendo l’elenco è lungo: dall’uso della parola woke ai due pesi e due misure – a detta di alcuni senatori repubblicani, incluso l’immancabile Ted Cruz – adottati nei procedimenti penali relativi all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 e in quelli relativi agli atti di vandalismo durante le proteste di Black Lives Matter dell’estate 2020, fino ad arrivare alle improvvisazioni in chiave rap di candidati trumpiani al Congresso che cantano Let’s go Brandon.
Si tratta di una dimensione che può arrivare a comprendere una folta schiera di bianchi, giovani e meno giovani, ai margini del sogno americano cui Eminem, per il puntuale «scherzo del rapper bianco», ha dato voce, talvolta in maniera inconsapevole. C’è un ulteriore fattore, purtroppo di strettissima attualità, che divide e al tempo stesso unisce le due Americhe: le armi. Eminem, ancora, c’entra un po’ (ci arriviamo).
Le recenti stragi di Buffalo e Uvalde, più le altre sparatorie di massa e non registrate negli ultimi giorni sul territorio statunitense, hanno alimentato per l’ennesima volta il dibattito sul possesso di armi in America. È una condizione nota, che associamo automaticamente agli Stati Uniti e che da queste parti non è opportuno stare a ricordare in ogni singolo dettaglio, ma alcuni dati possono aiutare a comprendere meglio le diverse percezioni sul tema.
In particolare, quanto avvenuto a Buffalo il 14 maggio, abbiamo saputo che è stato ispirato dalla teoria complottista della “sostituzione etnica”, secondo cui esisterebbe un piano volto a sostituire le popolazioni autoctone (in America e in Europa) con persone provenienti da altri luoghi e che molte trasformazioni sociali della nostra epoca sarebbero indotte allo scopo, un acceleratore del cambiamento. Insomma, una serie di idee bislacche intrise di razzismo che soprattutto negli Stati Uniti, per ovvie ragioni storiografiche, non dovrebbero suscitare attenzione benché minima. Eppure tutto questo, unito alla facilità con cui in diversi angoli di America è possibile acquistare armi e dotarsi di veri e propri arsenali, può essere talvolta causa di morte violenta per decine di vittime sacrificali in un centro commerciale. O in una scuola. O in una chiesa.
In un sondaggio condotto a metà aprile dal Pew Research Center, circa un terzo dei neri intervistati (32%) ha affermato di essere preoccupato ogni giorno, o quasi, di poter subire minacce o essere attaccato per via della propria razza o etnia. Circa un asiatico americano su cinque (21%) si è detto della stessa opinione, così come il 14% degli ispanici, mentre tra i bianchi la quota si attesta al 4%. I neri americani hanno una probabilità più elevata di essere vittime di crimini ispirati dall’odio, secondo i dati raccolti dal FBI e i numeri del 2020 – circa il 35% degli oltre ottomila reati effettivamente denunciati – ne sono una conferma. Se l’inflazione è in cima alla lista delle preoccupazioni dei cittadini statunitensi in generale, la violenza armata e il crimine lo sono tra i cittadini neri (i quali sono altrettanto preoccupati per l’inflazione in aumento, è bene precisare).
Ma c’è anche l’altro lato della medaglia da analizzare. Le sparatorie e le morti sono frequenti tra i neri: gang e criminalità non sono espedienti solo cinematografici. Per quello che conta, da un punto di vista narrativo, pure l’hip hop annovera le sue vittime eccellenti, quando dalla fiction – gli spari che si sentono nei pezzi rap sono spesso un tropo che sta a indicare la “morte artistica” del rivale di turno – si passa alla vita reale. Sempre il Pew Research Center, in una rilevazione di ottobre 2021, ha evidenziato che circa quattro adulti neri su dieci (42%) hanno definito la criminalità un grave problema nello loro comunità locali, mentre la percentuale scende al 30% tra gli ispanici, al 24% tra gli asiatici e al 17% tra i bianchi. Gli Stati Uniti hanno evidenziato negli ultimi tempi un incremento di morti violente, con il tasso di omicidi che è aumentato del 30% tra il 2019 e il 2020. E in aumento sono gli omicidi legati proprio alle armi: il 79% di quelli avvenuti nel 2020, il valore più alto da decenni.
Secondo uno studio pubblicato poche settimane fa dai Centers for Disease Control and Prevention, il tasso di omicidi con armi è cresciuto tra i neri di quasi il 40% tra il 2019 e il 2020. I neri hanno circa 12 volte in più di probabilità dei bianchi di essere vittime di un omicidio con armi da fuoco, pur rappresentando il 13% della popolazione complessiva (sull’argomento Mookie consiglia la lettura di Un altro giorno di morte in America di Gary Younge).
