Black Is King è un’opera sontuosa, come sontuoso è più o meno tutto quello che Beyoncé — dal 2013 ad oggi — ci propina. Lei è ormai un’autentica diva, lo sa, dunque non si preoccupa dei giudizi, della critica, dei pettegolezzi. Lei fa quello che sente, perché può.
Epperò, epperò.
Resta il fatto che a qualcuno Black Is King non sia piaciuto.
Black Is King è il nuovo (ennesimo) visual album di Beyoncé, che riprende il disco uscito lo scorso anno — The Lion King: The Gift — , a sua volta ispirato al remake del Re Leone in cui presta la voce a Nala (Simba è doppiato invece da Donald Glover/Childish Gambino). Il visual vuole — diciamo così — riproporre la storia del Re Leone dal lato della blackness, ripercorrendo, cioè, gli antichi fasti dell’Africa, in una sorta di “ritorno alle origini”. Ciò che le viene contestato da alcuni, è la narrazione di una eccellenza e di una sfarzosità panafricana dal punto di vista esclusivo di una celebrity afroamericana (con la moda che ha un ruolo fondamentale nel film, visto il coinvolgimento di innumerevoli marchi, grandi e piccoli). Uno stile narrativo — per dirla più terra terra — quasi hollywoodiano. In sé, Beyoncé non ha inventato niente di nuovo. Il richiamo alle origini africane è da sempre costante nella costruzione di un modello interpretativo dei neri in America — il Black Power — , portavoce dei soprusi (eufemismo) che seguirono la tratta atlantica degli schiavi. Quello che cambia è il metodo di fruizione, per cui dicono gli scettici: quella proiettata da Beyoncé è Wakanda, non l’Africa.
Arrivati a questo punto potremmo continuare il dibattito per ore. Beyoncé e JAY-Z, ma non solo loro, sono tra i più fieri sostenitori della black excellence che inevitabilmente si riflette nella loro musica e nelle loro rappresentazioni iconografiche. Tutto ha un significato molto preciso in termini di “riconquista” degli spazi culturali e fisici che in passato furono privati ad un numero incredibile di persone. Qualcuno la definisce appropriazione culturale. Qui, invece, in tono sommesso, Mookie si limita a consigliarvi la visione di Black Is King — comunque indispensabile — su Disney+. Se si vuole approfondire l’argomento, suggeriamo l’articolo di Francesca Moretti.
A proposito di Disney+. Da alcune settimane sulla piattaforma c’è lo spettacolo teatrale Hamilton di Lin-Manuel Miranda. Raccontare la biografia di uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, farlo in chiave rap e soprattutto farlo in chiave rap a Broadway (con tutta la storia che si porta dietro), è qualcosa di fantastico. Visione altrettanto consigliata.
Adesso passiamo a più rapidi consigli agostani. Cominciamo dai dischi.
Niente Kanye West, ancora. Perché non siamo stupiti?
Run The Jewels — RTJ4 (poco da dire: disco dell’anno fin qui, in linea con i tempi come non mai)
Deniro Farrar — Sole Food (il secondo disco dell’anno, almeno per chi scrive)
Jay Electronica — A Written Testimony (terzo disco dell’anno, ovviamente. Un album a quattro mani con JAY-Z, di cui avevamo scritto qui)
Freddie Gibbs & The Alchemist — Alfredo (The Alchemist quest’anno è carico a pallettoni, questo è il migliore della serie 2020)
D Smoke — Black Habits (piacevole sorpresa)
Jabee — This World Is So Fragile and Cruel I’m Glad I Got You (abbastanza lungo nell’era dello streaming, ma dai contenuti di assoluto spessore)
Smoke DZA — A Closed Mouth Don’t Get Fed (una garanzia che è sempre una piacevole sorpresa)
Quelle Chris — Innocent Country 2 (piacevole sorpresa, anche qui)
Asoh Black! — Black Ocean: Season One (una scoperta)
Pink Siifu — NEGRO (se siete disposti ad ascoltare una cosa totalmente distorta e isterica)
Bene, passiamo ai podcast (ascoltabili su Spotify). Pronti? Via!
Escludendo show che o sono i titoli del momento — The Michelle Obama Podcast — o i titoli tra i più gettonati di sempre — The Joe Budden Podcast with Rory & Mal — ce ne sono altri che meritano l’ascolto.
Jamele Hill is Unbothered (originale Spotify) — la giornalista Jamele Hill ogni lunedì intervista personaggi di vario tipo — cantanti, rapper, attori, politici, sportivi — e dialoga con loro di attualità, problemi da risolvere, miglioramenti in vista, cose da fare.
Dissect (originale Spotify) — è l’esegesi di album che hanno caratterizzato questa epoca. Ad ora sono sei stagioni, la prima dedicata a To Pimp a Butterfly di Kendrick Lamar, l’ultima a Lemonade di Beyoncé.
1619 (The New York Times) — il 1619 è l’anno che indica l’inizio della schiavitù in America. Una nave carica di venti persone provenienti dall’Africa, futuri schiavi, arriva in Virginia. Il resto è storia. Il podcast della giornalista Nikole Hannah-Jones, che fa parte di un progetto più ampio molto dibattuto negli Usa, analizza conseguenze e risultati del contributo allo sviluppo degli Stati Uniti da parte degli afroamericani. Essenziale.
What Had Happened Was — Open Mike Eagle intervista Prince Paul, storico produttore dei De La Soul, tra gli altri, e già componente di Stetsasonic e Gravediggaz. Un’immersione completa nel mondo dell’hip hop.
È tutto per oggi e per il mese di agosto. Ci fermiamo, anche Mookie ha bisogno di riposo. Ci siamo fatti compagnia per diverse settimane, ora è arrivato il momento di ricaricare le batterie in questo strano 2020. Torneremo puntuali a settembre, garantito.
A presto e buone vacanze!