Queste cifre non spiegheranno tutto, ma mettono in luce le diverse prospettive in materia delle due Americhe. Per i bianchi, specialmente quelli che vivono al di fuori delle aree urbane, in contesti spesso isolati, il possesso di armi è, oltre che un diritto sancito dalla Costituzione in un’ottica ultra-originalista, una fanatica garanzia di autodifesa per cui è ritenuto accettabile – nonostante le proposte e le opinioni diffuse su un maggior controllo – mostrare sorridenti l’artiglieria di famiglia per gli auguri di Natale; per i neri è piuttosto una questione di fai o muori e detenzioni illegali.
I got to sleep with two watch dogs and a rocket (Yeah)
Extra cautious, I already been caught without it
Gun on the edge of the sink when I’m in the shower (Shower)
It’s protection for me (Yeah, yeah) but for some it mean power (Yeah)
And Benny got a gun (Uh-huh), and Benny got some aim (Uh-huh)– BLK ODYSSY feat. Benny the Butcher & George Clinton, Benny’s Got A Gun, 2022
Tra i pezzi più interessanti (e forse più belli) del 2022 c’è WHEN SPARKS FLY di Vince Staples, brano contenuto nell’album RAMONA PARK BROKE MY HEART. Vince Staples rappa su una relazione con una pistola e nella seconda strofa è quest’ultima a parlare. In numeri assoluti, solo nel 2020 secondo i dati del CDC, 45.222 persone sono morte per ferite da arma da fuoco negli Stati Uniti.
Damn, can’t believe they took you from me
Kickin’ in your front door, lookin’ for me
Hid me in our secret place
Nothing I could do for you but sit and wait, contemplate
Did we leave a trail? Did we make mistakes?
Can’t drop on your bail, can’t check on your case
Know that you won’t tell, that’s why I’m afraid
You’ll probably never get to see the light of day [...]I like him ‘cause, you know, ‘cause...
‘Cause I know when somebody go back for me
We’ll be back together and we can have a little fun
But he’s in jail right now
For something that he had no business in doin’
“What did he do?”
They said he killed somebody– Vince Staples, WHEN SPARKS FLY, 2022
Ciò di cui nello specifico si discute in questi giorni, però, riguarda il bando alle armi d’assalto e i cosiddetti mass shooting, le sparatorie di massa. Nonostante la definizione non sia condivisa ovunque, di solito è mass shooting se si verifica un determinato numero di vittime, almeno tre o quattro a seconda di chi tiene il conto, in uno o più luoghi nelle vicinanze e in un breve periodo di tempo. Dall’inizio dell’anno – al 10 giugno 2022 – siamo già a 254 sparatorie di massa.
Quando a gennaio 2020 Eminem ha pubblicato il video di Darkness, brano che prova a ricostruire gli eventi di Las Vegas di qualche anno prima nei panni dell’attentatore, alla fine compariva un invito a registrarsi al voto, accompagnato da uno slogan: «Fai sentire la tua voce e aiuta a cambiare le leggi sulle armi in America».
Il 2020 è stato un anno elettorale complicatissimo a causa della pandemia e delle proteste che seguirono l’uccisione di George Floyd a Minneapolis. Il passaggio da un presidente molto vicino alla NRA ad uno che si rivolge al Congresso per cambiare lo stato delle cose, non ha prodotto risultati soddisfacenti, malgrado gli sforzi, al cospetto di un’opposizione massicciamente contraria a qualsiasi tentativo di riforma. Il punto è che mai nessuno alla Casa Bianca è davvero riuscito a compiere passi in avanti significativi. Lo schema, a livello mediatico e culturale, è stato a lungo il medesimo: reazioni indignate a tragedia avvenuta, per poi fare spallucce mentre si esaurisce il lutto collettivo.
«When will this end?», chiede Eminem al suo pubblico al termine del video. E l’importanza della domanda, seppur retorica, sta nei destinatari del messaggio più che nei contenuti. Valeva anche in quel caso, cioè, il principio osservato in occasione del freestyle in chiave anti-Trump ai BET Awards del 2017: in un certo qual modo Eminem e l’ex presidente condividono un’ampia area geografica di fan e sostenitori che ascoltano entrambi ed entrambi – sebbene agli antipodi – hanno ricevuto in passato critiche per battute sessiste più o meno gravi, di altro tenore o peggio, uscite dalle loro famose bocche.
Qui «lo scherzo del rapper bianco» ci è andato giù pesante.
Puntata impegnativa. I più attenti di voi all’ascolto avranno notato che l’uscita di Mookie è slittata di una settimana. Chiedo scusa per la mancanza, ovviamente, ma più o meno sarà così fino a luglio, quando poi ci saluteremo per la pausa estiva. E durante la pausa si faranno le opportune valutazioni sull’impronta futura da dare al progetto, che comunque riprenderà a settembre.
Ma restiamo all’attualità. Domande? Suggerimenti? Potete rispondere alla mail, oppure scrivermi su Instagram o su Twitter. Se Mookie vi piace, mandate il link alle amiche e agli amici!
Ah! Sapete che sono due anni di Mookie? Il format iniziale era tanto diverso da come è oggi, domani chissà… Anche per questa volta è tutto, ci leggiamo tra due venerdì (dovremmo farcela), a presto!